C’è bisogno di collezioni? Teorie, modelli, pratiche per l’organizzazione di spazi documentari connessi e condivisi
Dipartimento di Studi storici, Università degli studi di Torino; maurizio.vivarelli@unito.it
Questo contributo riprende e rielabora alcuni contenuti presenti in Formazione, sviluppo, integrazione delle collezioni documentarie, apparso all’interno del volume Biblioteche e Biblioteconomia. Principi e questioni, a cura di Giovanni Solimine e Paul Gabriele Weston, Roma, Carocci, 2015, p. 205-227.
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 7 maggio 2015.
Abstract
Nel corso del dibattito, nazionale e internazionale, riferito alla identità della biblioteca pubblica contemporanea l’interesse riferito al campo della gestione delle collezioni è stato indubbiamente molto limitato. In questo contributo ne vengono prese in esame alcune delle più significative caratteristiche, sotto il profilo teorico, metodologico, storico. In primo luogo vengono presentate e discusse le critiche radicali al concetto di “collezione” elaborate nell’ambito della “nuova biblioteconomia” di David Lankes, che maturano entro una cornice culturale fortemente segnata dalla crisi del concetto e della metafora del libro e di collezione, anche in seguito alla diffusione progressiva delle culture digitali; successivamente viene proposta una analisi del concetto di “collezione” da un punto di vista diacronico, all’interno delle pratiche disciplinari della bibliografia e della biblioteconomia. In conclusione viene sottolineata la necessità della adesione a una prospettiva di lunga durata per analizzare un tema di rilevanza centrale nell’architettura concettuale, metaforica e organizzativa di uno spazio, quello della biblioteca, che voglia continuare a connettere le informazioni con le esigenze cognitive delle persone.
English abstract
Within the Italian and international debate related to the identity of contemporary public library, the interest of scholars and librarians in collection management has been undoubtedly very limited. This paper examines and discusses some of the most significant features of the concept of “collection”, from a theoretical, methodological, historical point of view. First of all, the paper presents David Lankes’ critical thesis about the concept of “collection” developed in a “new librarianship”, matured within a cultural framework strongly marked by the crisis of the concept and of the metaphor of book, of “bookness”, and of collection, characterized by the progressive spread of digital culture. In second place, it analyses the idea of “collection” from a diachronic point of view, in the complex context of the disciplinary practices of bibliography and library science. In conclusion, the paper emphasizes the necessity of adherence to a long-term perspective to analyse a central topic in the conceptual and metaphoric architecture of library space, if we want that this space continues to connect information to the cognitive demands of people.
Alcuni elementi di contesto
Nel corso del dibattito recente che, in Italia e fuori, ha avuto per oggetto l’identità della biblioteca pubblica, il tema delle collezioni, del loro sviluppo e della loro gestione è stato senz’altro molto residuale, e di fatto quasi del tutto assente. Nelle tensioni che stanno modulando il campo della riflessione biblioteconomica, questa serie di temi paiono non suscitare più interesse, o quantomeno un interesse molto pallido e, direi, quasi larvale. Certamente l’indebolimento del ruolo e del concetto del “libro” e della stessa “librarietà” e, in genere, degli oggetti informativi della tradizione gutenberghiana ha avuto e sta avendo un ruolo significativo nel tracciare le linee di questa tendenza, in quanto ormai non può essere obiettata la tesi che assegna al concetto di collezione un ruolo non confinato entro i limiti della pura fisicità delle entità in essa incluse. Alla collezione fisica, insomma, si intreccia e si sovrappone la collezione digitale; alla biblioteca in quanto luogo dell’ordinamento materiale e concettuale dei libri si aggiunge l’indeterminato profilo dello spazio digitale, in cui si scontrano, ordinati e creativamente disordinati, flussi fruscianti di byte della più diversa e in buona misura ancora oscura natura, che magari, si auspica, potrebbero essere organizzati in dataset tra loro correlati attraverso la tecnologia dei Linked Open Data. Una critica radicale al concetto tradizionale di “collezione” arriva anche da altri fronti, che tra loro intrattengono relazioni in parte consapevoli e in parte non consapevoli. Uno, maggiormente definito sul piano argomentativo, può essere riferito alle tesi proposte da David Lankes nel suo Atlante. Lankes, rivolgendosi direttamente ai bibliotecari nel presentare il suo volume, scrive infatti che
lo scopo di questo libro è di descrivere ed esprimere quello che è difficile da sostenere: cioè che, pur strappati dalle collezioni, dai regolamenti e dalla biblioteca come istituzione, voi avete ancora valore […]. Il nostro valore non va ricercato nelle collezioni, o negli spazi fisici, o nell’organizzazione della biblioteca o anche nella nostra storia: è da ritrovare nelle vostre azioni;
e ancora, poco oltre, che gli “obiettivi” dei bibliotecari non possono in alcun modo essere affidati a «manufatti», ma solo alle «persone». È necessario dunque spostare l’attenzione dai «manufatti» alle «conversazioni» anche se ciò «non significa che la collezione debba scomparire del tutto», dato che «i manufatti e le collezioni che abbiamo costruito sono parte del patto sociale esistente che non può essere semplicemente annullato in previsione di nuove regole all’interno della comunità». Ancora, è importante anche «comprendere che l’idea di biblioteca come un insieme di manufatti è un’idea in via di estinzione da più di quarant’anni», e che, alla fine, la nuova collezione è costituita, alla lettera, dai «membri della biblioteca», e che dunque «la vostra comunità è la vostra collezione». Preso atto di tutto ciò, quale atteggiamento si determina nei confronti della collezione? Ecco la risposta di Lankes:
La soluzione? Vendere i libri. Liberarsi dai video e dai giornali. Mettere delle poltrone e lasciare che la conversazione abbia inizio, giusto? Beh, non proprio. Prima di tutto, le collezioni che esistono sono importanti e devono essere mantenute […] dobbiamo spostare la nostra attenzione dai manufatti alle conversazioni. Ciò non significa che la collezione scompaia del tutto. I manufatti e le collezioni che abbiamo costruito sono parte del patto sociale esistente che non può essere semplicemente annullato in previsione di nuove regole all’interno della comunità.
