L’utente (il lettore?) tra quantità e qualità: “buchi neri” ed esigenze di ricerca
Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche, Università di Roma La Sapienza; alberto.petrucciani@uniroma1.it
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 23 aprile 2016.
Abstract
Nella letteratura biblioteconomica si parla molto dell’utente ma le ricerche sono insoddisfacenti per la mancanza di prospettiva storica, di attenzione ai fenomeni concreti e di strumenti interpretativi. I dati sull’utenza spesso non vengono raccolti e non vengono analizzati seriamente per formulare strategie. Un esempio è quello della serie storica dei lettori nelle biblioteche statali dall’Unità a oggi, che mostra un vistoso declino. Un altro esempio è il tracollo delle biblioteche pubbliche britanniche, che hanno perso in dieci anni un terzo degli utenti e il 30% dei prestiti. Mettendo a confronto da una parte i dati sulle biblioteche pubbliche e sulla lettura in vari paesi europei, dall’altra lo straordinario ciclo di vita del libro, in crescita da più di cinque secoli e mezzo, si propongono vari spunti di riflessione sulla modificazione dei servizi delle biblioteche pubbliche e in generale sulla carenza di riflessione sulle scelte, sulla qualità del servizio e sul suo valore. In conclusione si sottolinea la differenza fondamentale tra le biblioteche, come istituzioni culturali, e i servizi commerciali e la necessità di considerarle come un investimento culturale, non un semplice consumo.
English abstract
The user is almost ubiquitous in library literature but research is unsatisfactory because of the lack of historical perspective, of attention to concrete phenomena and of interpretation frames. Statistical data are often not collected and are not seriously analyzed to formulate strategies. An example is the statistical series of Italian state libraries, showing a dramatic decline. Another example is the collapse of British public libraries, losing in a decade a third of their users and 30% of loans. Comparing the data on public libraries and reading in various European countries and the extraordinary life cycle of the printed book (with over five and a half centuries of growth), the paper proposes some reflections about changing patterns in public library service and, in general, the lack of a serious consideration of the impact of service choices, of the quality of service and of its value. In conclusion, the paper points out the fundamental difference between libraries, as cultural institutions, and commercial services, and the need to consider the library service as a cultural investment, and not just as a form of consumption.
L’utente e i servizi delle biblioteche: cosa sappiamo veramente?
L’utente, con le sue esigenze, è oggi praticamente ubiquo nella letteratura biblioteconomica, soprattutto quella internazionale, e non sorprende che sia menzionato per gli scopi più vari, e quindi per sostenere le posizioni più diverse, più o meno sostenibili. Naturalmente, dato che le biblioteche sono istituzioni culturali che offrono un servizio, è importante che questo servizio abbia degli utilizzatori, e in generale – insieme però ad altre condizioni – è importante che questi utilizzatori siano numerosi.
Le ricerche in questo campo, però, sono poco soddisfacenti, per motivi diversi tra i quali sono stati da tempo segnalati la carenza (quando non la mancanza completa) di una prospettiva storica, o comunque di una visione diacronica di un certo respiro, la considerazione astratta o ideologica dei fenomeni, raramente interrogati nella loro concretezza e complessità, e la povertà degli strumenti interpretativi, che si riducono spesso a una sorta di acritico tardo-positivismo, superatissimo nei campi più vitali della ricerca storica e sociale.
In tema di utenza dei servizi bibliotecari si pone subito una prima questione, tutt’altro che banale: sono le biblioteche a decidere di fare un certo servizio, o di farlo in un certo modo? O dovrebbero fare quello che chiedono gli utenti? Quali? E i non (ancora) utenti? E poi, come si fa a chiedere ciò che non si conosce?
Qualche decennio fa il marketing ha un po’ rovesciato la questione, con lo slogan “non vendo ciò che produco, produco ciò che vendo”. Ossia, l’azienda non dovrebbe dare per scontato cosa “vendere”, cercando chi è disposto a comprarlo, ma dovrebbe orientare la sua produzione o il suo servizio sulla base di quello che “si vende”.
Il rovesciamento, ovviamente, è molto relativo, anche se non sempre lo si nota. È molto relativo perché l’azienda mantiene esattamente il suo obiettivo (in un’impresa commerciale, quello del profitto) e non assume certo quello del cliente (che, in genere, sarà quello di ricevere di più e di meglio, spendendo meno e possibilmente niente). Non si tratta quindi di un rovesciamento e tanto meno di una rivoluzione – è stato detto molto tempo fa che rivoluzionario è ormai qualsiasi detersivo –, ma soltanto di un aggiustamento, di un richiamo a tenere conto della rispondenza (o no) delle scelte che si fanno, di ciò che si offre.
Comunque, se non altro per conoscere un po’ meglio, o meno peggio, il mondo in cui si opera, i dati sull’utenza vanno raccolti, conosciuti ed esaminati, a partire da quelli più semplici, come i numeri assoluti dei frequentatori delle biblioteche e dei libri e altri materiali consultati o presi in prestito.
Naturalmente dire che i dati assoluti sull’utenza sono un elemento da considerare (anche se, come vedremo, non sono certo l’unica cosa che conta, e forse neanche quella che conta di più) può sembrare un’assoluta ovvietà. Ma non è così. Non è ovvio, tanto che gran parte delle biblioteche (e delle amministrazioni da cui dipendono) non li rileva, e anche chi li rileva spesso non li mette a disposizione. Oppure, non rileva i dati che più occorrono per comprendere una situazione. Per fare un solo esempio, il Comune di Roma, che rileva vari dati sulle biblioteche, non registra, a quanto pare, quanti siano gli utenti attivi, rendendo impossibile valutare l’impatto dei servizi rispetto ai cittadini. (Si può comprendere che all’industria cinematografica interessino soprattutto i biglietti venduti in un anno, senza considerare chi ne ha acquistato uno e chi ne ha acquistati 50; giustamente invece l’Istat rileva quante persone sono andate – almeno una volta l’anno – al cinema, piuttosto che gli ingressi, ed è evidente che per le biblioteche il secondo approccio, sociale e non economico, è quello più importante, dovendo scegliere).
