Per una critica del concetto di modello in biblioteconomia
Dipartimento di Lettere, Arti, Storia e Società, Università degli studi di Parma; alberto.salarelli@unipr.it
Il testo di questo articolo riprende, opportunamente ampliati e modificati, i contenuti dell’omonima relazione tenuta al seminario “L’identità della biblioteca pubblica contemporanea. Principi e metodi di analisi, valutazione, interpretazione”, tenutosi il 12 dicembre 2014 presso l’Università degli studi di Torino.
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 6 maggio 2015.
Abstract
Il dibattito attorno all’identità della biblioteca pubblica contemporanea è caratterizzato dal frequente ricorso a differenti modelli di riferimento. Se non mancano osservazioni critiche attorno all’applicabilità di tali modelli nelle fattispecie concrete delle diverse realtà bibliotecarie, meno ci si è interrogati sul senso di una biblioteconomia per modelli e, quindi, sull’utilità del concetto di modello in biblioteconomia. Lo scopo di questo articolo consiste nel fornire alcuni elementi di riferimento utili per una prima indagine attorno al ruolo di questo concetto nella teoria biblioteconomica allo scopo di saggiarne le effettive potenzialità epistemologiche.
English abstract
Today the debate about public library’s identity is characterized by the frequent use of different typological models. Critical remarks about the applicability of such models in specific cases are frequent, however reflections on the concept of model in librarianship are more rare.
The purpose of this contribution is to provide some elements useful for a first investigation about the role of this concept in library science theory, in order to test its actual epistemological potential.
Fra “schemata” e modelli
Esattamente cinquant’anni fa, nel 1965, Joseph Licklider pubblicava per i tipi della MIT Press uno studio intitolato Libraries of the Future, frutto di un progetto commissionatogli dal Council on Library Resources che lo vide impegnato per un biennio attorno al tema della rivoluzione dei processi informativi innescata dalle tecnologie digitali e, più in specifico, alle modificazioni che le biblioteche avrebbero subito come conseguenza dell’uti- lizzo di questi sistemi nell’articolazione delle loro attività. Licklider, personaggio di straordinaria ed eclettica intelligenza, capace di spaziare dal suo ambito di studi originario – la psicologia – verso il dominio allora tutto da definire della scienza dell’informazione, era convinto che in un futuro non proprio a brevissimo termine (la scadenza prospettata era quella del fatidico anno Duemila) le biblioteche avrebbero dovuto ripensare totalmente le pratiche di immagazzinamento, organizzazione e recupero dell’informazione alla luce delle possibilità offerte dai sistemi digitali, sistemi in grado di suggerire una proattività del tutto nuova nel rapporto fra l’uomo e i documenti rispetto alla rigida passività della pagina stampata e all’ingombrante gestione del patrimonio librario:
If human interaction with the body of knowledge is conceived of as a dynamic process involving repeated examinations and intercomparisons of very many small and scattered parts, then any concept of a library that begins with books on shelves is sure to encounter trouble.
Per questo motivo la visione di Licklider – e Licklider era davvero un uomo di grandi visioni se si pensa al ruolo fondamentale che il suo pensiero ha avuto nello sviluppo delle interfacce uomo-macchina e di internet – suggeriva un ripensamento radicale nell’approccio alla gestione informativa non in opposizione alla fondamentale funzione bibliotecaria di intermediazione ma, anzi, in enfatizzazione della medesima in virtù delle potenzialità euristiche delle tecnologie digitali. Questa inevitabile palingenesi era, secondo lo studioso, talmente potente da mettere in dubbio persino l’opportunità di continuare, nel futuro, a chiamare le biblioteche con il loro nome: la locuzione “precognitive systems”, a suo avviso, avrebbe potuto significare meglio ciò a cui stava pensando e su cui, a dire il vero, rifletteva da diversi anni: l’idea, insomma, di un “thinking center” dove l’informazione digitale avrebbe prima convissuto con quella analogica per poi progressivamente sostituirla in un processo di dematerializzazione totale dei supporti documentari: «To transmit information without transporting material». A distanza di mezzo secolo da quello studio ognuno può trarre un proprio bilancio ponendo su un piatto della bilancia cosa si è avverato di quella profezia e cosa no, quali dinamiche Licklider ha intuito almeno in nuce e, invece, quali materiali e attività si sono rivelati più longevi del previsto. Ma, al di là del fatto che la celebre battuta attribuita a Niels Bohr – «Prediction is very difficult, especially if it’s about the future» – contiene un indubbio fondo di verità, è interessante osservare come questa previsione sia stata espressa e argomentata. Per concepire la biblioteca del futuro Licklider utilizza una terminologia mutuata dalla teoria della conoscenza e in particolare dai lavori di Jean Piaget, ponendo una particolare attenzione al concetto di “schema” (plurale “schemata”). Secondo la riflessione dello psicologo svizzero, lo schema è da considerarsi come un sistema di cluster concettuali utili alla costruzione di una rappresentazione interiore del mondo, rappresentazione che viene costruita da ciascun individuo rielaborando e organizzando ciò che viene recepito dall’esterno per l’appunto attraverso questi schemi che non sono innati, ma che si producono e si trasformano in base alle passate esperienze. Essi sono fra loro interrelati secondo una logica gerarchica nella quale possono essere individuati e distinti schemi di livello alto (corrispondenti all’organizzazione sistemica della mente) e di livello basso (relativi a singoli concetti). Quindi ogni approccio con la realtà si basa su un duplice processo di assimilazione e accomodamento della struttura cognitiva al fine di poter giungere a un’interpretazione in grado di spiegare il mondo nel quale viviamo e l’interazione che istituiamo con esso e con le creature che lo abitano.