Una forte sottolineatura della natura complessa dei cambiamenti in atto, e delle implicazioni per le biblioteche, è presente anche nei Trend report pubblicati recentemente da IFLA. A fronte di questa linea di tendenza sta potentemente cambiando anche la natura degli interessi relativi alle pratiche, e agli atti, con cui quegli oggetti vengono utilizzati. La ricezione attraverso la lettura, individuale e condivisa, sfuma e si trasforma nella capacità di gestire criticamente “informazioni”, garantita dal possesso di adeguate competenze di information literacy. A fronte di questi complessi fattori di mutamento stanno naturalmente evolvendo (o comunque cambiando) anche i modelli di produzione commerciale. L’e-book ha ormai assunto un rilievo significativo entro questa nuova cornice comunicativa, sia nella sua dimensione hard e materiale sia in quella soft e, di nuovo, cognitiva e interpretativa, e ciò implica una ridefinizione, in atto, dei meccanismi di distribuzione e di accesso ai nuovi supporti che veicolano e organizzano informazioni digitali. Si stanno diffondendo nuovi profili di tutela dei diritti connessi all’accesso ai contenuti informativi, in cui di nuovo si incrociano la protezione dei diritti di proprietà intellettuale, di quelli di natura economica dei soggetti produttori, di quelli, generali e astratti, che dovrebbero regolare il diritto di accesso alle informazioni in quanto “beni comuni” della conoscenza.
I motivi di questo atteggiamento riferito al concetto stesso di “collezione”, che sembra riguardare sia la comunità scientifica che professionale, sono dunque certamente non irrilevanti, e inoltre non è semplice metterli in evidenza con chiarezza, sia perché stanno accadendo ora, sia perché il numero di variabili da prendere in esame è decisamente assai elevato. Più in generale, oltre i confini della biblioteconomia nella sua specifica configurazione disciplinare, si situano fenomeni socioculturali che riguardano le dinamiche editoriali connesse alla cosiddetta “filiera del libro”, in cui si intrecciano elementi di natura economica, riguardanti il mercato del libro, con altri di natura più estesamente sociale e sociologica, e che riguardano le modalità di consumo, le pratiche di lettura, gli stili di ricezione dei contenuti testuali e informativi. Proprio in questo ambito, certamente articolato e complesso, si situa tuttavia uno dei possibili ruoli della biblioteca, e delle sue collezioni, nel garantire eque condizioni di accesso ai libri, alle informazioni e alla conoscenza, come esplicitano i più noti documenti di orientamento politico e programmatico, dal Manifesto IFLA/Unesco (<http://archive.ifla.org/VII/ s8/unesco/ital.htm>) alla recente Dichiarazione di Lione per l’accesso all’informazione e allo sviluppo (<http:// www.lyondeclaration.org/content/pages/lyon-declaration-it.pdf>), in cui si afferma con chiarezza che deve essere assicurato, per le diverse tipologie di pubblico, «un accesso permanente al patrimonio culturale, agli archivi pubblici e alle informazioni grazie alla gestione delle biblioteche e degli archivi nazionali e altre istituzioni incaricate della conservazione del patrimonio culturale». La nobile retorica della Dichiarazione, tuttavia, non basta da sola a garantire equilibrate condizioni di accesso a un mercato, del libro e delle informazioni, che da sempre è ovviamente caratterizzato da dinamiche di natura in senso stretto economica. La fisionomia delle collezioni di una biblioteca, dunque, da questo specifico punto di vista, potrebbe costituire un efficace antidoto alle caratteristiche di un «mercato delle lettere» che rischia di appiattirsi sui best seller, sugli interessi dei grandi gruppi editoriali, e di non garantire adeguata visibilità alle peculiarità dell’editoria indipendente e della cosiddetta “bibliodiversità”. In questo senso, dunque, le collezioni delle biblioteche possono (e forse debbono) trasformarsi in strumenti attivi di tutela e di promozione dei diritti dei lettori rispetto a logiche solo mercantili di organizzazione e gestione di questi particolari consumi culturali.