La considerazione non è ovvia anche da un altro punto di vista: i dati non solo vanno raccolti e diffusi, ma devono essere utilizzati, non semplicemente per riempire fogli di carta o pagine web, ma per aiutare a comprendere e a valutare le situazioni, e quindi a elaborare strategie e tattiche. Prendiamo come esempio un solo caso, la serie storica dei lettori (ossia delle presenze) e del materiale dato in lettura nelle biblioteche pubbliche statali italiane nei 150 anni dall’Unità (il grafico comprende anche il prestito, che però per noti motivi è scarsamente significativo). Dati di questo genere vanno sempre osservati, per quanto possibile, su un ampio arco di tempo: la “lunga durata” non è solo una bella formula di Fernand Braudel, il grande storico francese, ma una dimensione indispensabile per una buona interpretazione. Oggi in genere è una dimensione trascurata o occultata, non solo nei mezzi d’informazione di massa – che sono succubi del sistema della pubblicità e per loro natura devono puntare ad attirare l’attenzione su eventuali (anche inesistenti) elementi nuovi, pena il non essere acquistati o guardati ogni giorno – ma perfino da parte dei servizi statistici, che spesso presentano i dati senza confronti o con confronti limitati a uno o pochissimi anni. Invece, per interpretare i fenomeni e costruire delle strategie, le oscillazioni di breve periodo (congiunturali, come si dice in economia) hanno per lo più scarso rilievo e possono anche essere fuorvianti, mentre è essenziale comprendere se siano in atto tendenze, appunto, di lunga durata, quelle più importanti.
La curva dei servizi delle biblioteche statali italiane, come si vede, è da tempo in netto e serio declino, anche se con qualche temporaneo recupero: non sarà il caso di farci qualcosa? E, intanto, di notare la cosa, esaminarla (anche per verificare l’affidabilità dei dati), discuterla?
Naturalmente, per discuterne con cognizione di causa e in maniera utile, il singolo dato va esaminato un po’ più da vicino. Ad esempio, per una migliore lettura dovremmo considerare anche i dati demografici. La popolazione italiana, che all’ultimo censimento sfiorava i 60 milioni e li ha poi superati, era intorno ai 40 milioni nel 1931 e ai 30 milioni nel 1881: se ponderassimo i dati in rapporto alla popolazione l’impressione del grafico sarebbe ancora più vistosa. Oltre al semplice dato della popolazione dovremmo considerare anche i livelli d’istruzione. Gli studenti universitari – una categoria di utenti potenziali delle biblioteche statali molto indicativa come dimensioni e per la quale disponiamo di una serie statistica completa – erano soltanto 60.000 circa negli anni Trenta, nella prima metà degli anni Settanta erano diventati circa 800.000 e sono attualmente circa 1,7 milioni. Anche per questo dato, la ponderazione aggrava l’impressione fornita dal grafico. Si potrebbe, dal punto di vista opposto, osservare che negli ultimi quarant’anni sono cresciuti in modo significativo il numero delle biblioteche (pubbliche, universitarie, speciali) e i loro servizi, e quindi lo spostamento del pubblico e della fruizione verso altre biblioteche potrebbe rendere in una certa misura fisiologico il declino dei servizi delle biblioteche statali. Ma è argomento a cui non ci si può aggrappare frettolosamente per darsi un alibi: altre biblioteche c’erano anche in passato e raggiungevano a volte risultati notevoli sul piano quantitativo (le biblioteche popolari milanesi al tempo di Fabietti sfioravano il mezzo milione di prestiti e per la “lettura borghese” esisteva una larga offerta, su base associativa o commerciale).
Alcuni dati sulla lettura nelle biblioteche pubbliche dei maggiori paesi d’Europa
La scarsa attitudine a confrontarsi seriamente con i dati reali non è solo un problema italiano, anzi sembra essere un problema generalizzato nel mainstream bi- blioteconomico internazionale. Purtroppo molta letteratura specializzata non è solo infarcita di luoghi comuni, ma aduggiata da un tono da spot pubblicitario o da convention aziendale, se non da Alice nel paese delle meraviglie. Prendiamo un altro esempio. Le biblioteche pubbliche di un grande paese europeo hanno perso in dieci anni (dal 2003/04 al 2013/14) il 33% degli iscritti attivi e il 30% dei prestiti. Una vera Caporetto. È una delle questioni di cui più si parla nel dibattito biblioteconomico, si cerca di capire come mai, e così via? Silenzio. Quel paese sarà l’Islanda o la Lettonia, di cui poco (senza offesa, naturalmente) ci interessiamo? No, è il Regno Unito, delle cui biblioteche pubbliche la letteratura biblioteconomica internazionale (e anche quella italiana) parla continuamente. Peccato che non si parli, o solo di sfuggita e obliquamente, del dato più importante e significativo, ossia del loro tracollo.
Ci sono altri paesi d’Europa in cui le cose stiano andando così male? Potrebbe essere interessante accertarlo, dal punto di vista comparativo, per elaborare delle strategie fondate. Ma non si sa. Purtroppo, dopo la conclusione del progetto LIBECON, che nonostante i suoi limiti tentava di offrire una mappa generale dello stato dei servizi bibliotecari in Europa, non abbiamo, che io sappia, statistiche comparative aggiornate e relativamente affidabili.
Il Service du livre et de la lecture del Ministero della cultura e della comunicazione francese diffonde però alcuni dati dai quali possiamo venire a sapere, p.es., che le biblioteche pubbliche (municipali) francesi hanno prestato, nel 2013, 265 milioni di pezzi, di cui circa 200 milioni di libri.
