N.1 2015 - L'accesso alla conoscenza

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Inclusione e accessibilità semantica nell’architettura bibliotecaria

Marco Muscogiuri

Dipartimento di architettura, ingegneria delle costruzioni e ambiente costruito, Politecnico di Milano; muscogiuri@alterstudiopartners.com

Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 7 maggio 2015.

Abstract

Il concetto di accessibilità, in ambito edilizio e architettonico, è spesso semplificato come mero rispetto della normativa e delle “buone pratiche” finalizzate all’abbattimento delle barriere architettoniche, condizione imprescindibile per qualsiasi edificio pubblico. In questo contributo il concetto è esteso a quello di inclusività, ovvero capacità della biblioteca di essere un luogo di socialità culturale non escludente, in grado di attrarre e accogliere fasce sempre più ampie di pubblico, con particolare attenzione a quelle categorie che per motivi diversi risultano svantaggiate.

Questo obiettivo comporta il ripensamento della progettazione dei servizi e degli spazi, attuando strategie finalizzate a incrementare l’accessibilità dei luoghi (ampliando orari e spazi a disposizione) e del patrimonio posseduto (con la diver­sificazione dei supporti e delle modalità di consultazione e promozione del sapere); a coinvolgere gli utenti mediante la partecipazione attiva; a fare delle biblioteche luoghi ibridi e polivalenti, aperti e sensibili alle istanze delle comunità locali. La progettazione dell’architettura e degli interni è, a tal fine, un elemento fondamentale, tanto quanto quella dei servizi offerti. In questo senso si intenderà l’accessibilità anche come facilità d’uso e accessibilità semantica che ha a che fare con la capacità comunicativa dell’edificio, fattore indispensabile per fare delle biblioteche pubbliche dei “community hub”, piazze della cultura aperte alla comunità locale, realmente inclusive e accessibili a tutti.

English abstract

Focusing on an idea of accessibility as inclusiveness, this article examines libraries as non-excludable social places able to appeal and greet an increasingly number of users, especially disadvantaged ones.

Therefore, it is necessary to rethink ways to plan services and spaces, setting up new strategies in order to boost acces­sibility of spaces and collections, to involve users in an active way, to make libraries like multipurpose, open, spaces more sensitive to local needs.

Architectural and interior design are essential as much as services planning. In this sense, accessibility is interpreted as user-friendliness and semantic accessibility, that concerns communicability of the building, an essential feature in order to make public libraries like “community hub” for their local communities, inclusive and accessible places for all people.

Dall’accessibilità all’inclusione

Accessibilità, per un qualsiasi edificio pubblico e per una biblioteca specialmente, significa anzitutto parti­colare attenzione nei confronti degli utenti più svan­taggiati: per disabilità visive o motorie (anziani, disabili ecc.), per età (bambini, ragazzi), per carenza di solide basi culturali, per carente cognizione degli strumenti di accesso all’informazione, per scarsa conoscenza dei costumi e della lingua (stranieri). Questo influisce sulle scelte di progettazione, sulla localizzazione e la distribuzione dei percorsi, sulla segnaletica e sulla co­municazione grafica, sull’eliminazione delle barriere architettoniche.

A ben vedere, l’accessibilità ai servizi e agli spazi delle istituzioni pubbliche si fonda sulla stessa Carta costi­tuzionale italiana, che all’art. 3 sancisce che «è com­pito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liber­tà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». Prima l’art. 27 della l. n. 118/1971 e in seguito, in modo esaustivo e detta­gliato, la l. n. 13/1989 e il d.m. n. 236/1989 prescrivo­no i requisiti tecnici che i luoghi pubblici devono avere per essere pienamente fruibili da persone portatrici di disabilità motorie o sensoriali. Tali requisiti tecnici, che dovrebbero essere condizione imprescindibile per una biblioteca pubblica, nella realtà dei fatti sono spesso disattesi, soprattutto quando si tratta di edifici storici vincolati.

Premesso, dunque, che un edificio destinato a biblio­teca pubblica dovrebbe però sempre e comunque rispondere pienamente almeno alle suddette prescri­zioni di legge riguardo l’accessibilità fisica, vogliamo però estendere il concetto dell’accessibilità a quello dell’inclusività, della facilità d’uso e dell’accessibilità semantica.