In questo coacervo di complessi punti di vista, dobbiamo dunque chiederci, c’è spazio per le collezioni delle biblioteche? E, se come si cercherà di dimostrare, questo spazio c’è, quale può essere la sua configurazione? Quali le strategie che possono, attualmente e prospetticamente, organizzarlo?
Con questo contributo si cercheranno di proporre alcune considerazioni in merito, utilizzando traiettorie argomentative tra loro integrate. In primo luogo verranno discusse le linee generali del concetto di “collezione” da un punto di vista diacronico, mostrandone la centralità all’interno delle pratiche disciplinari prima bibliografiche e poi biblioteconomiche; successivamente si analizzeranno brevemente elementi significativi del dibattito specificamente biblioteconomico inerente questo tema; infine si proporranno alcune considerazioni che vertono sul ruolo delle collezioni, e della lettura che a esse è applicata, in un contesto socio-tecnocognitivo che certamente sarà caratterizzato in misura crescente dalla diffusione delle informazioni documentarie digitali, ma che non può non continuare a rimanere radicato, nel modo più saldo possibile, entro i confini della propria storia.
Collezioni, identità, pratiche disciplinari
L’identità della biblioteca, solo in epoca recente divenuta “pubblica”, è costruita e resa percepibile in larga misura attraverso la configurazione delle sue collezioni, sulla base dei princìpi di selezione e di ordinamento degli oggetti documentari situati all’interno dei suoi confini, fisici e concettuali. Le collezioni, prima nello studiolo, poi negli spazi per curiosità e meraviglie (Kunstkammer, Wunderkammer), infine nei vasi librari delle biblioteche barocche, sono state governate grazie alla visibilità del loro spazio bibliografico. A partire dalla metà del Settecento le trasformazioni del libro e delle pratiche di lettura, contestuali al precisarsi dei confini disciplinari della biblioteconomia, hanno causato una graduale astrazione dello spazio bibliografico della biblioteca dal tessuto visivo cui esso era intrecciato, delegandone la rappresentazione agli strumenti di mediazione catalografica, secondo una linea che dalla Bibliotheca universalis di Conrad Gesner giunge a maturazione nella riflessione di Gabriel Naudé, che nell’Advis avverte l’esigenza di normare ciò che «riguarda l’ordine e la disposizione che devono avere i libri in una Biblioteca», avvertendo che «senza ordine tutte le nostre ricerche risulterebbero vane e il nostro lavoro infruttuoso». L’ordine dei libri è specchio dell’ordine del sapere; le parole e le cose rimandano vicendevolmente le une alle altre, in una stagione culturale in cui lo spazio bibliografico, secondo quanto scrive lo storico dell’arte Eric Garberson, è concepito come un «uninterrupted whole», all’interno del quale «ordered arrangement promoted not only retrieval, or the location of individual books within the mass, but also study, by demonstrating the place of each book in the whole of knowledge». Infine, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, il diffondersi della società dell’informazione ha suscitato nuove linee di interpretazione dei caratteri architettonici e documentari dello spazio, rendendo di nuovo evidente la centralità di una “idea” visibile, radicata in un luogo, delle collezioni, e della loro filigrana concettuale. La collezione, nel suo significato sincronico di «ensemble structuré d’objects», si rivela diacronicamente «collecte intentionnelle, à savoir d’un processus d’accumulation précédé ou accompagné d’une activité de sélection»; essa è parte del patrimonio, cioè dei beni ricevuti in eredità, di cui va giuridicamente tutelato il trasferimento alle generazioni future; tema, questo, trattato nella fondamentale opera diretta da Jean-Paul Oddos, in cui le collezioni si collocano nel campo dei fenomeni di lunga durata, per cui è necessario tener conto, soprattutto, dei pubblici del futuro: pensiamo a quanto ciò divenga di drammatica attualità se riferito ai problemi della conservazione delle informazioni digitali disseminate nel web. Le procedure di gestione delle collezioni dipendono dalla adesione a un modello di riferimento; ciò emerge con evidenza, ad esempio, dalla lettura di una rassegna sulla letteratura anglo-americana degli anni 2009 e 2010 di Marcia L. Thomas, che individua per le biblioteche accademiche linee di tendenza la cui piena attuazione dovrebbe determinare la fine dei canoni gestionali tradizionali: la selezione, disintermediata, verrà effettuata dagli utenti, e le biblioteche abbandoneranno il modello ibrido per avviarsi verso un futuro solo digitale, in uno scenario che le più autorevoli opere di sistematizzazione enciclopedica (a matrice nordamericana) vedono caratterizzato solo da costitutive incertezze. I fondamenti della letteratura tecnico-scientifica, maturati dalla fine dell’Ottocento nell’ambito della library science con i testi di Dana, Bostwick, McColvin, conoscono un significativo punto di elaborazione nella “triade” proposta nel 1979 da Hendrik Edelman, che distingue tra fase programmatica del «collection