In termini assoluti, quindi, i dati francesi sono ormai molto vicini a quelli inglesi per il totale (265 milioni rispetto ai 276 del Regno Unito), mentre gli audiovisivi vi hanno ancora un peso maggiore (circa 65 milioni in Francia rispetto a 19 milioni in Gran Bretagna), e quindi il distacco per i libri resta notevole (circa 200 milioni per la Francia e 247 per la Gran Bretagna). Se queste tendenze continueranno nei prossimi anni, potrà succedere che come esperienza più rilevante di biblioteche pubbliche in Europa si debba considerare quella francese, piuttosto che quella inglese (e non c’è bisogno di sottolineare quante differenze vi siano nell’impostazione tra l’una e l’altra, e in generale nella visione dell’ambiente professionale).
A livello di cifre assolute, però, al primo posto in Europa per il volume del prestito nelle biblioteche pubbliche dovrebbe trovarsi negli ultimi anni la Germania, che è anche il paese di gran lunga più popolato del continente (a parte la Russia). Secondo gli ultimi dati ufficiali (2014) i prestiti delle biblioteche pubbliche tedesche sarebbero circa 354 milioni, divisi approssimativamente in un rapporto 2:1 tra libri e materiali non librari. In rapporto alla popolazione (prestiti pro capite) il valore dovrebbe essere leggermente inferiore a quello britannico, e superiore a quello francese, ma quello che colpisce nei dati tedeschi è un altro elemento, il numero di utenti attivi, che risulta di circa 7,3 milioni, che corrispondono all’8,9% della popolazione. Si tratta di un valore molto basso, inferiore non solo a quello francese ma anche a quello italiano (gli utenti attivi delle nostre biblioteche pubbliche sono generalmente valutati intorno al 10% della popolazione), a cui farebbe riscontro una cifra elevatissima di prestiti per iscritto (circa 48 all’anno). Si tratterebbe, quindi, di un sistema bibliotecario utilizzato da una minoranza ristretta della popolazione ma che riesce a fornire a questa un numero molto elevato di pezzi (tra i quali, si è detto, un po’ più di un terzo di audiovisivi, con i quali è più facile che con i libri tenere alte le statistiche). Purtroppo è difficile, in generale, trovare dati attendibili e aggiornati (non si dice precisi, che spesso non è necessario), e questa semplice constatazione la dice lunga su quanto nella letteratura biblioteconomica più diffusa i vacui discorsi di tono propagandistico prevalgano rispetto a un serio approccio scientifico e professionale.
Ma torniamo ai dati delle biblioteche pubbliche britanniche. In questo tracollo, cosa è crollato in maniera più vistosa? Il prestito dei libri (cartacei) di narrativa, che rappresenta il servizio più tradizionale delle biblioteche pubbliche? No: tra il materiale non per ragazzi, la narrativa è quella che ha resistito meglio. Quale settore è crollato più nettamente? Il prestito di audio e video, quasi dimezzato in dieci anni. Ma come, non ci è stato raccontato invece che le biblioteche erano rimaste troppo “librocentriche”, mentre avrebbero dovuto occuparsi di più di dischi e video? Il tracollo del prestito del materiale audiovisivo si può collegare, ovviamente, ai fenomeni della circolazione in rete: ma questi esistono anche per gli altri materiali, che evidentemente ne hanno risentito molto meno. Comunque si interpreti il fenomeno, l’impressione che i dati suscitano è che le biblioteche pubbliche britanniche abbiano puntato su certi “cavalli” e abbiano perso. Lo si può dire in maniera edulcorata, o aggiungerci qualche “distinguo”: ma qui intendo sollevare l’attenzione sulla questione, non esaminarla in maniera approfondita, cosa che non sarebbe possibile nell’economia di questo contributo.
Il ciclo di vita del libro e di altri prodotti
Il caso del tracollo dei prestiti del materiale audiovisivo (fenomeno, se non erro, piuttosto generalizzato nelle biblioteche pubbliche dei paesi occidentali) stimola un’altra considerazione, che si potrebbe riassumere, un po’ scherzosamente, nella legge che “il vecchio invecchia meno del nuovo”.
Anche questa “legge” (tra virgolette, beninteso) può apparire scontata, in quanto il passaggio valutativo da “nuovo” a “vecchio” è evidentemente più vistoso di quello da “abbastanza vecchio” a “un po’ più vecchio”. Inoltre, nel “ciclo di vita” di un prodotto o servizio è frequente che la fase ascendente sia piuttosto rapida mentre quella discendente sia piuttosto lenta e con una lunga coda (in distribuzioni statistiche di quel genere, come quelle che riguardano le vendite di un libro, la coda è sempre lunga, prima di Internet o con Internet, al di là delle mitologie in proposito, in genere basate su scarse conoscenze matematiche).
Ma le curve del “ciclo di vita” di un prodotto possono essere molto differenti. Vi sono prodotti “vecchi”, come il libro (a stampa su carta), che hanno una curva di crescita lunghissima: dalla sua invenzione fino ai nostri anni, per oltre 5 secoli e mezzo, si sono via via sempre prodotti e venduti più libri (sia come titoli sia come copie). In alcuni paesi, negli ultimi due/tre anni, questa crescita si è arrestata, almeno per quanto riguarda i libri su carta, ed è quindi possibile che dopo circa 560 anni di crescita si sia raggiunto un livello massimo, a cui seguirà probabilmente un certo decremento. La questione è comunque complessa perché, in termini globali, i paesi in cui il libro è tuttora in forte crescita (p.es. la Cina) possono compensare quelli in cui la crescita si è arrestata. Insomma è difficile dire quale sarà l’anno in cui sul pianeta Terra si produrranno e si venderanno più libri di carta dall’invenzione di Gutenberg. La “crisi del libro”, come sanno gli storici (e come celiava Luciano Bianciardi), è cominciata intorno al 1472, ma l’anno in cui il libro a stampa raggiungerà il suo culmine di produzione e diffusione non sembra ancora arrivato.