Oggi più che mai, per una biblioteca, il fatto di essere accessibile a tutti è un mandato ideologico prima an­cora che un requisito tecnico o normativo, e ha a che fare con la libertà, la democrazia e la parità dei diritti di tutti gli esseri umani. Ma una biblioteca, per essere realmente accessibile, deve essere “inclusiva”: deve cioè mettere in atto strategie volte a rendersi accessi­bile da un numero quanto più ampio possibile di per­sone, con particolare attenzione per quelle categorie che, per vari motivi (economici, sociali, culturali, lin­guistici, per disabilità fisica, per età, o altro), risultano svantaggiate.

La localizzazione e la progettazione dell’architettura e degli interni incidono fortemente sulla capacità di un edificio pubblico di essere “inclusivo”, tanto quanto la gestione dei servizi offerti. Un progetto mal conge­gnato avrà anzi un impatto peggiore proprio su quelle categorie di utenti che già di per se stesse risultano in qualche modo svantaggiate e sperimentano forme di esclusione nella sfera pubblica o privata.

Nonostante l’avanzamento della legislazione contro le varie forme di discriminazione, nonostante le nor­me messe a punto a livello tecnico e giuridico per garantire a tutti la piena fruibilità degli spazi pubblici, nonostante la sempre più ampia diffusione di “buone pratiche” e linee guida in tal senso, ancora oggi molti edifici pubblici e tantissime biblioteche risultano di dif­ficile accessibilità, sotto tanti punti di vista e per varie categorie di pubblico, e falliscono nella loro missione di essere strumenti di inclusione sociale.

Biblioteche pubbliche come strumenti di inclusione sociale

La povertà economica e relazionale di molti ambiti ur­bani, più o meno periferici, concorre a creare forme di isolamento sociale e culturale, aggravate dal circolo vi­zioso che si alimenta dalla stessa difficoltà di accesso alle fonti dell’informazione e della conoscenza, fattori determinanti nella società contemporanea. L’esclusio­ne sociale e culturale, generando disuguaglianza ed emarginazione, pone un serio limite allo sviluppo della società e ne mina le basi della convivenza pacifica e democratica.

Un mezzo per contrastare l’esclusione sociale e con­solidare le basi di una società accogliente, pluralista e collaborativa è quello da un lato di favorire a fasce sempre più ampie della popolazione l’accesso alle principali istituzioni che erogano servizi culturali e di informazione, e dall’altro di incrementare le occasioni di partecipazione, di scambio e di confronto, volte a coinvolgere anche e soprattutto quelle categorie più svantaggiate di cittadini.

Le biblioteche pubbliche, per la loro capillare diffusio­ne nel territorio e il loro radicamento nei vari contesti urbani, spesso anche degradati o periferici, possiedo­no le caratteristiche che le rendono idonee a diven­tare luoghi di inclusione e socialità culturale, volte a garantire un sempre più ampio accesso al sapere e all’informazione, per favorire il dialogo interculturale e intergenerazionale.

A tal fine, è necessario che le istituzioni culturali in ge­nerale e le biblioteche in particolare evitino di attuare soltanto politiche auto-referenziali rivolte a un pubblico consolidato, cercando invece di ampliare quanto più possibile la loro utenza. Per questo, negli ultimi anni sono state promosse e avviate, anche in Italia, politi­che volte a incrementare l’accessibilità dei luoghi (am­pliando orari di apertura e spazi a disposizione) e del patrimonio posseduto (diversificando supporti e mo­dalità di consultazione, e attuando attività di mediazio­ne culturale e promozione della lettura); a coinvolgere utenti effettivi e potenziali attraverso gli strumenti della partecipazione attiva (da anni si parla ormai di Library 2.0); a fare delle biblioteche dei luoghi ibridi e poliva­lenti, in grado di ospitare funzioni e servizi relativi alle varie problematiche della vita urbana (salute, lavoro, turismo, welfare, immigrazione ecc.), sempre più aper­ti e sensibili alle istanze delle comunità locali.

La crisi economica non ha fatto che rafforzare il ruolo “sociale” delle biblioteche, rendendole, in molti paesi, ancora più necessarie nella quotidianità delle persone. Uno studio sulle biblioteche newyorkesi di quartiere [Giles, 2013], ad esempio, mette in evidenza come, nonostante la digitalizzazione, la diffusione di internet e la diffusione massiccia degli e-book, le biblioteche pubbliche risultino essere più frequentate di prima, tanto che a New York hanno visto un aumento del 60% dei prestiti rispetto a dieci anni fa e hanno raddoppiato il numero di corsi e programmi di formazione. Diversi studi evidenziano inoltre come, in tempi di crisi, sia crescente in tutt’Europa l’utilizzo della biblioteca da parte dei cittadini per l’accesso a internet, in partico­lare per svolgere attività in vario modo connesse con la ricerca di lavoro: ad esempio, in Italia, tra gli utenti che utilizzano strumenti informatici in biblioteca, il 23% li ha utilizzati per cercare lavoro (in Italia la percentuale risulta doppia rispetto alla media europea, che si atte­sta all’11%) [QUICK, 2013].