development», processi decisionali della «selection», procedure amministrative della «acquisition». Nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso si sono affermate le locuzioni “collection management” e “knowledge management”, in relazione al diffondersi di teorie e metodi provenienti dal campo delle discipline organizzative, e al loro intreccio con le culture digitali. Nella letteratura di lingua francese prevale l’uso di “politique documentaire”; in Italia, tra anni Settanta e Novanta, il focus linguistico è in ordine di tempo su “scelta”, “acquisti”, “costruzione”, “gestione”, “formazione”, “sviluppo” delle raccolte. La letteratura recente si correla ai modelli concettuali, ancora non del tutto precisati, della biblioteconomia gestionale, digitale, sociale. Al primo è riconducibile il “canone biblioteconomico”, con cui, alla fine degli anni Novanta del Novecento Giovanni Solimine aveva modellizzato procedure fondate sull’efficacia del “sistema” biblioteca, entro le quali «compito del bibliotecario […] è innanzi tutto quello di mettere a fuoco il “valore biblioteconomico” di un documento». Al secondo modello si correla la proposta di Ross Atkinson di dar conto del fatto che gli oggetti digitali si collocano al di fuori dello spazio fisico della biblioteca tradizionale, ed entrano a far parte della collezione solo se ciò viene richiesto; ciò che conta non è il possesso, ma l’accesso. Un oggetto digitale viene incluso in una collezione in quanto è conforme a criteri che nel loro insieme delimitano un’area bibliograficamente controllata, la «control zone»; l’aggiunta di un singolo oggetto documentario produce cambiamenti nella natura sia del documento che delle collezioni, alterando, come il celebre battito d’ali della farfalla, gli equilibri dell’ecologia informativa dell’uno e delle altre. Su questa opacizzazione dei confini della biblioteca insistono numerosi autori, convinti che la selezione, per divenire compiutamente postmoderna, non possa che essere a-gerarchica e reticolare. Tra questi il bibliotecario statunitense Jesse Holden, assertore della necessità di acquisizioni «rizomatiche», fondate sul concetto di “rizoma” di Gilles Deleuze e Félix Guattari, trattato nei due volumi di Capitalisme et schizophrénie. Il terzo modello delinea i tratti della “biblioteconomia sociale”, che, secondo la proposta di Solimine e Faggiolani, sposta il baricentro della biblioteca (e delle sue collezioni) verso l’esterno, così da consentirle di essere «sempre più attenta ai segnali che provengono dalla società». Per riassumere, si può affermare che lungo la tradizione gutenberghiana ci si è basati su alcuni assunti, in base ai quali: a) le unità bibliografiche sono acquisite sulla base di valutazioni che ne precedono l’utilizzo, vale a dire just in case; b) i diversi criteri della scelta si radicano nella dimensione bibliografica delle collezioni; c) la figura di riferimento per l’attuazione della scelta è un bibliotecario qualificato ed esperto, che opera entro i vincoli di princìpi più o meno formalizzati. In relazione al progressivo affermarsi del canone postmoderno si individuano alcuni elementi di discontinuità, tra cui: a) le unità bibliografiche vengono acquisite in base alla manifestazione di un bisogno da parte di un utente, cioè just in case; b) i metodi e le procedure della scelta tendono ad allinearsi sincronicamente a queste esigenze informative, e dunque a esserne direttamente guidate. I fattori di mutamento sono evidenti, così come i rischi di interpretazioni che nello stesso tempo ne preconizzino il futuro, e concorrano nello stesso tempo a determinarlo. Ciò si riflette anche su ruolo e funzioni attribuiti agli utenti: sostituire un atteggiamento orientato agli oggetti delle collezioni con un altro, speculare, orientato alle persone, non costituisce un progresso epistemologico, dato che, ontologicamente, non esistono – almeno questo è il mio parere – “collezioni” o “utenti”, ma solo relazioni interpretative che collegano gli utenti alle collezioni, attraverso concrete pratiche di letture storicamente determinate. L’utente, in tal senso, è alla fine solo una metafora, corrispondente a quella del Lettore ideale delineata da Umberto Eco in Lector in fabula, che può essere utile per elaborare politiche di acquisizione razionalmente fondate. Sostituire l’Utente ideale (che è un’astrazione) con la moltitudine frammentaria degli Utenti empirici vuol dire delegare il ragionamento a una impersonale e metafisica “intelligenza” collettiva, concretizzata di fatto nelle procedure di calcolo delle macchine. Per questi motivi può essere utile riflettere ancora sulle osservazioni di Naudé, quando scrive, nel quarto capitolo dell’Advis, che colui che può «degnamente» occuparsi «di quale qualità e condizione devono essere i libri» debba essere un «uomo saggio e prudente», capace di elaborare giudizi fondati sull’«uso» e sulla «natura» dei libri, e che, aggiornandone le competenze a oggi, sappia muoversi con equilibrio negli scenari della documentalità contemporanea, rinunciando ai «capricci» della propria e altrui fantasia.