Spostando il ragionamento sul piano biblioteconomico, Licklider sostiene che una visione plausibile per la biblioteca del futuro non debba essere ipotizzata eliminando i concetti di basso livello (componentlevel schemata) ma utilizzandoli come mattoni di un edificio dalle caratteristiche del tutto innovative, corrispondente a uno schema strategico di alto livello (upper-echelon schemata).
Pertanto questa ipotesi costruzionista pone al centro della propria attenzione il potenziale informativo contenuto nei documenti nell’ottica di un superamento delle limitazioni fisiche imposte dal libro in quanto oggetto e dalla biblioteca intesa come deposito, verso una prospettiva digitale dai tratti sorprendentemente simili a quella che oggi pratichiamo quotidianamente. Semmai, se volessimo individuare un punto debole della prospettiva licklideriana, dovremmo invece considerare come questo massiccio imporsi dell’informazione digitalizzata e dei servizi telematici non abbia comportato l’annichilimento della fisionomia analogica dei libri e delle biblioteche la cui ingombrante passiveness, tanto deprecata da Licklider, rappresenta tuttora una parte integrante della pratica bibliote- conomica contemporanea immersa in una dimensione ancora sostanzialmente ibrida. Come dicevamo, gli uni potranno considerare questa presenza simultanea di informazione analogica e digitale come una fase transeunte nella storia dei sistemi documentali elaborati dall’umanità, mentre gli altri avranno buon gioco a dimostrare, libri e mattoni alla mano, che non sarà impresa facile procedere alla loro indiscriminata rottamazione. Una cosa però è certa: se il pensiero di Licklider sul futuro delle biblioteche è ancora oggi foriero di spunti di riflessione, la terminologia da lui utilizzata per esprimere la propria visione è andata incontro a un processo di obsolescenza che pare irreversibile. La letteratura biblioteconomica contemporanea a livello internazionale ha completamente abbandonato i lemmi “schema/schemata” nei confronti dell’uso massiccio del termine “modello”: ogniqualvolta cioè, perlomeno da trent’anni a questa parte, ci si è trovati di fronte a un punto di snodo nell’evoluzione dei sistemi bibliotecari per ragionare sulle biblioteche del futuro, si è preferito parlare di nuovi modelli di biblioteche: new library models. Anche per lo specifico ambito della riflessione bibliote- conomica dedicata alle biblioteche pubbliche, vale a dire le istituzioni maggiormente sensibili rispetto alla necessità di una ridefinizione complessiva delle proprie funzioni, non ci si discosta da questa evidenza: la presenza nella letteratura scientifica di articoli o monografie dedicate ai nuovi modelli per le public library è quantitativamente impressionante, con particolari picchi di produzione in relazione all’affacciarsi di internet nel mondo delle biblioteche, alla crisi della biblioteca pubblica contemporanea, all’avvento dei sistemi web 2.0.
Evidentemente, malgrado l’obsolescenza della terminologia utilizzata da Licklider, l’idea che il funzionamento presente e futuro delle biblioteche possa essere efficacemente compreso ricorrendo al concetto di modello è un tratto ricorrente della biblioteconomia più recente; allora, di fronte a questo dato di fatto, si tratta di capire come tale concetto sia utilizzato e, di conseguenza, se esso mantenga una propria efficacia come strumento di indagine teorica.
Per fare ciò dobbiamo innanzitutto interrogarci su che cosa intendiamo per “modello”.
Cos’è un modello?
Nell’ambito dell’antropologia culturale parlare di schemi o di modelli significa dire, in fondo, la stessa cosa. In prima battuta si potrebbe quindi affermare che la transizione dagli “schemata” di Licklider alla recente predilezione biblioteconomica per il concetto di modello sembrerebbe soltanto da ascrivere a un più spiccato fascino lessicale di quest’ultimo vocabolo dovuto, verosimilmente, alla diffusione dei metodi della ricerca operativa sviluppati soprattutto nell’ambito della gestione aziendale.