In varie biblioteche statunitensi, dalla Brooklyn Public Library a quelle di Richmond, Phoenix e molte altre, sono stati realizzati spazi di co-working, sempre più diffusi soprattutto nelle grandi città, che possono es­sere presi in affitto oppure vengono dati gratuitamente a patto che le persone che li usano mettano a dispo­sizione della biblioteca e degli utenti una parte del loro tempo, per implementare i servizi, tenere corsi ecc. (di solito si tratta di graphic designer, informatici, pro­grammatori, editor, pubblicitari ecc.).

Ma le contaminazioni non finiscono qui, e in molte cit­tà, da Colonia a Pistoia, da Helsinki a Cinisello Bal­samo, vediamo nelle biblioteche un fiorire di “maker space” e “fab-lab”, laboratori del cosiddetto “artigia­nato digitale”, una versione tecnologica e digitale di quel “saper fare” che discende dalla letteratura grigia e dalla manualistica da bricoleur, che in vario modo ha sempre trovato ospitalità negli scaffali delle biblioteche pubbliche.

L’inserimento nelle biblioteche di funzioni e servizi aggiuntivi e in qualche modo “altri” rispetto a quella che tradizionalmente potrebbe essere considerata la mission istituzionale, in realtà non fa che aumentarne la loro attrattiva e il loro potere inclusivo, diminuendo­ne l’auto-referenzialità, ampliandone il pubblico poten­ziale e, in senso lato, l’accessibilità.

Le biblioteche vanno dunque intese, oggi più che mai, non soltanto come gangli del sistema della cultura, ma anche del “sistema del welfare”, come centri di riferi­mento per la comunità locale e di presidio sociale in ogni quartiere: luoghi di inclusione e coesione sociale, utili anche e soprattutto per le fasce più deboli della popolazione. All’estero vi sono casi particolarmente eclatanti: pensiamo all’esperienza dei Library Parks di Medellín (2005-2011), una rete di dieci centri culturali costruiti a ridosso delle favelas, nei quartieri più disa­giati della città, grazie ai quali è stato avviato un in­credibile processo di riqualificazione urbana e sociale, che ha ispirato altre iniziative simili in America Latina, come il Manguinhos Library Park (2010), situato in una favela di Rio de Janeiro. Oppure pensiamo, ancora, al caso della Peckham Library a Brixton (2000), nella periferia sud di Londra, realizzata partendo dal coin­volgimento degli abitanti nella stesura del programma mediante laboratori di progettazione partecipata con­dotti dagli architetti, che hanno portato a realizzare un edificio che ospita anche servizi sociali, spazi di socia­lizzazione, per feste e per celebrare matrimoni. Op­pure, ancora, alla “Biblioteket” (2011), la biblioteca di un quartiere periferico di Copenaghen, dove gli utenti trovano anche una sala per fare musica, spazi dedicati alla creatività e al bricolage, con macchine per cucire professionali e taglia-cuci, un laboratorio di ceramica e un piccolo laboratorio di grafica.

Pensiamo, infine, agli Idea Store di Londra (2002­2012), esempio eclatante che ha fatto scuola in tut­ta Europa. Queste nuove biblioteche integrano al loro interno servizi bibliotecari, spazi per la forma­zione permanente, corsi per il tempo libero, spazi di ristoro e caffetteria, aree per bambini e ragazzi, ser­vizi per il cittadino (come nell’Idea Store di Watney Market, inaugurato nel 2012, che ospita anche un Uffi­cio relazioni con il pubblico, e vari altri servizi legati agli aspetti sanitari e al mondo del lavoro). Si tratta di bi­blioteche che hanno posto al centro della loro mission l’accessibilità al sapere come strumento di inclusione sociale, centrando pienamente l’obiettivo: hanno infat­ti quadruplicato il numero di utenti, sono frequentate da tutti, senza distinzione di età, etnia, reddito, livello culturale e sono le uniche biblioteche a essere riuscite ad aumentare l’indice di prestito dei libri, invertendo una tendenza che in tutto il Regno Unito ne vede in­vece il progressivo e costante declino. Il modello de­gli Idea Store è particolarmente interessante anche in quanto la biblioteca pubblica, per amplificare la sua capacità inclusiva e la sua accessibilità, non soltanto si è lasciata contaminare da altre funzioni, ma anche da modalità di progettazione (architettonica e di interni) e di comunicazione (grafica e visiva) e che le erano del tutto estranee, tanto da sviluppare una sorta di brand atto a creare un’identità forte e ben riconoscibile fina­lizzata ad aumentare il valore percepito da parte degli utenti [Allison, 2006; Dogliani, 2009, 2012; Galluzzi, 2008, 2001; Muscogiuri, 2006, 2009].