Cuocere la conoscenza
Per molti secoli, dunque, l’organizzazione materiale e concettuale delle collezioni delle biblioteche ha svolto un ruolo non marginale e non secondario nel rendere percepibile – in primo luogo attraverso lo sguardo –, il sapere nella sua elusiva complessità. Questi aspetti sono ben evidenziati dallo storico Peter Burke, quando rileva la complementarietà delle funzioni di accademie e università, enciclopedie e biblioteche nel concorrere alla organizzazione, nello spazio fisico e concettuale, della conoscenza; e, in particolare per le biblioteche, della conoscenza registrata in peculiari classi di oggetti informativi, variamente denominati (libri, documenti, risorse documentarie). Lo stesso Burke, tuttavia, mostra con chiarezza la difficoltà che si incontra nel cercare di definire in maniera analitica che cosa sia questo “qualcosa” che viene ordinato, concettualmente e materialmente. Per questo egli si chiede:
Rispondere alla domanda: «Cos’è la conoscenza?» è quasi altrettanto difficile che rispondere all’ancora più famosa domanda: «Cos’è la verità?». È […] necessario distinguere anche la conoscenza dall’informazione, il «sapere come» dal «sapere che», ciò che è esplicito da ciò che viene dato per scontato. Per convenienza questo libro userà il termine «informazione» per riferirsi a quanto è relativamente «crudo», specifico e pratico, mentre «conoscenza» denoterà quanto è stato «cotto», elaborato o sistematizzato dal pensiero.
Ciò che è certo, comunque, è che almeno dalla prima età moderna all’Illuminismo l’ordinamento delle biblioteche ha garantito uno spazio di integrazione e di connessione tra ricerca, elaborazione intellettuale, costruzione del campo della pubblica opinione, organizzazione documentaria, mediazione e disseminazione dei contenuti, come testimonia, celebre esempio, lo spazio aperto e ordinato della Biblioteca universitaria di Leida all’inizio del XVII secolo (Fig. 1).
La fisionomia di questo territorio, come è noto, si è profondamente trasformata. Una sorta di impronta fossile la possiamo certamente individuare nel modello, mitico, della Bibliothèque du Roi immaginato da Étienne-Louis Boullée nel 1785, con cui si rende visibile, nostalgicamente, l’idea di uno spazio documentario universale e totalizzante, una dimora aulica e sacrale della conoscenza che viene intuita proprio quando la sua realtà fenomenica sta per essere travolta dall’energia trionfante del vapore e delle tecnologie della prima rivoluzione industriale. La visibilità delle collezioni come dispositivo a supporto della comprensione scompare, o almeno si attenua fortemente, o viene rubricata come elemento di natura meramente ornamentale. Dopo Boullée la «scienza» della biblioteca, da Martin Schrettinger in avanti, migra gradualmente nel campo della tecnica e della tecnologia, formale e astratta, di uno strumento, il catalogo, che dovrà necessariamente assumersi l’arduo compito di produrre un corpus di regole con cui surrogare, in una rete di relazioni visivamente inaccessibili, la collezione che allo sguardo è ormai definitivamente nascosta. Lo sguardo, con tutte le sue implicazioni cognitive, viene privato della forma materiale del suo oggetto, e, dalla metà dell’Ottocento in avanti, lungo tutta la cosiddetta great tradition catalografica (cioè da Antonio Panizzi a oggi), l’interesse della comunità professionale e scientifica si concentra sul microspazio della scheda prima e del record bibliografico poi, e cioè sulle tecniche di descrizione e indicizzazione delle entità che, pensate ormai nella loro plastica materialità di “volumi”, si nascondono alla vista nella penombra dei magazzini. Ma, come Giambattista Vico aveva sagacemente previsto nel quinto libro della Scienza nuova, nella storia si verificano «corsi e ricorsi», e il visivo, che era stato marginalizzato oltre la superficie tecnocrati- ca della registrazione catalografica, riemerge potentemente grazie ai pixel delle interfacce dei computer, e in particolare degli elementi iconici in esse contenuti. La funzione delle immagini è stata dunque decisamente riscoperta, sia nel campo delle arti visive che del pensiero scientifico, negli ampi e fluidi territori conoscitivi della tarda modernità. Federico Vercellone, autore di recenti monografie sul tema, individua in particolare in Mario Perniola, Jean Baudrillard e Guy Debord coloro che hanno dato impulso al cosiddetto iconic turn, su cui si è radicato il proliferare dei visual studies. Ancora una volta il “vedere”, come sostiene Vercellone, equivale alla «costituzione di un mondo comune»; e, ancora, l’immagine può dare origine a uno strumento «che consente di costruire costellazioni a partire dalle sue prerogative», e intrattiene profonde relazioni ermeneutiche, circolari, con la realtà di cui è rappresentazione. Di nuovo, insomma, l’immagine può essere pensata come un complesso dispositivo che permette e nello stesso tempo orienta la percezione e l’interpretazione dei fenomeni sociali e di quelli connessi alle modalità, ormai mobili e sfumate, di rappresentazione del sapere. Dunque l’immagine, prosegue Vercellone, è anzitutto una “forma”, che come tale può qualificarsi come «principio ordinatore delle singole esperienze». Per questo si può ritenere molto fondato il punto di vista di Uwe Jochum, in un denso articolo pubblicato qualche anno fa da «Library Quarterly», con cui sostiene che «From the very first appearance of the book, we have a whole apparatus of textual