Tuttavia, se vogliamo provare ad ampliare l’orizzonte attorno al concetto di modello oltre a quelle che sono le declinazioni attuali che di esso vengono proposte in diversi campi del sapere, bisogna individuare quelle caratteristiche comuni a ogni tipo di modello, caratteristiche che sono generalmente condivise nelle formulazioni delle definizioni generali del concetto stesso. Preso atto che trattiamo di un termine ad ampio spettro polisemico che qui verrà considerato solo nell’accezione di “modello scientifico”, esso può essere inteso come «una costruzione più o meno astratta che condivide alcune caratteristiche strutturali del dominio modellato», oppure – ancor più dettagliatamente – come
A simplified or idealized description or conception of a particular system, situation, or process, often in mathematical terms, that is put forward as a basis for theoretical or empirical understanding, or for calculations, predictions, etc.; a conceptual or mental representation of something.
Come si può osservare, le caratteristiche salienti di un qualsiasi modello sono sostanzialmente due: il fatto di essere più semplice dei differenti casi reali (cioè degli ectipi) a cui esso si riferisce e la dimensione astratta in cui viene a collocarsi proprio in virtù del fatto che, semplificando, si diradano i riferimenti al mondo reale; riferimenti che risultano fondamentali per la descrizione di un singolo caso ma limitativi per la teorizzazione di un idealtipo. In altri termini, il livello di astrazione di un modello sembra possa considerarsi come una misura della sua scientificità: infatti, se è vero che ogni tentativo di spiegazione del mondo prevede il ricorso a determinate categorie interpretative, è altresì evidente come i modelli scientifici differiscano da qualsiasi generica attività di modellazione in virtù della loro capacità di funzionare come strumenti utili alla formulazione di un corpus di conoscenze organicamente strutturato. Quindi una spiegazione scientifica del mondo non può prescindere dai modelli:
No substantial part of the universe is so simple that it can be grasped and controlled without abstraction. Abstraction consists in replacing the part of the universe under consideration by a model of similar but simpler structure. Models, formal or intellectual on the one hand, or material on the other, are thus a central necessity of scientific procedure.
Giunti a questo punto, stabilite cioè le caratteristiche generali condivise da tutti i modelli scientifici, è opportuno notare come essi non siano tutti collocabili sullo stesso piano. Se prendiamo in considerazione la distinzione proposta alla fine dell’Ottocento da Wilhelm Windelband tra scienze nomotetiche (che mirano alla formulazione di leggi valide in ogni caso) e scienze idiografiche (che si interessano all’avvenimento e cioè studiano fenomeni unici e irripetibili) possiamo individuare due corrispettive famiglie di modelli in uso, rispettivamente, in ciascuno dei due raggruppamenti:
- I modelli nomotetici, che servono a formulare ipotesi e leggi in base a procedimenti logici in cui ogni passaggio deve essere esplicito e verificabile. Essendo indipendenti dalla variabile tempo essi possono essere applicati tanto nella spiegazione di ciò che è accaduto quanto nella previsione di ciò che accadrà. Si tratta, quindi, di modelli predittivi la cui validità sussiste fino a che non si manifestano fatti non spiegabili dai modelli stessi: in tal caso, secondo il principio fallibilista, si rende necessario modificare o confutare i loro tratti costitutivi allo scopo di individuarne altri, più funzionali dei precedenti nella formulazione di nuove ipotesi.
- I modelli idiografici, il cui scopo consiste nella possibilità di ordinare e spiegare la realtà fenomenica così come essa si presenta in una determinata condizione storica e sociale. Trattandosi pertanto di modelli fortemente vincolati da molteplici accidenti spaziali e temporali, non sono da intendere come previsionali in quanto strutturalmente incapaci di anticipare il futuro verso il quale, semmai, possono rivolgersi con un atteggiamento visionario.
Non sempre questa suddivisione di natura prettamente metodologica tra modelli nomotetici e modelli idiografici implica un criterio di reciproca esclusione in fase di applicazione dei modelli stessi: infatti il rapporto tra la situazione concreta e l’indagine epistemologica può comportare l’utilizzo di modelli appartenenti a famiglie differenti. Da tale considerazione segue che più la realtà esperienziale si rivela complessa, coinvolgendo oggetti naturali, ideali e sociali, più la conoscenza della medesima può essere articolata su piani differenti esaminabili con differenti modelli e questo perché, come affermavano già nel 1979 Prigogine e Stengers,
Non c’è un unico linguaggio teorico in cui si esprimono le variabili a cui possa essere attribuito un valore ben definito che possa esaurire il contenuto fisico di un sistema. I vari linguaggi possibili e i vari punti di vista sul sistema sono complementari. Essi riguardano la stessa realtà, anche se è impossibile ricondurli ad un’unica descrizione.