In parecchi altri casi, invece, il ciclo di vita di un prodotto (di contenuto “culturale”) è stato molto più rapido. Per i dischi di musica, introdotti in commercio alla fine dell’Ottocento, il picco massimo delle vendite – secondo i dati ufficiali IFPI (International Federation of the Phonographic Industry) e sommando i diversi tipi di dischi e cassette – è stato toccato nel 1997, ossia dopo circa cent’anni. Sto parlando di prodotti specifici – come il libro a stampa su carta e i supporti di musica registrata –, non della diffusione, in generale o dal punto di vista commerciale, di testi scritti o di registrazioni musicali, che sarebbe questione più complessa (ma non può essere semplicisticamente adoperata come un alibi per chiudere gli occhi davanti ai fenomeni più evidenti e accertabili).
Un altro caso interessante da questo punto di vista (e quindi anche della “legge” – sempre tra virgolette – dell’invecchiamento del “nuovo”) è quello del cinema. I biglietti venduti, in Italia, oscillano attualmente intorno a cento milioni all’anno (98 milioni nel 2014), dopo aver toccato il punto più basso nel 1992 con 83 milioni. Ma nel 1981 erano più di 200 milioni, nel 1978 più di 300 milioni, nel 1976 più di 400 milioni, e fra il 1947 e il 1965 sempre oltre i 500 milioni; anche prima della guerra si aggiravano intorno a 300/400 milioni. Il massimo storico è stato toccato nel 1955 con 819 milioni di biglietti venduti (più di otto volte i dati attuali). Il dato è ancora più vistoso se ponderato con l’andamento demografico: si raggiungono i 10 biglietti per abitante nel ‘42 (sì, l’Italia era già in guerra da due anni) e poi quasi 17 nel 1955, riscendendo sotto i 10 per la prima volta nel 1970, poi sotto i 5 nel 1979, sotto i 3 nel 1983, sotto i 2 nel 1987 e addirittura sotto 1,5 nel 1992 (il dato attuale è intorno a 1,6).
Insomma il cinema, mezzo certo più “moderno” del libro, ha avuto un ciclo evolutivo piuttosto rapido, con una crescita durata circa mezzo secolo e poi un brusco calo (che generalmente si fa risalire alla diffusione della televisione), cosicché stagna ormai da oltre vent’anni, in Italia, a un livello quasi dieci volte inferiore a quello che aveva raggiunto a metà del XX secolo. Niente di analogo si registra per gli spettacoli teatrali e musicali, che pur avendo subito un certo calo dopo il picco del 1937 (oltre 21 milioni di biglietti venduti in Italia) e dopo quello postbellico del 1950 (quasi 21 milioni), hanno poi avuto a partire dal 1963 un andamento generalmente positivo – anche se con oscillazioni – superando di nuovo i 20 milioni di biglietti nel 1977 e poi i 30 milioni nel 1995, con il massimo storico, di quasi 36 milioni, nel 2007 (ora si aggirano intorno a 33 milioni). Naturalmente il fatto che si tratti di un fenomeno in parte d’élite può aiutare a spiegare la sua tenuta e anzi la sua crescita, di contro a fenomeni più di massa come il cinema o l’acquisto di dischi.
Dal punto di vista delle biblioteche, comunque, può essere interessante riflettere su come alcuni generi di offerta culturale siano più in grado di altri di mantenere o rafforzare un uso “in presenza”, rispetto a quello “a distanza”. Sicuramente i servizi a distanza hanno, e avranno, grandissima importanza per le biblioteche, ma anche su quelli in presenza sarebbe opportuna una riflessione più approfondita delle considerazioni correnti sulla “biblioteca come luogo”, che si occupano quasi esclusivamente della biblioteca come “spazio” (per utilizzazioni differenti) piuttosto che dell’uso dei suoi servizi. Per la solita “legge” dell’invecchiamento, si potrebbe ancora osservare che le “tecnologie” della rappresentazione teatrale e dell’esecuzione musicale dal vivo (come i relativi ambienti) sono più “vecchie” di quelle del film: questo potrebbe aver permesso loro di resistere meglio sul piano della partecipazione diretta, con la presenza fisica sul posto, rispetto alla fruizione dei film in modalità diverse dalla sala cinematografica. Sarebbe interessante estendere la comparazione anche a fenomeni di tipo diverso, ma che possano avere qualche elemento di analogia. Ad esempio, uno dei prodotti che più ha caratterizzato la seconda metà del Ventesimo Secolo è certamente l’automobile. Considerando solo il nostro paese, la crescita della diffusione dell’auto dai 111 esemplari censiti nel 1899 ai circa 37 milioni di oggi è impressionante. Tuttavia, se il parco di automobili circolanti in Italia è cresciuto fino al 2011 (tenendosi poi poco sotto quella cifra negli ultimi anni), il rallentamento delle immatricolazioni è evidente: il picco è stato toccato nel 2007, con poco meno di 2,5 milioni, ma la cifra è poi quasi dimezzata (1.360.293 vetture nel 2014) e immatricolazioni oltre i due milioni all’anno si erano già registrate tra il 1988 e il 1992. Una curiosa notizia – che non ho verificato – è che «Nel 2012 in Italia si sono vendute più biciclette che automobili».
Fuori dall’Italia, mentre la produzione di autoveicoli è ormai calata in tutti i paesi occidentali, è ancora in crescita in Cina, Corea, India, Brasile e altri paesi asiatici o latinoamericani, e quindi anche nel totale complessivo a livello planetario.