Non vanno dimenticate, tuttavia, anche alcune recenti esperienze italiane, come la Biblioteca Sala Borsa di Bologna o la San Giorgio di Pistoia, il Pertini di Cinisello Balsamo, la MedaTeca di Meda, la Biblioteca Vit­torio Sereni di Melzo o la Tilane di Paderno Dugnano, che, grazie alla qualità dei servizi erogati, alle funzioni aggiuntive in esse inserite nonché alla qualità architet­tonica delle sedi, hanno avuto un enorme successo di pubblico, e dimostrano come in Italia in questo setto­re sia l’offerta a creare la domanda, e biblioteche con­cepite in modo innovativo riescano sempre ad avere un successo enorme e un enorme impatto sulla città e sulla comunità.

Biblioteche pubbliche come strumenti di promozione di politiche culturali

Come si è detto, perché una biblioteca abbia succes­so e sia percepita come accogliente, inclusiva e “ac­cessibile”, l’architettura dell’edificio, gli spazi e gli ar­redi in esso contenuti sono fondamentali tanto quanto i servizi offerti. Gli edifici bibliotecari devono essere attraenti e confortevoli: devono essere dei luoghi spe­ciali, in cui sia piacevole andare e intrattenersi, facili da utilizzare, ospitali. È il principale motivo per cui in alcu­ni paesi del nord Europa al progressivo calare dell’in­dice dei prestiti non corrisponde un progressivo calo della frequentazione delle biblioteche. Nel momento di massima diffusione dei social network le bibliote­che devono puntare su quell’unica cosa che Google, Facebook o Amazon non hanno e non avranno mai: la fisicità di un bel posto dove andare, la possibilità di accedere a molte risorse documentarie contemporaneamente usufruendo della mediazione del personale bibliotecario, l’opportunità di avere nuove occasioni di incontro e socializzazione.

Per sopravvivere la biblioteca deve essere in grado di accogliere la sfida e rinnovarsi, arricchirsi di contenuti, diventare un centro culturale integrato: di servizi per la cultura, la formazione, l’informazione, l’immaginazio­ne, la creatività, lo studio, il tempo libero, la socializza­zione. Ridefinendone il ruolo e le funzioni, è necessario ridefinire anche la configurazione e le caratteristiche dell’edificio biblioteca: ricercando forme, linguaggi e soluzioni architettoniche in grado di riaffermare il valo­re dell’istituzione, comunicare e promuovere i conte­nuti innovativi e di esprimere fortemente il nuovo ruolo che essa può avere nella società contemporanea.

Le biblioteche pubbliche devono porsi, oggi, come “catalizzatori urbani per la promozione di politiche cul­turali”. E non è un caso che in questa definizione di biblioteca non vi sia un riferimento diretto alla promo­zione della lettura e dei libri, anche se questo deve restarne il core business. Investendo soltanto nella promozione del libro e della lettura, infatti, la biblioteca non può riuscire ad attrarre quel 60% della popola­zione italiana che, stando alle statistiche correnti, non legge libri, oppure quel 36% della popolazione che in Italia non utilizza internet, o quel 43% di italiani che risultano essere «analfabeti funzionali di secondo livello». Ma sono proprio queste persone ad avere mag­giore bisogno delle biblioteche, e quest’utenza potenziale non la si può attrarre soltanto con la promozione dei servizi legati al libro e alla lettura, né si può lasciare solo ai centri commerciali e polifunzionali la delega di occuparsi del tempo libero di questa così ampia fetta della popolazione.

Le biblioteche pubbliche vanno progettate per inter­cettare soprattutto coloro che non sono utenti della biblioteca: o perché non sono interessati ai libri e alla lettura, oppure perché, al contrario, sono “lettori forti” ma non sono interessati ai servizi attualmente offerti dalla biblioteca. Una biblioteca “amichevole”, aperta a tutti, che non intimorisca coloro che in biblioteca non sono abituati ad andare ma che anzi li attragga e li incuriosisca, e che al contempo soddisfi tutte le necessità di coloro che invece la biblioteca già la co­noscono e la usano e che qui troveranno potenziati tutti i servizi.