Tutto ciò considerato, un primo ordine di problemi dovrebbe consistere nella ripartizione degli oggetti di studio tra idiografici e nomotetici; un secondo nella scelta degli opportuni modelli di indagine e, infine, un terzo nell’esame dei risultati allo scopo di definire un quadro comune che dia conto della complessità del fenomeno studiato.
A nostro parere il mondo della biblioteconomia può rivelarsi un eccellente campo di indagine su cui esercitare questa sfida della complessità verificando se e come le differenti tipologie di modelli possano essere applicate in modo opportuno, secondo il piano di analisi preso volta per volta in considerazione.
Il concetto di modello in biblioteconomia
Chiediamoci, innanzitutto, perché le biblioteche contemporanee sono complesse. La risposta, che ormai possiamo considerare come scontata, è che esse si trovano a esercitare i propri compiti in un mondo vieppiù complesso, come sottolineava – già diversi anni fa – Giovanni Di Domenico:
Viviamo un’epoca in cui la conoscenza sta diventando, è diventata il fattore produttivo dominante, in cui si dematerializzano i contenuti del lavoro, in cui l’attenzione si sposta dalle strutture alle persone (ai soggetti che conferiscono senso alla vita delle organizzazioni), in cui la complessità muta di segno e si rende in qualche modo impermeabile all’analisi sistemica.
Se, quindi, il concetto di complessità è divenuto una vera cifra stilistica dei nostri tempi, al punto da sentire il bisogno di dedicargli uno specifico festival, nel caso delle biblioteche bisogna rilevare come la complessità – diciamo così – “ambientale” abbia prodotto effetti di notevole portata non solo sulle modalità concrete di organizzazione e di erogazione dei servizi, ma anche nelle elaborazioni epistemologiche della biblioteconomia. In altri termini, le rivoluzioni delle tecniche e delle metodiche della gestione informativa, la globalizzazione, il tramonto dei grandi paradigmi ideologici, la crisi economica, l’esplosione demografica (e, a questo punto, chi più ne ha più ne metta) hanno picchiato duro sui fondamenti teoretici di una disciplina già di per sé debole, insicura, alla perenne ricerca di un’identità, se non solida, perlomeno sufficientemente stabile: un «sapere senza fondamenti», come lo definisce Roberto Ventura, «nel senso che pur in presenza di una consistente letteratura professionale risulta difficile capire quale sia, e soprattutto se vi sia, il nucleo profondo abilitato a svolgere una funzione di stampo fondativo». In questo panorama che alcuni definirebbero come desolante ma che, a nostro avviso, è invece particolarmente stimolante, si potrebbe essere tentati a orientare la biblioteconomia verso un cupio dissolvi in discipline epistemologicamente più solide (ma quali?) oppure a prendere atto, finalmente, che le riflessioni di Prigogine e Stengers valgono anche per il mondo delle biblioteche, le quali sono interpretabili nella loro complessità solo a patto di ammettere non uno ma più linguaggi differenti, non un solo quadro di riferimento (sia esso quello bibliografico, istituzionale, storico-sociale) ma la concomitante applicazione di più di essi, in una lettura stratificata – e dunque complessa – dei fenomeni che attengono alla biblioteca. Vi sono quindi fenomeni che possono essere descritti e spiegati con modelli di natura nomotetica, basati su metodi induttivi, pratiche sperimentali, ragionamenti inferenziali e che, come dicevamo, consentono di poter formulare delle leggi valide non solo per il presente ma anche per il futuro, come avviene quando affrontiamo la statica e le dimensioni dell’edificio che ospita una biblioteca in ragione del peso e del volume del materiale librario, oppure quando si adottano indicatori bibliometrici per calcolare lo sviluppo delle collezioni o, ancora, quando si computa il beneficio economico che l’apertura di una biblioteca potrebbe apportare a un territorio. In tutti questi casi i modelli adottati sono utili proprio in virtù della loro capacità di poter prevedere prima di agire, ma è altrettanto evidente come essi occupino un ambito di applicazione notevolmente ristretto rispetto alla complessità della biblioteca; per questo motivo
biblioteconomia è un termine che non può abbracciare tutte le attività bibliotecarie con l’idea di poterle elevare al rango di applicazioni di teorie o di ipotesi scientifiche. Nella biblioteconomia vanno individuati i campi di ricerca e quelli che non lo sono e non lo saranno.