Tornando a prodotti più vicini al nostro campo, un caso interessante è quello dei lettori di e-book. Lasciando da parte il Bookman della Sony (1992), la commercializzazione dei lettori inizia nel 1998 ma cresce sensibilmente solo con quelli a “inchiostro elettronico” (Sony 2004-2006, Kindle 2007) raggiungendo il massimo, a livello mondiale, nel 2012 (in alcuni paesi un po’ più tardi, p.es. in Francia era ancora in crescita il dato 2013). La crescita, a quanto pare, è stata molto rapida tra il 2010 e il 2011 e la diminuzione progressiva, dopo il 2012 (o secondo altri già da quell’anno), ha portato già nel 2015 al dimezzamento delle vendite (circa 20 milioni di apparecchi venduti contro circa 40 milioni nel 2012). A quanto pare si tratterebbe, insomma, di un prodotto con un ciclo di vita particolarmente insoddisfacente, lento a decollare e con un periodo molto breve di crescita sostenuta, interrotto da un brusco declino prima ancora di aver potuto raggiungere l’evoluzione tecnologica che ci si poteva attendere (p.es. il passaggio dal grigio al colore, per il quale i risultati tecnici raggiunti non sono stati fin qui sufficienti all’affermazione sul mercato, e altre caratteristiche ipotizzate come obiettivi anni fa, p.es. la ripiegabilità o la flessibilità).
Naturalmente buone previsioni sono difficili da fare, e richiederebbero un’analisi approfondita delle situazioni e dei fattori in gioco oltre al confronto con casi e situazioni analoghi. Queste difficoltà non sono però motivo sufficiente per mettere in circolazione, e addirittura discutere in un ambiente professionale, delle evidenti sciocchezze.
Utenti-non utenti in biblioteca
Tornando alla questione della diminuzione del numero di utenti attivi delle biblioteche, fenomeno che come abbiamo visto si riscontra – anche se con tempi e impatto che possono essere molto differenti – in biblioteche di vari paesi e di diverso tipo, sarebbe interessante a mio parere approfondire l’analisi del fenomeno. Spesso tendiamo a dare per scontata, anche inconsapevolmente, una qualche contrazione dell’interesse per il libro e la lettura, mentre al contrario notiamo – e molti sostengono anche che si tratti di un fenomeno positivo – una maggiore presenza di quelli che potremmo definire (certo in modo controverso) “utenti-non utenti”, ossia persone che si recano materialmente in una biblioteca ma non ne utilizzano i servizi. Ovvero, se si preferisce dirlo in modo più neutro, ne utilizzano alcuni servizi (lo spazio, i tavoli e le sedie o poltroncine, il riscaldamento e l’illuminazione, le toilettes ecc., oppure – ed è già questione un po’ diversa – le postazioni informatiche o la connessione wireless) piuttosto che altri (come la lettura, la consultazione e il prestito, o le informazioni). Al di là della questione – a mio parere piuttosto futile – di come vogliamo chiamare questi fenomeni dal punto di vista linguistico, resta il fatto che si tratta di servizi di carattere piuttosto diverso, alcuni specifici delle biblioteche e altri no, alcuni richiedenti personale specializzato e altri no, alcuni richiedenti risorse bibliografiche e altri no, e così via. Insomma, per quanto si cerchi di non guardare in faccia la realtà, è difficile che si riesca a considerare come altrettanto “bibliotecari” usi così diversi.
Quando si tocca questo punto, c’è sempre qualcuno che osserva che alle persone non si può proibire di entrare in una biblioteca pubblica, o che studiare in un posto tranquillo (o anche usufruire gratuitamente di una toilette pulita) è un fatto positivo. La replica però è fuori luogo, perché nessuno, che io sappia, ha mai affermato il contrario. Nessuno, d’altra parte, ha mai affermato neanche che l’uso della biblioteca pubblica sia privo di qualsiasi regola (o regolamentazione, generale o specifica) e non sia soggetto ad alcun vincolo o limitazione. La questione è un’altra, ossia se i bibliotecari debbano (come spesso hanno fatto in passato) cercare di sviluppare i servizi bibliotecari, di potenziarli in maniera che siano più utilizzati e diano maggiore frutto, oppure lasciarli decadere, accontentandosi che la biblioteca non si svuoti fisicamente perché comunque c’è qualcuno che ci viene e occupa i posti a sedere, anche se per fare dell’altro. (Il problema dei posti a sedere si pone, come tante volte è avvenuto qua e là in passato, quando questi sono insufficienti per la quantità di persone che viene a utilizzare i servizi bibliotecari e per chi vi viene solo per utilizzare gli spazi: non è raro che gli utenti, a ragione, si lamentino di come gli spazi vengono utilizzati).
Per riflettere seriamente su questo punto avremmo bisogno, intanto, di verificare se davvero c’è una contrazione dell’interesse per il libro e la lettura (o anche per lo studio), e, se sì, come si rapportino le sue dimensioni (e forse anche le sue caratteristiche) alla riduzione degli utenti dei servizi bibliotecari.
La lettura in Europa, fuori e dentro le biblioteche: ancora qualche dato e alcuni spunti di riflessione
In Italia, per quanto i dati sulla lettura di libri (per motivi non scolastici o professionali) siano stati negli ultimi vent’anni altalenanti e non più sistematicamente in crescita, i punti più alti sono stati toccati nel 2010 e 2012 (46%) e, pur con la battuta d’arresto degli ultimi anni, le cifre rimangono comunque sopra i livelli raggiunti fino al 1996.
In Gran Bretagna vi è stata forse una certa contrazione della percentuale di lettori di libri rispetto a qualche decennio fa, ma i dati correnti (64%) sono sostanzialmente stabili da vent’anni e non manifestano nulla di simile al tracollo dei prestiti delle biblioteche pubbliche; le vendite di libri sembra siano tuttora in crescita. Esistono tuttavia, come in Italia, fondate preoccupazioni riguardo a ritardi e carenze di politica del libro e della lettura e, più in generale, di politica culturale e dell’istruzione. Il declino delle biblioteche pubbliche ha origini non recenti: secondo i dati di un rapporto parlamentare del 2005, il picco del numero dei prestiti (per Inghilterra e Galles) è stato raggiunto nel 1979/80 e dall’anno successivo è iniziata una diminuzione, inizialmente lieve e dal 1991/92 molto più sensibile, dopo la breve ripresa del 1989-1991. Come nota con britannico understatement lo stesso rapporto, «It is difficult to argue that the library service is simply responding to reduced demand from the community when: overall expenditure is rising in real terms; demand for books and information from other sources is also rising; and evidence shows that library improvement and/or refurbishment schemes can boost visits and, in particular, book issues by a significant degree». Il concetto è ribadito anche in modo più deciso: «Book issues are falling but book sales are up and you only have to make a journey on public transport to see evidence of people’s appetite for books. Book issues are not down because people are not reading»; «It cannot be a coincidence that book issues have fallen just as libraries are spending less on their book stocks».