Facilità d’uso e accessibilità semantica nell’architettura bibliotecaria

In occasione dell’IFLA Library Building Seminar, te­nuto a Brema nel 1977, Harry Faulkner-Brown, archi­tetto consulente per biblioteche e influente membro dell’IFLA, enucleò quelli che in seguito i bibliotecari avrebbero chiamato “i dieci comandamenti di Faulkner-Brown”: dieci requisiti che dovrebbero essere pos­seduti dalla biblioteca ideale. Uno di questi riguar­dava proprio l’accessibilità: la biblioteca – affermava Faulkner-Brown – deve essere facilmente accessibile dall’esterno, con l’entrata ben individuata e visibile, ma anche di facile lettura e orientamento al suo in­terno, con funzioni e percorsi facilmente identificabili. L’accessibilità, nell’accezione di Faulkner-Brown, non faceva riferimento dunque soltanto alla piena fruibilità da parte di persone portatrici di disabilità, ma si tra­duceva in un più ampio concetto di facilità d’uso e di orientamento da parte dell’utenza, probabilmente non estraneo, dal punto di vista della congerie cultu­rale, a quell’idea di “biblioteca amichevole” e “centrata sull’utente” che proprio in quegli anni la bibliotecono­mia tedesca andava elaborando con la dreigeteilte Bibliothek (“biblioteca a tre livelli”).

Una biblioteca accessibile è una biblioteca che è anzi­tutto “facile da utilizzare”: accessibilità significa facilità di comprensione del funzionamento dei servizi, chiarezza nella comunicazione dei percorsi, degli acces­si, delle uscite, della distribuzione interna e delle varie parti del complesso.

Parlando di facilità d’uso pensiamo alle tante media­teche francesi costruite negli ultimi trent’anni, a parti­re dal prototipo costituito dalla Bibliothèque Publique d’Information di Parigi (1978); alle biblioteche olandesi, da quella di Rotterdam (1984) alle ultime costruite ad Amsterdam (2007), Delft (2007) e Almere (2010). Alle tante biblioteche scandinave, fino agli esempi più re­centi ed eclatanti di Aarhus (2015), Oslo ed Helsinki (in costruzione). Alle biblioteche tedesche, da Gütersloh (1979) a Münster (1993), fino al progetto della nuova sede della Zentral-und Landesbibliothek (attualmente sospeso e in attesa di revisione). Tutte biblioteche che, per quanto complesse, grandi e articolate, diverse tra loro per dimensione, organizzazione e architettura, sono di semplicissimo uso, di facile orientamento e comprensione.

Ma il termine va inteso anche in senso lato, come ac­cessibilità semantica, che ha a che fare con la capaci­tà comunicativa dell’edificio: in una società globalizza­ta, l’architettura dell’edificio e l’architettura del servizio devono essere in grado di comunicare significati ac­cessibili a tutti, ricercando strategie di comunicazione adatte al contesto sociale dove si va ad agire.

Esaminando ad esempio alcune realizzazioni norda­mericane degli ultimi vent’anni, osserviamo che bi­blioteche come quelle di Chicago (1991), Nashville, Tennessee (2001), San Francisco (1995), Columbus, Georgia (2005) o di Jacksonville, Florida (2005) sem­brano effettivamente biblioteche: ne hanno l’aspetto, in quanto, in modi diversi, richiamano, per linguag­gio, forma, tipologia e stile, la tradizione architettoni­ca degli istituti bibliotecari americani e delle Carnegie Libraries. Al contrario, biblioteche coeve come quelle di Phoenix (1993), Vancouver (1995), Salt Lake City (2003) e Seattle (2004) non sembrano biblioteche. Il loro linguaggio architettonico si iscrive in un orizzon­te di significati che prescinde dai codici linguistici dell’architettura bibliotecaria americana, e trae i suoi riferimenti da altri ambiti di senso: dalla storia dell’ar­chitettura (ma non da quella bibliotecaria), dall’arte, dalla natura, dalla multiculturalità, dalla pubblicità, dall’industrial design, dal mondo dei mass-media o dei grandi shopping mall.