A questo punto bisogna ammettere che, valutata con i parametri delle scienze nomotetiche, come appunto intende Serrai il termine “scienza”, la biblioteconomia si riduce a poca cosa. Soprattutto sembra sfuggire a un inquadramento nomotetico quel nucleo profondo, fondamento della disciplina, di cui parla Ventura, un nucleo che facciamo fatica a mettere a fuoco con precisione ma che sappiamo intuitivamente esserci: un gomitolo aggrovigliato che sussume in sé i fili di quelle entità che chiamiamo testo, libro, lettura, documento, informazione, organizzazione bibliografica: ovvero tutto ciò a cui pensiamo quando nominiamo la biblioteca. Ragion per cui, al di là dei risvolti nomotetici, per quanto concerne il resto della biblioteconomia (un resto che – di fatto – è la parte maggiore) si dovrà inevitabilmente fare riferimento all’ambito idiografico, un ambito ove il valore che il nomos assume nel proprio orizzonte epistemologico è da intendersi «nella accezione di usanza, di procedura abituale, e pertanto consigliata, piuttosto che in quella di legge che codifica determinati fenomeni, che stabilisce regole comprovate e quindi assolute». Questo complesso di regole, o norme, o prescrizioni che non può aspirare al valore di leggi generali è al contempo il limite e il carattere identitario della biblioteconomia come disciplina inscrivibile nell’ambito delle scienze soft con particolare riferimento a quelle sociali, come peraltro ebbe modo di osservare Jesse Shera quando scrisse che «The library and the librarians deal with ideas and knowledge and their communication; hence librarianship is much closer to the humanities than to the “hard” sciences».
Utilizzare i modelli in campo idiografico significa quindi, in primo luogo, essere consapevoli dei loro specifici limiti, quei limiti caratteristici dei modelli intesi come «riferimenti concettuali»: essi ci occorrono per mettere un po’ di ordine nella congerie altrimenti incomprensibile dei fenomeni ma sui quali, essendo strumenti imperfetti di valore esclusivamente euristico (come gli idealtipi weberiani), non possiamo fondare alcuna ipotesi per il futuro: parafrasando Paul Veyne potremmo affermare che la ricerca biblioteconomica è quindi «il terreno di uno scontro tra una verità costantemente mutevole e dei concetti costantemente anacronistici».
La rapida obsolescenza – potremmo dire la precarietà – dei modelli concettuali che utilizziamo per comprendere la realtà delle biblioteche si è palesata in maniera evidente in questi anni di turbolenti cambiamenti. La rivoluzione delle comunicazioni digitali ha fatto emergere il carattere spiccatamente glocale, e quindi contradditorio, del servizio bibliotecario che, come ha scritto Giovanni Solimine, «oscilla tra l’aspirazione a garantire l’accessibilità, senza confini, a tutto il sapere del mondo e l’esigenza di incardinare la propria esistenza su un concreto contesto per soddisfare i bisogni informativi della propria utenza particolare». Un ragionamento che traduce in termini biblioteco- nomici quella dicotomia tra “spazio dei flussi” e “spazio dei luoghi” già identificata negli anni Novanta da Manuel Castells come uno dei tratti più significativi della società contemporanea; perché se da un lato le reti digitali hanno dato luogo a nuove forme spaziali caratterizzate dalla convergenza globale delle informazioni (con tutto quello che ne consegue in termini di ricadute sui mercati, sulle pratiche culturali, sulla politica), dall’altro rimane il fatto che «gran parte dell’esperienza umana e del suo senso hanno tuttora un fondamento locale». L’eterogeneità dell’utenza di riferimento, del proprio posseduto, degli edifici ove sono ospitate le biblioteche e delle forme di organizzazione e di esposizione dei propri documenti (dalle classificazioni alle interfacce degli OPAC), le istituzioni che le guidano, questa eterogeneità – dicevamo – rappresenta la vera cifra caratteristica di tutte le biblioteche in senso lato e della biblioteca pubblica in particolare. Prendiamo, a titolo di esempio, il caso italiano. Che cosa ci consegna la storia delle biblioteche pubbliche in Italia? Chiediamoci, in particolare: com’è stata recepita in Italia la public library anglosassone? In via del tutto cautelativa, e in attesa di indagini più approfondite, ci pare di poter affermare che il dibattito sulla biblioteca pubblica negli anni Sessanta possa essere letto anche come un confronto tra due diversi modi di intendere un modello: da un lato la posizione centralista di Virginia Carini Dainotti, sostenitrice di un intervento ministeriale di natura nomotetica secondo il quale, dati determinati presupposti, il risultato non può che rivelarsi sempre conforme alle aspettative indipendentemente dalle variabili locali; dall’altro l’atteggiamento di Renato Pagetti, più prono a intendere il modello anglosassone di biblioteca pubblica in senso idiografico, vale a dire come un riferimento concettuale cui guardare ma da non imitare pedissequamente, stante le enormi differenze dei contesti di applicazione. Di fatto, una particolare tipologia di biblioteca importata dall’estero, pensata quindi in un particolare contesto geografico per determinati obiettivi, è stata accolta in un Paese, il nostro, con alle spalle una storia dai tratti del tutto differenti (e molto problematici) rispetto al mondo anglosassone, ottenendo come risultato – oggi ancor più evidente in tempi di crisi per le biblioteche pubbliche di tutto il mondo – una spiccata frammentazione fra i diversi istituti, alcuni in grado di metabolizzare meglio i tratti caratteristici della public library mentre altri più in difficoltà nel tentativo di far convivere istanze vecchie e nuove. Ad ogni modo è interessante osservare come il caso italiano possa essere considerato paradigmatico dei rischi che l’utilizzo del concetto di modello in biblioteconomia può recare con sé. Questi rischi sono sostanzialmente due.