In Germania i livelli di lettura sono tradizionalmente piuttosto elevati, superiori a quelli italiani, mentre – come si è visto – l’uso delle biblioteche pubbliche è piuttosto ristretto: almeno due terzi dei lettori di libri non frequentano mai le biblioteche. Anche nei Paesi Bassi, nonostante i livelli di lettura di libri siano molto elevati, le biblioteche pubbliche sono da tempo in difficoltà e con risultati in sensibile calo (anche se non nelle dimensioni inglesi): la percentuale di utenti attivi in rapporto alla popolazione diminuisce dal 1995, il numero dei prestiti dal 1994, e anche in questo caso, come per la Gran Bretagna, bastano le date a smentire l’ipotesi, avanzata come spiegazione in una recente ricerca, che il calo sia dovuto alla diffusione di Internet, che riguardava allora una percentuale minuscola della popolazione.
In Francia la lettura di libri (non scolastica o professionale) ha raggiunto il 75% della popolazione nel 1988 – ma le indagini ufficiali, o almeno quelle più facilmente raggiungibili, sono saltuarie e non annuali – scendendo poi al 70% nel 2008 e al 69% nel 2014[7]. Nei dati francesi colpisce particolarmente l’ampiezza della fascia dei “lettori forti” (in Francia definita da 20 libri o più all’anno) che nel 1973 risultava addirittura del 28% ed è poi scesa al 24% nel 1988, al 20% nel 1997, al 16% nel 2008, risalendo al 18% (ma non si tratta della stessa indagine) nel 2014.
Ricapitolando, vi sono paesi – come la Gran Bretagna – in cui la lettura e la circolazione commerciale dei libri non sembrano in calo sensibile, mentre le biblioteche pubbliche subiscono un vero tracollo, e altri in cui – come in Francia – l’uso delle biblioteche sembra subire solo una lieve contrazione, inferiore a quella della lettura. Sono indubbiamente molto differenti le percentuali di utenti delle biblioteche rispetto alla popolazione, e in questo incidono probabilmente fattori storici di lungo periodo. Ma senz’altro nei diversi casi la platea dei lettori di libri è molto più ampia di quella degli utenti delle biblioteche (più del triplo in Germania e in Italia, forse il quadruplo in Francia, più del quadruplo in Gran Bretagna), il che dovrebbe farci riflettere molto di più su come mai le biblioteche – che nella concezione comune sono strettamente legate al libro e alla lettura – non riescano ad attrarre se non una minoranza dei lettori.
È piuttosto curioso che per esorcizzare la questione ci si appigli spesso a giustificazioni opposte: da una parte a una riduzione dell’interesse per i libri e la lettura, tutta da dimostrare, e dall’altra, quando si addita la debolezza del primo argomento, alla diffusione dell’acquisto, ossia alla spiegazione che i lettori, ricorrendo più largamente alle librerie, hanno meno bisogno dei servizi bibliotecari. Con questo, naturalmente, non voglio dire che non si debbano considerare con attenzione entrambi i fenomeni, nella loro reale consistenza e nelle loro motivazioni: solo che entrambi vanno considerati come terreni d’azione per le biblioteche pubbliche – promozione della lettura da una parte, elaborazione di modelli di servizio adeguati al livello di sviluppo dei circuiti commerciali del libro dall’altra – e non come alibi, opposti ma complementari, per assistere inerti, o con iniziative controproducenti, alla perdita di ruolo della “lettura pubblica”.
Andrebbe verificata in particolare l’ipotesi, tutt’altro che peregrina, che la deriva di allontamento delle biblioteche pubbliche dalla centralità del libro e della lettura le porti sempre più a perdere una parte del loro pubblico, e in particolare il pubblico più motivato e che più ne potrebbe utilizzare i servizi, rispetto al luogo comune inverso, che circola soprattutto nella letteratura biblioteconomica di matrice anglosassone. A questo scopo andrebbero sicuramente replicate e approfondite le ricerche incrociate sui comportamenti di acquisto e prestito dei libri e sull’atteggiamento dei lettori rispetto alle biblioteche pubbliche e alle loro trasformazioni.
Sarebbe interessante anche studiare quali ricadute gli atteggiamenti della professione riguardo all’impostazione dei servizi delle biblioteche pubbliche abbiano sullo sviluppo o, al contrario, sulla contrazione delle componenti più professionali del lavoro. Da questo punto di vista i dati britannici sono ancora più preoccupanti in quanto evidenziano che nei dieci anni considerati la riduzione dei posti di lavoro complessivi nelle biblioteche pubbliche è stata “solo” del 27%, mentre quelli di carattere professionale si sono praticamente dimezzati (-48%). Al di là delle possibili interpretazioni sui nessi causali fra tracollo del servizio e dimezzamento dei posti di lavoro per bibliotecari (qualificati), non è difficile vedere che servizi biblioteconomicamente qualificati comportano personale professionale, mentre servizi generici, di offerta di spazi e anche di materiali commerciali di routine proposti in maniera anonima, sono congrui con l’utilizzazione di personale non professionale (e, sempre più spesso, soltanto di volontari, magari con l’aggiunta di qualche addetto alla vigilanza o alla manutenzione di apparecchi e impianti).