Questa riflessione apre una questione tutt’altro che secondaria. Proprio in quanto culturalmente forte­mente connotati, i modelli tipologici ereditati dalla sto­ria rischiano oggi, paradossalmente, di costituire un deterrente all’efficacia comunicativa delle biblioteche, nel momento in cui queste sono ormai diventate an­che qualcos’altro. Inoltre, modelli tipologici fortemen­te connotati nella storia dell’architettura occidentale rischiano, in una società sempre più multiculturale, di tradire la missione stessa della biblioteca pubbli­ca, escludendo dal loro orizzonte di senso gran parte dell’utenza potenziale. «Perché costruire una biblio­teca che ha le sembianze di una ricca persona an­glosassone?» si domanda l’architetto Joshua Ramus (co-progettista della Seattle Central Library assieme all’archistar Rem Koolhaas), parlando delle scelte ar­chitettoniche compiute nel progetto di Seattle, e con­clude: «Un bambino immigrato dal Laos non sa che cosa sia una Carnegie Library».

La questione che si pone è estremamente complessa, soprattutto quando si interviene non a Seattle o a Salt Lake City, ma in una città europea (o, ancor più, ita­liana), e dunque non si può e non si deve prescindere dal confronto con il contesto urbano e con la storia dell’architettura e del luogo.

Non si intende qui indicare una soluzione, bensì porre un problema. Ad esempio nella Biblioteca di Münster (Bolles+Wilson, 1993), seppure in un contesto storico consolidato, viene accantonato qualsiasi riferimento a forme o tipologie della storia dell’architettura biblio­tecaria, puntando su un linguaggio contemporaneo, in qualche modo spiazzante, giocato sul frammento. «Una partitura briosa e antiretorica», la descrive Ful­vio Irace, «che affronta il problema della biblioteca come un tema civico per eccellenza, e quindi ne ac­centua le caratteristiche di spazio di comunicazione, non pretenzioso, ma accessibile e familiare». Ma il rapporto con il contesto storico è tutt’altro che evi­tato o banalizzato: «Insediata in un lotto di risulta ai margini immediati del centro storico, la biblioteca è anzitutto un appropriato commento alla stratificazio­ne del sito, che completa e mette in risalto, trasfor­mando l’architettura in urbanistica e lo studio urbano in architettura della città».

Accessibilità è anche questo: un’architettura che rie­sca al contempo a risultare familiare e a stupire e affa­scinare, accessibile a tutti proprio in quanto utilizza un linguaggio che consente diversi livelli di comprensione e interpretazione.

Un altro esempio, completamente differente ma al­trettanto interessante, è quello, già citato, degli Idea Store londinesi. Qui l’architettura e le strategie di comunicazione utilizzano un linguaggio mutuato dai centri commerciali, in quanto questo è stato ritenuto più efficace per attrarre sia l’enorme numero di cit­tadini immigrati (che non avevano familiarità con la biblioteca e che difficilmente si sarebbero recati in una delle biblioteche vittoriane pre-esistenti), sia tutti quei cittadini inglesi (e soprattutto i giovani) che non erano adusi a frequentare la biblioteca. Al contrario, entrambe queste categorie di non-utenti conoscono molto bene i codici semantici degli spazi commer­ciali, e si riconoscono in essi. L’efficacia e lo straordinario successo di queste biblioteche dimostrano la fondatezza dell’intuizione.

A fronte di queste considerazioni è indispensabile porsi il problema della necessità di utilizzare nell’ar­chitettura del servizio e nell’architettura dell’edificio linguaggi accessibili a tutti: sempre che l’obiettivo sia quello di rendere un servizio alla comunità e non sia semplicemente quello di difendere una posizione ide­ologica svuotata di reali contenuti in quanto limitata nelle sue ricadute sociali, tanto più in una situazione come quella italiana in cui la percentuale di non-utenti è largamente prevalente.

Quella del linguaggio architettonico e dell’accessibilità semantica delle biblioteche pubbliche è una questio­ne che ha importanti ricadute nella situazione italiana, in cui sono numerosissime le biblioteche pubbliche ospitate in edifici storici e la pratica del riuso sembra spesso una scelta obbligata, mancando il centro delle città di aree libere a fronte di numerosi edifici storici sottoutilizzati o abbandonati. Il riutilizzo e la riconver­sione di edifici storici è un tema che riguarda dunque l’accessibilità non solo per gli eventuali vincoli e bar­riere architettoniche che possono esserci, ma anche per l’immagine che una biblioteca pubblica ospitata in un edificio storico offre di sé, rischiando di confermarsi nell’immaginario collettivo più come luogo della me­moria e della tutela del passato che come laboratorio della conoscenza e dell’informazione.