Il primo consiste nell’attribuire a determinati modelli delle caratteristiche di predittività fuori dall’ambito nomotetico. È ciò che avviene, ad esempio, quando su materie squisitamente idiografiche come le esigenze locali o i finanziamenti o, ancora, le dotazioni di personale si passa dal piano delle linee guida, cioè da una dimensione comunicativa in cui prevale il tono del suggerimento, della raccomandazione al fine dell’auspicabile – ma non certo – miglioramento delle proprie performance, al piano della prescrizione e della sicumera. Per esempio, in merito alle problematiche connesse alla gestione del cambiamento, le linee guida IFLA definiscono un preciso ruolo che i dirigenti dovrebbero rivestire come guide, il più possibile competenti e consapevoli, al cambiamento stesso che, quindi, non dovrebbe essere né forzato al mantenimento ossessivo del rispetto dei tempi dell’innovazione tecnologica né imposto da decisioni prese a furor di popolo. Esattamente il contrario di quanto capita di leggere in diversi articoli, spesso sotto forma di proclama, nei quali si magnificano le sorti dell’imprescindibile modello della biblioteca 2.0 asserendo dunque, con sconcertante populismo, che «as communities change, libraries must not only change with them, they must allow users to change the library» o ancora «thanks to Web 2.0 and social media tools, users are now able to do the jobs of librarians».
Ancora: si può essere d’accordo sul fatto che, come si legge nelle linee IFLA, una biblioteca probabilmente funzionerà meglio se il personale avrà, tra le proprie doti, anche
una serie di capacità e qualità, che comprendono l’attitudine ai rapporti interpersonali, la conoscenza della realtà sociale, la disponibilità al lavoro di gruppo e la capacità di direzione, la competenza nelle pratiche e nelle procedure dell’organizzazione;
ma come definire altrimenti, se non bizzarra e infondata, un’affermazione come la seguente: «Chi non è anticonformista, creativo e audace non ha posto nella biblioteca di domani»? Anche perché, se le linee guida affermano la necessità di accostare alle doti di cui sopra una solida preparazione biblioteconomica, Antonella Agnoli completa la definizione del suo bibliotecario ideale con l’avvertimento che è «meglio ignorare i tradizionali profili professionali a vantaggio di nuove figure che provengano da ambiti differenti». Magari Agnoli potrà anche avere ragione, tuttavia il modello che porta a generare questo tipo di affermazioni apodittiche non è un modello predittivo ma concettuale, che può essere corroborato a livello fenomenico da alcuni esempi positivi, ai quali possono però essere contrapposti centinaia di casi di altrettanto buona gestione bibliotecaria grazie al fatto che (e non malgrado) il personale risulti in possesso di uno specifico titolo di studio. È solo nella sfera del diritto che, per forza di cose, i modelli concettuali possono generare affermazioni in grado di mettere un’ipoteca sul futuro, per esempio obbligando i bibliotecari a conseguire una laurea in un “ambito differente” e non in una disciplina biblioteconomica, situazione scongiurata in Italia dalla perdurante indolenza del legislatore in merito alla specifica questione.