Lettori e biblioteche tra quantità e qualità
Fin qui ho proposto qualche riflessione (con qualche dato, raccolto rapidamente senza troppe pretese) essenzialmente sulle quantità, ma una riflessione seria andrebbe fatta anche sulla qualità.
Ho accennato alla tipologia dei servizi fruiti, e una riflessione ulteriore dovrebbe farsi anche sui tipi di fruizione. Naturalmente le persone, sotto il profilo dei diritti umani o, per noi, di quelli costituzionali, sono tutte uguali, ma da lì a concludere che uguale sia o debba essere anche il servizio ce ne corre. L’uguaglianza (sotto certi riguardi) è una condizione giuridica, l’equità dei servizi è un’altra cosa.
Un “servizio uguale per tutti” non è, ovviamente, un servizio equo, perché i “tutti” non sono uguali tra loro. Hanno esigenze e convenienze diverse, cosicché qualsiasi scelta di servizio che facciamo (servizi sul posto e a distanza, giorni e orari, acquisti ecc.) favorisce qualcuno e perciò, anche se non ci piace dirlo e nemmeno pensarlo, sfavorisce qualcun altro.
Parafrasando il titolo di un vecchio (e allora importante) libro sul marketing per il nostro settore, La biblioteca vende, è bene ricordare che la biblioteca sceglie, sceglie sempre e comunque (anche se si cerca di scansare le responsabilità e di non pensarci). E in genere scegliere senza sapere (o ammettere) che si sta scegliendo è un cattivo punto di partenza per scegliere bene. “Di tutto, di più”, sta solo nella pubblicità.
È evidente che qualsiasi scelta, e in particolare quelle sugli acquisti e sull’organizzazione degli spazi, può incidere sensibilmente sulla propensione a frequentare la biblioteca di fasce diverse di pubblico o di utenti potenziali. Riguardo alle biblioteche pubbliche, un elemento che emerge spesso dalle indagini o dalle testimonianze spontanee sui comportamenti di acquisto e prestito dei libri è la particolare utilità del servizio bibliotecario per libri costosi (o d’uso isolato, o difficilmente reperibili) e per “sperimentare”, ossia per materiale per il quale il circuito commerciale non è conveniente e – cosa per noi anche più importante – per ampliare il proprio orizzonte di conoscenze, per andare oltre il noto e il sicuro.
Questi modi di vedere dei lettori sono quasi diametralmente opposti agli indirizzi d’acquisto seguiti da molte biblioteche pubbliche (almeno quelle non di grandi dimensioni), che tendono per lo più ad acquistare libri economici, libri da grande pubblico, libri “da bancone” – non senza ragioni, naturalmente – anche perché è facile che materiale di questo tipo aiuti a sostenere, nell’immediato, le statistiche sui prestiti (che non sono, comunque, un fine in sé). O almeno, questo tipo di materiale sembra aiutare a sostenerle. A scanso di equivoci, non sto raccomandando, ovviamente, di non acquistare bestsellers o libri economici, che senz’altro una biblioteca pubblica deve avere: mi sto solo domandando come sarebbe meglio bilanciare queste componenti con le altre. E vorrei segnalare che si può correre il rischio di un appiattimento su un’offerta appunto “da bancone” (non dico da banconi di una libreria Feltrinelli di una grande città, dove c’è un’offerta piena di stimoli intellettuali, ma da bancone di una piccola libreria generica). È facile che un’offerta di questo genere sia tale da scoraggiare e allontanare i lettori forti e le persone che coltivano interessi personali un po’ più specifici (e parlo di interessi personali, non di fini di studio). Il fenomeno, del resto, è noto già da molto tempo per il settore delle librerie, con la crisi delle piccole librerie generiche e di scarso assortimento e lo sviluppo di quelle più grandi e ben fornite oppure capaci di specializzarsi (non solo in ambiti tematici ma anche, p.es., in un’ampia offerta di narrativa ben selezionata).
Ho preso solo l’esempio dei materiali, in particolare degli acquisti librari, e un’analisi dello stesso genere si potrebbe tentare per l’organizzazione degli spazi, sempre meno orientata ai lettori (che infatti spesso se ne lamentano), ma sarebbe discorso più lungo e complesso.
Riflessioni analoghe, e con ricadute anche più evidenti, si potrebbero fare per biblioteche d’altro tipo, come le biblioteche nazionali e le biblioteche universitarie, che servono segmenti di pubblico con esigenze molto diverse e quindi si trovano continuamente – consapevolmente o no – a privilegiare certi segmenti rispetto ad altri.
Il servizio delle biblioteche ha un valore, oltre i numeri?
Ma c’è una questione anche più complessa su cui, parlando di utenza (e anche soltanto di utenza delle biblioteche pubbliche), dovremmo riflettere, e che invece mi pare completamente assente nel dibattito. Ci interessano soltanto i numeri assoluti? Detto in altri termini e da un altro punto di vista, l’impatto della biblioteca pubblica va considerato soltanto un impatto diretto – al livello del singolo frequentatore – o è anche un impatto indiretto, che dal singolo frequentatore si ribalta sulla società?
Quando ci occupiamo di biblioteche biomediche – o anche più in generale di biblioteche specializzate, o di biblioteche universitarie – diamo per scontato che la finalità ultima che perseguiamo non sia quella di massimizzare il movimento del materiale e nemmeno l’afflusso degli utenti, ma piuttosto quella che il servizio contribuisca a prestazioni sanitarie migliori, e analogamente a laureati più qualificati che daranno un migliore contributo alla società, a professionisti più capaci, a ricerche più originali e innovative, e così via.