features that serve to connect written and printed text in readers’ memories, thus forming a mnemonic network». Jochum è convincente nel mostrare come la dematerializzazione del testo possa essere pensata come una sorta di transustanziazione della physis in techne; e in ciò si rivelano i fondamenti sostanzialmente religiosi della fede nella tecnologia, che Jochum riconduce direttamente alla tradizione gnostica. Lo gnostico, infatti, prosegue Jochum «is convinced that this world is bad and should be replaced by a better one». Risulta dunque evidente la polarizzazione che viene a definirsi tra coloro che parteggiano per la biblioteca fisica o per la biblioteca virtuale; la biblioteca fisica, radicalizzando le tesi contrapposte, viene percepita «like a museum: a dusty thing of an older time that is simply superfluous in the postmodern world of a global community and economy». Lo spazio, materiale e concettuale, della biblioteca nel suo esserci anzitutto percettivo è dunque indispensabile per garantire la persistenza della infrastruttura mnemonica richiamata in precedenza; questo modello di biblioteca, infatti, «provides scholars and students with a mnemonic grid that is able to indicate the significance of a text by indicating its ‘place’ in the stream of tradition, whereas electronic database, which do not and cannot have a spatial memory grid, are blurring the significance of text». Sulla base di questi argomenti è possibile allora individuare un solido fondamento teorico che giustifica la necessità della persistenza dello spazio delle collezioni, e dunque «whoever opts for a real life in this world, and not for an utopian transformation of our world into a noncorporeal and electronically shining and translucent cosmic spirit, has to opt for real books and libraries». Inoltre, come argomenta in un suo contributo Jeffrey Garrett, parlare di dematerializzazione della biblioteca virtuale implica la contestuale convinzione della precedente, solida convinzione dell’esistenza della biblioteca fisica («To speak of the ‘dematerialization’ of the library is to suggest that it, the ‘real library’, was ever truly material in the first place»). La dimensione concettuale della biblioteca, dunque, va ben distinta sia dalle caratteristiche dell’edificio, sia dalle risorse documentarie intese nella loro meramente materiale concretezza, ed è invece: «An abstract system of organized data that is distinguished from all the artifacts and other physical things – as well as the virtual representations – that we associate with it». Questa dimensione astratta, simbolica e metaforica, della intima dimensione cognitiva dello spazio documentario della biblioteca, peraltro, emerge con chiarezza intuitiva se immaginiamo questo spazio negato nel suo doppio postmoderno, e dunque rappresentato con la cifra del labirinto. È ciò che si è ritenuto di proporre, ad esempio, con il design interno della Hjørring Central Library, in Danimarca, in cui un nostalgico (e tuttavia suggestivo) nastro rosso attraversa le collezioni alla ricerca di un ordine documentario che non c’è più (Fig. 2).
Tra memoria e partecipazione
Questo campo argomentativo, già abbastanza denso e problematico, diviene ancora più complesso se il concetto di “collezione” viene pensato, secondo una più ampia prospettiva, come estendibile all’insieme delle cosiddette istituzioni della memoria, e cioè biblioteche, archivi, musei. L’argomento della convergenza tra queste istituzioni non è nuovo, e anzi, come abbiamo visto in apertura, ci conduce nel cuore dei fenomeni culturali da cui traggono origine le tradizioni disciplinari della bibliografia e della biblioteconomia, dell’archivistica, della museologia. In relazione alla diffusione delle culture digitali sono stati ripresi molti dei temi riguardanti l’organizzazione degli oggetti documentari in ambiente digitale, prendendo atto, come ha rilevato Klaus Kempf, di un diffuso interesse per le «possibilità di cooperazione tra i tre settori e la costituzione di collezioni (digitali) comuni». Sul versante internazionale possono essere richiamati l’ampia rassegna presentata nel rapporto IFLA Public Libraries, Archives and Museums: Trends in Collaboration and Cooperation (2008, <http://archive.ifla.org/VII/s8/ pub/Profrep108.pdf>), e lo studio promosso dall’agenzia bibliografica OCLC (Social Metadata for Libraries, Archives and Museums. Part 1-3, 2011-2012, <http:// www.oclc.org/research/publications/library/2012/ 2012-01r.html>), che rileva l’esigenza di una capacità comune di comunicare attraverso il web, favorendo la produzione di contenuti generati direttamente dagli utenti. In questo scenario va richiamata la costituzione di MAB Italia (<http://www.mab-italia.org/>), avvenuta nel 2011 a opera di AIB (Associazione italiana biblioteche), ANAI (Associazione nazionale archivistica italiana), ICOM (International Council of Museums), la cui presenza può costituire una opportunità per riflettere sulle più adeguate modalità di collaborazione o integrazione tra archivi, biblioteche e musei, e sulle figure professionali che in essi operano. Un argomento di interesse comune è costituito dalle questioni inerenti la percezione e l’uso dello spazio documentario di musei e biblioteche, per valorizzarne la struttura informativa attraverso opportuni sistemi di ordinamento e di allestimento, ipotizzando la creazione di aree di contestualizzazione, inter- e transdisciplinari, tra diversi oggetti documentari.