Queste considerazioni ci portano ora a prendere in esame il secondo rischio che i modelli recano con sé, cioè l’uso ideologico che di essi può essere fatto. Com’è ovvio si tratta di un rischio che non attiene unicamente alla sfera biblioteconomica ma che riguarda in generale il concetto di modello: «Ogni modello ha sempre qualcosa di sinistro» – affermava Elias Canetti – «perché rimanda a un metamodello la cui natura risulta invariabilmente polemica e ostile». Parlare di metamodelli significa spostare il ragionamento sul piano della filosofia della “modellazione” e, quindi, considerare i paradigmi culturali – vale a dire quella cornice di credenze, valori, aspirazioni – all’interno dei quali ogni modello viene a essere elaborato e utilizzato. Le variabili contestuali vanno tenute da conto tanto per i modelli nomotetici come per quelli idiografici, ma se per i primi è il confronto con la realtà a dimostrare la loro validità in quanto o sono capaci di spiegare un fatto e di prevedere un determinato effetto date certe cause oppure no, e allora vanno migliorati o sostituiti, per i modelli idiografici rimane aperta la questione in merito a dove si ponga il limite di accettabilità nel delineare una visione verso la quale si dovrebbe tendere. Lo stato di diritto, come le religioni, come qualsiasi forma con cui una comunità decide di esprimere un quadro valoriale condiviso ha, fra i propri scopi, proprio quello di identificare alcuni limiti e non altri (cosa che, evidentemente, irritava Canetti, allergico a ogni potere costituito) entro cui un modello di azione e di sviluppo possa ritenersi lecito oppure no. Da questa sorta di contrattazione sociale non è per nulla esente anche l’ambito delle discipline idiografiche che, a prima vista, sembrerebbe molto più libero, per non dire anarchico. Certo, ognuno può proporre i modelli che preferisce secondo quanto suggerito dalla propria cultura e sensibilità personale, tuttavia la loro accettazione da parte di una comunità di riferimento sarà commisurata alla loro conformità a quegli standard, codici deontologici, carte dei principi che sono l’espressione di una ricerca di valori comuni sulla base di un confronto il più possibile allargato e partecipato. È evidente che uno degli scopi, a volte niente affatto secondari, nella proposta di un modello alternativo possa consistere nella provocazione volta alla messa in discussione dei quadri valoriali di una comunità scientifica, tuttavia è altrettanto scontato che tale comunità sarà più refrattaria o meno nell’accettare un nuovo modello nella misura in cui esso proverà a intaccare i fondamenti ontologici della disciplina stessa. In ambito biblioteconomico oggi ci troviamo di fronte a uno di questi tentativi, ci troviamo cioè in uno di quei frangenti storici di crisi delle biblioteche che, come tale, impone la necessità di sviluppare nuove soluzioni per nuovi problemi. E chi non vorrebbe, di fronte all’obiettiva difficoltà in cui versano le istituzioni bibliotecarie, individuare un modello in grado di traghettarci con sicurezza dal vecchio al nuovo? Ebbene, una delle soluzioni più comode consiste nella proposizione di modelli di biblioteca di radicale rottura con il passato, così come avviene con il bookshop model, con la library 2.0, con le piazze del sapere, modelli che – pur nelle differenti e specifiche sfaccettature che li distinguono – sono accomunati dalla messa in discussione, come ha scritto Riccardo Ridi, dei “fondamentali” della professione e del servizio e cioè, in sostanza, di quella vocazione bibliografica che storicamente le ha caratterizzate. Questi modelli hanno avuto un notevole successo mediatico (al di là del sempiterno fascino dell’eversione essi hanno comunque il merito di aver individuato dei fattori di crisi inoppugnabili su cui si deve senz’altro agire) ma, d’altro canto, bisogna rilevare la cautela con cui fino a oggi i loro apporti vengono recepiti dalle associazioni internazionali e le critiche pressanti a cui sono stati sottoposti sul piano del confronto teoretico. Si tratta di una resistenza, quella sviluppatasi all’interno del mondo scientifico e della professione, che alcuni potranno definire come meramente misoneista, ma che invece, a nostro avviso, è coerente con quella nozione di complessità bibliotecaria da cui siamo partiti. Personalmente non credo a soluzioni semplici per problemi complessi come sono quelli che riguardano le biblioteche pubbliche attuali, e temo che i tre nuovi modelli sopra menzionati tendano, pur nel loro meritorio sforzo di rinnovamento, ad appiattire gli «specifici linguaggi, documentari e comunicativi, della biblioteca, in assenza dei quali non si attua quel dialogo tra persone, spazi e collezioni che è la condizione preliminare per produrre una concreta tensione verso la libertà, da parte di chi alla costruzione di quel dialogo sceglie di cooperare».
Verso una nuova tipologia di modello
«Libraries are desperately in need of new models for the future» affermava Murray S. Martin agli albori delle grandi rivoluzioni dell’ultimo fine secolo. A distanza di trent’anni ci sembra che tale necessità rimanga immutata, da un lato perché – come si diceva – lo richiede sul piano teorico una biblioteconomia che ambisca al raggiungimento di una propria specifica scientificità, e dall’altro perché lo esigono le biblioteche, oggi alle prese con una crisi identitaria senza precedenti, come senza precedenti è la grande trasformazione in corso nelle società ove esse si trovano a operare nel concreto.