Nella valutazione delle università – malfatta quanto si vuole – si dà poca importanza alle cifre assolute, al semplice dato quantitativo: per numero di studenti iscritti, p.es., la Sapienza sarebbe nettamente la prima università d’Europa, mentre Oxford e Cambridge sono molto più piccole. Si vorrebbe, invece, anche se per lo più con grande superficialità, cogliere qualche dato che sia indicativo della qualità dei risultati. L’Università di Harvard ha circa 21.000 studenti, più o meno come Verona, Perugia e L’Aquila, e per numero di iscritti sarebbe in Italia al 29° posto, ma in genere si ritiene che il suo contributo allo sviluppo mondiale del sapere sia superiore a quello di tante università delle stesse dimensioni e anche più grandi. Mentre è relativamente agevole valutare, anche se in modi molto approssimativi, la produttività scientifica del suo corpo docente, è senz’altro più difficile valutare la qualità della formazione ricevuta dagli studenti che l’hanno frequentata. Riteniamo però che la qualità della formazione che hanno ricevuto sia importante – differentemente dal fatto che abbiano solo scaldato i banchi – e abbia delle ricadute significative per la società (ossia, anche per chi non ha fatto l’università o ha frequentato altri atenei, e magari anche per chi non è ancora nato).
Quando invece torniamo alle biblioteche, sembra che aver scaldato le sedie sia attività importante quanto qualsiasi altra, e l’idea che ci possano essere attività che hanno ricadute più significative di altre, sia per chi le svolge sia per la società nel suo complesso, non ci deve nemmeno sfiorare la mente.
Mi rendo conto, naturalmente, che non è un problema facile da trattare, o anche solo da cominciare a impostare, ma non si può neanche metterlo semplicemente da parte. Anche se è difficile definire un quadro metodologico in cui affrontare la questione, l’evidenza aneddotica non manca, se pensiamo p.es. alle tante testimonianze che si trovano qua e là sull’importanza che la frequentazione di una biblioteca (e in genere di una biblioteca ben fornita) ha avuto per persone che hanno poi raggiunto risultati importanti. In questo periodo mi sto occupando particolarmente di testimonianze di scrittori, ma certamente se ne possono trovare anche in altri campi (scienze sperimentali, politica, economia ecc.).
Peraltro, se la considerazione di cosa le persone fanno in biblioteca può suscitare tali preoccupazioni moralistiche all’interno della professione da venir considerata non solo intrattabile, ma quasi innominabile, lo stesso problema si può porre da un altro punto di vista, ossia da quello del materiale fornito. Un prestito, infatti, comporta un utente e un libro (o un altro tipo di documento). Possiamo contare queste transazioni, ma quando si tratta di valutarle, anche a livello meramente economico – p.es. confrontando costi e benefici, individuali e sociali, dell’acquisto e del prestito bibliotecario –, si può vedere che il risultato, in concreto, è fortemente influenzato dalle caratteristiche dell’oggetto prestato. Possiamo mettere nella nostra formuletta il prezzo medio di un libro, ovviamente, e questa scorciatoia può anche essere inevitabile se si vuole fare una semplice stima complessiva del “valore” dei prestiti bibliotecari. Ma resta il fatto che il beneficio effettivo dipende, in particolare, sia dal prezzo del libro che dalla sua reperibilità (e presumibilmente anche da altri fattori). In concreto, quando si tratta di libri disponibili ovunque e a un prezzo molto basso, è evidente che la fornitura da parte della biblioteca può essere anche economicamente svantaggiosa (per la società del suo complesso), a meno che la frequenza del prestito dello stesso libro non sia alta, mentre quando un libro è difficilmente reperibile, o ha un costo più rilevante, la sua messa a disposizione in biblioteca porta benefici, secondo questo tipo di calcoli, anche senza un livello elevato d’uso. E qual è il valore di dare in prestito un libro non più in commercio? Possiamo metterci a spulciare i siti d’antiquariato per trovare una cifra da inserire nella formuletta costi/benefici, ma ci avviciniamo sempre più alla famosa battuta di Oscar Wilde, che un cinico è uno che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna.
Qual è il valore del fatto che una persona, trovando il libro in biblioteca (ed essendo altrimenti un libro difficile da trovare, costoso ecc.), non abbia rinunciato a procurarselo, come tante volte succede? Qual è il valore di aver visto, in biblioteca, un libro che non si conosceva prima, e che non sta neanche sui banconi di una qualsiasi libreria? Per chi è proprio allergico ai valori nel senso non economico del termine, ci sono anche dei valori economici: non aver letto certi libri porta spesso a fare degli sbagli costosi, come, ad esempio, sprecare denaro pubblico in progetti insensati, inutili, mal disegnati, controproducenti.
Le biblioteche come investimento culturale
Comunque, il puro e semplice numero delle persone che usufruiscono di un servizio è evidentemente un elemento insufficiente e inadeguato, da solo, a indicarne il valore. Se si trattasse di un servizio commerciale, di una prestazione a pagamento, il semplice conteggio avrebbe più senso, in quanto corrisponde all’introito che, in un’attività finalizzata al profitto, costituisce la base per gli utili. Se ho incassato 20 euro, può forse non avere importanza se li ho incassati per un libro solo oppure per due libri da 10 euro, se questi li ho venduti alla stessa persona o a due persone diverse, se erano libri di filosofia o di narrativa.
Anche da questo punto di vista, però, le biblioteche, come istituzioni culturali, mostrano la loro fondamentale differenza rispetto ai servizi commerciali, perché la prestazione non è il corrispettivo di un ricavo ma un impiego di risorse pubbliche: la biblioteca non incassa, spende, e spende denaro pubblico (in generale, e salvo limitate eccezioni). Questa spesa dovrebbe, almeno in parte, costituire un investimento (cioè non un semplice consumo). Tanti consumi, anche meritevoli, non sono pagati interamente, o quasi, con denaro pubblico. Perciò, investire in cosa e per cosa? Se intanto cercassimo di pensare all’uso delle biblioteche non come un semplice consumo, ma come un investimento culturale, potremmo fare qualche passo avanti, e sperabilmente non trovarci, nel giro di qualche anno, ad aver perso una bella quota di lettori, che, come succede in altri paesi, non vedono più motivi per venire in biblioteca.