Altri possibili percorsi si collocano a monte delle collezioni, e implicano la tessitura di legami tra oggetti documentari situati nelle diverse tradizioni disciplinari. Ciò può essere applicato, ad esempio, alla gestione dei fondi documentari di origine personale; in quelle che sono espressione di una memoria documentaria territoriale, e infine in quelle collezioni “speciali” che per la loro natura possono essere conservate indifferentemente in biblioteche, archivi, musei, come ad esempio le fotografie. Possono essere segnalate, per la gestione integrata di fondi personali, l’esperienza del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino (<http://www.primolevi.it/>), nel cui catalogo coesistono registrazioni di oggetti di natura bibliografica, catalografica, archivistica, o quella del Museo Galileo di Firenze (<http://www.museo galileo.it/>), che rende disponibili modalità di ricerca estesa a testi a stampa e manoscritti, risorse iconografiche, oggetti di pertinenza museale. Degna di nota anche l’esperienza del CEDECA – Centro Documentale Etnografico per la Cultura Appenninica (<http:// www.cedeca.it/>), che integra in un ambiente unitario tipologie di oggetti documentari eterogenei; l’home page segnala la copresenza di essi in ambiti documentari (Luoghi, Folklore, Musica, Storia, Ricordi, Libri), suddivisi in «stanze» navigabili e interoperabili.
Ritorno al presente. La biblioteca che connette
Buona parte di questo contributo è stata dedicata alla analisi, certamente sommaria, di alcune delle più significative trasformazioni in atto, cercando di fornire elementi utili per una migliore comprensione. In questo paragrafo, invece, verranno proposte alcune osservazioni di natura più decisamente radicata nel campo pragmatico dell’agire biblioteconomico. Il primo aspetto rilevante consiste nell’interpretare lo spazio delle collezioni – fisiche e digitali – come uno dei territori d’elezione in cui coltivare l’esercizio del pensiero critico. La biblioteca, anziché inseguire il mito asettico e algidamente tecnocratico di un proprio fondamento nella neutralità della mediazione, potrebbe costruire proprio in questo ambito un proprio peculiare profilo identitario, ampio e consapevole, radicato con etimologica umiltà nell’alveo della memoria documentaria e nello stesso tempo, dialetti- camente, aperto all’interpretazione dei contesti multipli che, tutt’intorno, possono essere individuati. La cultura biblioteconomica che, secondo questa traiettoria, dovrebbe alimentare l’agire concreto, potrebbe scegliere di radicare le proprie fondamenta non nell’inattingibile mito della “terzietà”, ma proprio, e per certi aspetti al contrario, nel suo essere palesemente di parte, schierata in modo consapevole non solo sulla linea di un generico attivismo nutrito solo di se stesso, ma come soggetto istituzionale orientato alla promozione dei “valori” migliori della nostra tradizione culturale e documentaria, e che possono agevolmente trovare una chiara individuazione, oltreché nei documenti sovranazionali di orientamento programmatico, proprio nel ricchissimo tessuto culturale, civile, normativo della nostra bellissima, e troppo spesso vilipesa, Carta costituzionale. L’articolo 3 contiene in nuce tutti i possibili criteri (da declinare poi nelle più specifiche Carte delle collezioni) per uno sviluppo consapevole e autenticamente democratico dell’offerta documentaria:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Io ritengo, insomma, che potrebbe essere molto più produttivo correlare i “nostri” valori, con uno sguardo di lunga durata, alla peculiarità dell’esperienza nazionale ed europea, con tutte le sue tensioni e contraddizioni, piuttosto che alla neutralità – peraltro illusoria – di un plesso di tecniche la cui vocazione, sia detto con tutto il possibile rispetto, non può che essere pragmatica e applicativa. Secondo questa prospettiva i temi e i concetti centrali riguardano dunque, in primo luogo, le attività di selezione, e non è certamente una novità. Già nella fase originaria del definirsi del pensiero bibliografico, a fronte di un mitico e inattingibile rispec- chiamento universalistico del mondo nelle collezioni, emerge con netta chiarezza l’importanza della selezione. Ancora Conrad Gesner così esprimeva questi concetti cinque secoli fa, nelle Pandectae:
Perché nessuno rivolga querimonia alla pubblicazione quotidiana di molti e grandi volumi, che nessuno riesce a leggere, al peso che aggrava le menti, alla crescita delle spese, né similmente accusi anche questo volume, si tenga per fermo questo: in entrambi i tomi della Biblioteca mi sono proposto il solo scopo di diminuire gli scritti inutili, almeno per quello che riguarda la lettura, così che sia più facile scegliere tra i moltissimi un solo testo o un piccolo numero di essi, al cui confronto molti altri sono inutili ove trattino lo stesso argomento.