Accessibilità, visibilità, imageability

Quello dell’immagine architettonica è un aspetto stret­tamente correlato con l’accessibilità, fisica e seman­tica, in quanto ha a che fare con la visibilità e la rico­noscibilità, ma anche con la percezione che gli utenti potenziali avranno della biblioteca, e con il valore che essi le daranno.

Come evidenziato da Faulkner-Brown, l’edificio deve essere facilmente riconoscibile, così come facilmen­te individuabili dovranno essere le singole parti del complesso e i relativi percorsi di connessione interni o esterni. In questo senso visibilità significa garan­tire a tutti facilità di orientamento, in modo intuitivo e prescindendo dalla segnaletica. Individuare subito l’ingresso della biblioteca ed entrare in un atrio dal quale si riesca a capire subito l’ articolazione fun­zionale dell’edificio è cosa ben diversa e assai più efficace del doversi soffermare a studiare il percorso per giungere al settore desiderato, dovendo magari sin da subito chiedere indicazioni al banco di acco­glienza. Visibilità intesa dunque anche come aper­tura che mostri all’esterno alcune parti a più forte impatto di pubblico (settore di ingresso, servizi di ristoro, emeroteca ecc.) in quanto sono di richia­mo per utenti occasionali o potenziali, nonché come mezzo per potenziare l’accessibilità, rafforzando la continuità tra interno ed esterno, affinché il pubblico venga attirato all’interno della biblioteca quasi in­consapevolmente.

Ma visibilità vuol dire anche capacità di colpire l’at­tenzione e l’immaginazione, di permanere nella me­moria: la biblioteca deve possedere un potere evo­cativo che le consenta di diventare, a vari livelli e a seconda della sua dimensione: punto di riferimento per la comunità, depositaria e rafforzatrice dell’iden­tità di una città o di una collettività, icona urbana nell’immaginario collettivo. La biblioteca deve posse­dere imageability, quella sorta di pregnanza iconica e pubblicitaria che Françoise Choay, sulla scorta degli studi compiuti da Kevin Lynch, vede espressa già nel Centre Pompidou, e che è diventata un elemento distintivo di molti recenti edifici pubblici (musei e bi­blioteche in particolare), per porsi come caposaldo nella città, segno urbano la cui architettura ha il fine di comunicare l’eccezionalità della funzione pubblica che ospita.

La visibilità e l’accessibilità hanno dunque molto a che fare anche con la comunicazione. Queste nuove bi­blioteche sono luoghi attraenti per aspetto, architettu­ra e grafica, e in alcune di esse sono stati fortemente accentuati gli aspetti inerenti il cosiddetto branding, finalizzati ad aumentare la riconoscibilità dell’istituzio­ne e il “valore percepito” dall’utenza.

Le biblioteche come “hub della conoscenza”

Nello scenario sin qui delineato, l’accessibilità della biblioteca pubblica è stata declinata in vari significa­ti: come capacità di essere inclusiva e non esclusiva, come semplicità d’uso, come apertura e amichevolez­za, come accessibilità semantica e polivalenza. Una biblioteca per essere accessibile, attraente e inclusiva deve poter essere un luogo polivalente, fondato sul­la contaminazione (dei saperi, dei pubblici, degli usi). Questa è la linea seguita dalle più innovative tra le bi­blioteche contemporanee.

Pensiamo alla nuova biblioteca di Aarhus, che verrà inaugurata nell’agosto 2015, non a caso chiama­ta “Urban Mediaspace”. Il principio che sottende il progetto è quello di realizzare una grande piaz­za coperta di 30mila mq (di cui circa 13mila de­stinati a biblioteca) focalizzata non sui libri bensì sull’essere un vasto “hub della conoscenza”, che riunisce spazi pubblici interni ed esterni connes­si senza soluzione di continuità e destinati a fun­zioni ricreative, di aggregazione sociale, di stu­dio, di ricerca, dove poter usufruire liberamente di tutti i media, su qualsiasi supporto. L’edificio è caratterizzato da un elemento superiore di forma eptagonale irregolare, che contiene gli uffici e i la­boratori della biblioteca, oltre ad altri spazi polifun­zionali e uffici da affittare. L’innesto di altre attività commerciali e terziarie intende incoraggiare l’in­terazione tra la comunità locale e il Mediaspace. Il volume superiore appare sospeso sopra un pa­rallelepipedo interamente vetrato che accoglie le varie sezioni della biblioteca distribuite su tre piani open-space, come in centro commerciale, collega­te tra loro da una successione di rampe: il setto­re di ingresso con servizi di accoglienza, informa­zioni di comunità, attività commerciali, caffetteria, “Transformation Labs” (aree fortemente incentrate sulla multimedialità e l’interattività), spazi espositi­vi, l’area riviste e giornali, musica e spettacolo, ser­vizi per bambini, ragazzi e adolescenti (tra cui un “Homework Café” e un “Children’s Theatre and Ci­nema” di 70 posti), salette polifunzionali, le varie sezioni a scaffale aperto, alternate a spazi di stu­dio e di ricerca, laboratori di didattica e formazione permanente, un auditorium per 330 posti, sale con­ferenze ecc. Il volume del Mediaspace è posato su una sorta di vasta piastra, accessibile dalla piazza