Il problema, quindi, consiste in primo luogo nella ricerca di una tipologia di modello che sappia, o meglio, che provi a rispondere in modo adeguato alle esigenze di complessità del mondo contemporaneo evitando soluzioni preconfezionate in termini di organizzazione di spazi, servizi e funzioni e, allo stesso tempo, riduzionistiche sul piano della dialettica fra tradizione e cambiamento. Al contrario, fra i tratti peculiari dei modelli organizzativi più rispondenti alle caratteristiche di un contesto post-industriale, sembra possano essere individuati: la capacità di adattamento alle mutevoli condizioni ambientali, l’ibridismo consistente nella convivenza tra vecchio e nuovo e la centralità della comunicazione come elemento strutturale della vita dell’organizzazione. Abbiamo a disposizione, in ambito biblioteconomico, una tipologia di modello rispondente a queste caratteristiche? La risposta, a nostro modo di vedere, è positiva, come dimostrano i due esempi che ci accingiamo a proporre, entrambi riconducibili – seppur con i dovuti distinguo – a un concetto di modello che, seppure corroborato da applicazioni concrete, esclude ogni certezza predittiva, ponendosi invece come uno strumento da utilizzare per elaborare un piano di sviluppo specifico in ogni singola biblioteca nel quale esso provi a essere applicato.
Il primo modello, noto al pubblico italiano per essere stato proposto da Anna Galluzzi in Biblioteche per la città, è quello della multipurpose library. Esso si caratterizza per la possibilità di: a) conciliare piccole e grandi dimensioni; b) realizzare servizi personalizzati; c) potenziare le funzioni di svago e, al contempo, quelle di studio e ricerca; d) focalizzarsi sulle componenti funzionali, esperienziali e metaforiche; e) rilanciare la biblioteca come luogo pubblico e integrato della città. Come si osserverà questi tratti salienti si armonizzano in pieno con le direttrici dei modelli organizzativi di cui dicevamo poc’anzi: giocando sulla capacità di combinare quattro ruoli di base – biblioteca come culture center, knowledge center, social center, information center – ogni istituto dovrebbe essere posto nelle condizioni di progettare «un personale percorso di senso» che gli possa consentire, stante la peculiare fisionomia che lo caratterizza (e che lo rende un unicum rispetto alla propria storia, alla forma gestionale, all’edificio che lo ospita, alle collezioni che conserva e alla comunità di riferimento), di poter affrontare la complessità in modo efficace. Curiosamente Galluzzi definisce questo approccio alla multipurpose library come un qualcosa che va oltre la modellizzazione mentre in realtà ciò che viene proposto è di fatto un diverso tipo di modello che, a differenza di quanto afferma l’autrice, non si risolve in una mera somma di quelli precedenti ma che invece tutti quanti sussume in una dialettica complessiva, senza per questo rimanere vincolato alla vocazione predittiva di ciascuno di essi.
Difatti Jochumsen, Hvenegaard Rasmussen e Skot- Hansen nel presentare il loro four spaces model – e siamo al secondo esempio – non rinunciano al termine modello ma, al contrario, lo ritengono del tutto appropriato per enfatizzare la sua funzione di stimolo alla discussione teorica («The model could be used as a framework for the discussion of the library’s overall purpose and legitimacy internally in relation to its employees, but also externally in relation to politicians, users and partners») e, contestualmente, di strumento per la riorganizzazione dei servizi («An instrument for arranging and rearranging libraries as well as a tool in plans for building new libraries»). Anche questo modello, così come quello precedente, si articola su un mix di funzioni riferibili a quattro spazi specifici (cultural center, knowledge center, social center, information center) da individuare e da calibrare in ogni singola struttura, spazi peraltro non troppo dissimili da quelli proposti da Galluzzi. L’attività di pianificazione condotta sulla base del four spaces model dovrebbe quindi consentire la definizione di un profilo personalizzato di ogni istituto che, messo a confronto con le rappresentanze dei cittadini, possa fungere da leva per il miglioramento dei servizi.
In conclusione: una tipologia di modello che consenta il massimo grado di flessibilità è, oggi, l’unica possibilità che seriamente può essere presa in considerazione onde schivare «l’appiattimento delle singolarità regionali o nazionali e l’assorbimento delle situazioni anomale entro un’omogenea e rettilinea scala del progresso bibliotecario». In una fase d’incertezza come quella attuale, che caratterizza sia i macrocontesti nei quali i possibili modelli di biblioteca dovrebbero essere applicati sia i microcontesti delle diverse situazioni locali, non c’è altra strada che tentare di svolgere al meglio i propri compiti con le poche risorse a disposizione: comprendere la differente natura di queste “scarsità” e capire come sfruttarle al meglio sarebbe già un grande risultato per uno strumento di indagine teorica. Per il resto sarà opportuno mettersi in ascolto, osservare singole esperienze concrete e da esse trarre spunti per la prassi biblioteconomica: come ha scritto Paul Krugman, è questo il tempo più adatto per «raccontare storie più che dimostrare teoremi».