Per questo, e in primo luogo, c’è bisogno di collezioni, che già nella loro immediata e percepibile identità comunicativa sappiano qualificarsi come segni in grado di dar vita a uno spazio bibliografico e informativo vibrante, dinamico, produttore di senso e di significato per le persone che decidano di utilizzarlo. E, proprio qui, diventa di nuovo essenziale la capacità, professionalmente addestrata ed esercitata, di organizzare e far crescere collezioni vive e pulsanti, qualunque sia la natura degli oggetti documentari in essi inclusi. Offrire collezioni ampie, creative, accuratamente e creativamente gestite è probabilmente un potente antidoto rispetto all’asfissiante e omologante brusio dell’inutile. Entro questa prospettiva il libro – cartaceo o digitale – può continuare a essere, anche nelle sue più avveniristiche traiettorie evolutive, in quanto elemento di un più ampio contesto – la biblioteca, cartacea e digitale –, un elemento costitutivamente rilevante per cercare di garantire, con ostinata determinazione, il mantenimento di spazi istituzionali capaci di migliorare la qualità della vita delle persone. Insomma, senza un ampio e arioso orizzonte di riferimento la concretezza dell’agire biblioteconomico rischia di arenarsi, o su secche rigidamente tecnicistiche, o, all’estremo opposto, su un ingenuo e fideistico entusiasmo attivistico, le cui ragioni etiche e deontologiche non vanno certamente sottovalutate, ma che da solo non può in alcun modo essere ritenuto sufficiente.
La forma delle collezioni
La forma visibile delle collezioni, espressione e garanzia dell’ordine documentario, è stata sostituita dalla frammentazione spesso decontestualizzata dei contenuti digitali, utilizzati solo quando (just in time) se ne manifesta l’esigenza, e solo labilmente interconnessi nelle trame fragili dell’ipertesto globale. La collezione classica non esiste più, nella sua vagheggiata e mai raggiunta unitarietà formale e concettuale; tuttavia, dalle sue stesse ceneri, emergono le forme mobili che configurano le interfacce dei nuovi ambienti documentari, nelle quali l’aspirazione alla struttura, espulsa dalla porta, rientra, proprio alla lettera, dalla finestra delle nuove architetture informative. Ed è lungo questa prospettiva che si situano importanti opportunità, che vanno dalla integrazione dei contenuti documentari di archivi, biblioteche e musei, in grado di garantire spazi cognitivi in cui le schegge del sapere documentario, parcellizzate e irrelate, divengano espressioni di contesti dinamicamente interagenti, fino ai concreti e diretti benefici derivanti da attente politiche di gestione e sviluppo delle collezioni, in grado di garantire l’accesso a libri e contenuti informativi non appiattiti solo su un marketing del libro dal respiro corto. Se non la biblioteca, quale altra istituzione può garantire il presidio attivo di questi diritti, proiettandoli inoltre su un asse che sia anche quello della «lunga durata»?
Sul piano applicativo le molte biblioteconomie di questi anni non mostrano una chiara e delineata capacità di definire procedure di valore paradigmatico. La copresenza di assunti teorici diversi legittima l’applicazione dei criteri più eterogenei, in alcuni dei quali si manifesta il rimpianto di un ordine concettuale che non c’è più, e in altri, di più convinta derivazione postmoderna, si concretizza la convinzione delle sorti, magnifiche e progressive, derivanti dalla partecipazione degli utenti alla costruzione della metaforica conversazione documentaria globale, intrecciata a un altro nastro, quello inventato da Alan Turing (di cui lo scorso anno è caduto il sessantesimo anniversario della tragica morte), ben più complesso, nella sua infinità, di quello alla fine solo ludico di Hjørring (Fig. 3). I fattori di crisi che investono la natura stessa dell’idea di biblioteca ci inducono a pensare alla necessità di attrezzarsi per attraversare territori nuovi e inaspettati, nei quali le convinzioni sedimentate lungo la tradizione dovranno trovare la capacità di incrociarsi con gli imponenti fenomeni di mutamento in atto, i cui esiti sono ancora in larga misura sconosciuti. Ciò si riflette nel campo delle esperienze di caso, dando origine ad atteggiamenti oscillanti e contradditori, che in certi casi, fideisticamente, intravedono nel pieno affermarsi del digitale la realizzazione del migliore dei mondi documentari possibili, e in altri affidano alla forma classica della biblioteca, e delle sue collezioni, la funzione di evocare, con rimpianto nostalgico, un passato idealizzato che anch’esso, naturalmente, non c’è mai stato. L’unica strada praticabile sembra dunque essere quella di affidarsi a un pensiero critico e che abbia la capacità, umile in senso etimologico, di radicarsi nei diversi contesti culturali e organizzativi. Solo in questo modo è possibile non rinunciare alla volontà e al sogno di creare spazi informativi complessi e nello stesso tempo convintamente comunicativi, con cui dare forma all’eterogeneo, a partire dall’incerta prospettiva che da sempre rappresenta il nucleo più intimo e vitale della cultura bibliografica e biblioteconomica.