mediante ampie scalinate e rampe che digradano verso l’acqua: al di sotto vi sono negozi e spazi pub­blici, mentre i piani interrati ospitano parcheggi pub­blici automatizzati. Una volta inaugurata, l’“Urban Mediaspace” sarà la più grande biblioteca della Scandinavia, e certamente la più innovativa, nuova piazza urbana e centro focale di un’ampia opera­zione di riqualificazione urbana del porto della città. Un’altra biblioteca di particolare interesse, in quanto estremamente innovativa come programma funzio­nale e fortemente incentrata sui concetti di acces­sibilità e fruibilità, è la nuova biblioteca di Helsinki, che si sviluppa come una sorta di arca, caratterizzata da una piazza interna in continuità con quella ester­na, articolata su tre piani sovrapposti, affacciati l’uno sull’altro e racchiusi in una scocca curvilinea in legno di larice siberiano e vetro. Al piano terra vi sono i ser­vizi a più forte impatto di pubblico: aree di accoglien­za, informazioni, open-space flessibili per incontri, esposizioni, eventi, un’ampia caffetteria, un cinema e una sala polifunzionale. Al primo piano vi sono la­boratori didattici (“learning by doing”) e multimediali, sale gruppi, spazi per incontri, riunioni e proiezioni, uno studio di registrazione, un “fab-lab”, spazi di co­working e persino una sauna pubblica. Al secondo piano vi è il “Book Heaven”, un ampio e luminoso open-space, affacciato sulla città mediante una lun­ga vetrata curvilinea, dove sono collocati i servizi bi­bliotecari più tradizionali: le collezioni di libri, gli spazi di studio e di consultazione, la sezione bambini e ra­gazzi. L’architettura ben interpreta la missione della biblioteca, che è condensata nel motto program­matico “Knowledge, Skills, Stories”: la biblioteca è il luogo dove, attraverso la disponibilità di tutti i me­dia, è possibile acquisire conoscenza e informazioni (knowledge); il luogo dove affinare i propri talenti e le proprie attitudini (skills); il luogo delle storie, della memoria, dell’immaginazione, della narrazione delle vicende umane (stories); e dove «libri ed eventi cultu­rali sono presenti in egual misura» [Leisti, 2008].

Un ultimo esempio, altrettanto recente, è quello del­la nuova biblioteca di Birmingham, inaugurata nel 2013 e soprannominata “People’s palace”, a sotto­lineare il fatto che si tratta di un edificio pensato so­prattutto per le persone, prima che per i libri. Un’ar­chitettura vetrata (35mila mq, di cui 21mila destinati a biblioteca), rivestita da una sorta di filigrana frangi­sole e decorata da elementi metallici di forma circo­lare di varie dimensioni. Al suo interno, vari livelli di open-space sono collegati tra loro da scale mobili e affacci tra un piano e l’altro, e sono sormontati dalla Shakespeare Memorial Room, una sala vittoriana del 1882 facente parte della prima biblioteca di Bir­mingham e rimontata nel volume circolare posto sulla sommità del nuovo edificio. Oltre alle aree a scaffale aperto e agli spazi di studio e consultazione, la bi­blioteca ospita un’ampia sezione per bambini e ra­gazzi, un centro studi, una biblioteca storica, spazi per esposizioni, meeting e formazione permanente, un auditorium, spazi e servizi per il cittadino (tra cui l’“Health Exchange”, finalizzato all’educazione e al supporto dei cittadini per la salute).

In tutti questi casi, così come in quelli precedentemen­te citati, le biblioteche diventano “community hub”, piazze della cultura, punti di riferimento per la comuni­tà locale: aperte alla città, inclusive e realmente acces­sibili a tutti, nell’architettura e nei servizi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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