La gestione delle risorse elettroniche e il rapporto con l’utenza nell’Università di Napoli Federico II
Università di Napoli Federico II; ronca@unina.it
Università di Napoli Federico II; scastano@unina.it
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 2 febbraio 2016.
Abstract
In questo contributo si intendono condividere le considerazioni sull’impatto che le risorse elettroniche remote (RER) hanno avuto sull’utenza dell’Università di Napoli Federico II negli ultimi quattordici anni, vale a dire dalla prima sottoscrizione di un contratto per l’accesso online a un pacchetto di periodici elettronici avvenuta nel 2002.
Si tratta di semplici osservazioni che tuttavia hanno potuto giovarsi di un osservatorio privilegiato: le autrici hanno infatti collaborato fin dall’inizio col ristretto gruppo di docenti, bibliotecari e informatici che si sono occupati della selezione e della gestione tecnica e amministrativa delle RER.
Non viene invece presa in esame l’influenza sul comportamento degli utenti delle risorse elettroniche locali (REL), vale a dire di banche dati o pacchetti di periodici elettronici su supporto fisico (CD o DVD) acquisite dalle biblioteche, in parte perché la loro diffusione nell’ateneo è stata scarsa per quantità e per periodo di utilizzo ma soprattutto perché – a differenza delle RER – il loro uso non ha portato sostanziali cambiamenti nel rapporto fra risorsa bibliografica, utente e biblioteca/bibliotecari. Le REL infatti dovevano essere consultate in biblioteca, su postazioni dedicate, spesso per appuntamento e la mediazione del bibliotecario era ineludibile, maggiore di quanto non fosse per le fonti cartacee tradizionali, in quanto l’utente quasi sempre non disponeva delle competenze tecniche necessarie per la loro fruizione.
English abstract
This paper presents considerations about impact of online electronic resources on institutional users of University of Naples Federico II for the last 14 years, since the first e-journals subscription has been activated in 2002. Authors worked together with researchers, librarians and (IT staff) for selection and management of resources. In this paper, local e-resources (e.g. databases, e-journals on CD or DVD) are not analysed because their usage was insufficient and did not change relationship between bibliographical resource, user and librarian. Local e-resources, indeed, must be used in library by means of specific computers, often in a scheduled time and often librarians had to help users without technical expertise.
In questo contributo si intendono condividere le considerazioni sull’impatto che le risorse elettroniche remote (RER) hanno avuto sull’utenza dell’Università di Napoli Federico II negli ultimi quattordici anni, vale a dire dalla prima sottoscrizione di un contratto per l’accesso online a un pacchetto di periodici elettronici avvenuta nel 2002. Si tratta di semplici osservazioni che tuttavia hanno potuto giovarsi di un osservatorio privilegiato: chi scrive ha infatti collaborato fin dall’inizio col ristretto gruppo di docenti, bibliotecari e informatici che si sono occupati della selezione e della gestione tecnica e amministrativa delle RER.
Non sarà invece presa in esame l’influenza sul comportamento degli utenti delle risorse elettroniche locali (REL), vale a dire di banche dati o pacchetti di periodici elettronici su supporto fisico (CD o DVD) acquisite dalle biblioteche, in parte perché la loro diffusione nell’Ateneo è stata scarsa per quantità e per periodo di utilizzo ma soprattutto perché – a differenza delle RER – il loro uso non ha portato sostanziali cambiamenti nel rapporto fra risorsa bibliografica, utente e biblioteca/bibliotecari. Le REL infatti dovevano essere consultate in biblioteca, su postazioni dedicate, spesso per appuntamento, e la mediazione del bibliotecario era ineludibile, maggiore di quanto non fosse per le fonti cartacee tradizionali, in quanto l’utente quasi sempre non disponeva delle competenze tecniche necessarie per la loro fruizione.
Il ruolo delle risorse elettroniche nella istituzione del Sistema bibliotecario
La diffusione delle RER non ha comportato soltanto un cambiamento radicale nel rapporto fra l’utenza e le risorse informative offerte dalle biblioteche. Nel caso dell’ateneo federiciano, infatti, il loro impatto è stato di ben più ampia portata arrivando a costituire, a giudizio di chi scrive, il principale motivo per la creazione di una struttura centralizzata destinata alla gestione della biblioteca digitale e, successivamente, anche al coordinamento delle biblioteche dell’ateneo.
Il processo che ha portato alla nascita del Sistema bibliotecario nell’Università di Napoli Federico II è durato quasi quaranta anni, ma solo undici sono trascorsi tra il primo contratto RER e l’istituzione dello SBA.
I primi tentativi di gestire in maniera coordinata il sistema delle biblioteche della nostra università risalgono infatti alla metà degli anni Settanta, quando viene costituita una commissione per elaborare un Regolamento delle Biblioteche dell’Università che, emanato a metà degli anni Ottanta, rimase in gran parte lettera morta.
Sempre a metà degli anni Ottanta la necessità di dare avvio al processo di automazione della catalogazione porta all’istituzione del Servizio Automazione Biblioteche nell’ambito del Centro di calcolo interdipartimentale dell’Università di Napoli (CISED).
Nel 2002 viene sottoscritto il primo contratto con Elsevier che, a fronte di un cospicuo pacchetto di abbonamenti in versione cartacea sottoscritti dalle nostre biblioteche e al pagamento di una tariffa aggiuntiva (fee), consente l’accesso alla versione online dei periodici dell’editore olandese. Il pagamento della fee, il cui costo è suddiviso tra i tre Poli nei quali all’epoca era articolato l’ateneo federiciano, pone per la prima volta la necessità di un coordinamento.
Già nell’anno successivo viene costituita la Commissione permanente di Ateneo per le biblioteche e le risorse digitali, presieduta dal delegato del rettore per le biblioteche, che procede alla stipula di ulteriori contratti per l’accesso a risorse elettroniche remote (periodici e banche dati) e decide l’acquisizione dei software SFX e Metalib per la loro gestione. Fra il 2007 e il 2009, per far fronte alle sempre crescenti attività connesse all’acquisizione e gestione delle RER, è istituita prima l’Area Tecnica Biblioteche Digitali nell’ambito del Centro di Ateneo per i servizi informativi, e infine il Centro di Ateneo per le Biblioteche (CAB) con autonomia gestionale, organizzativa e di spesa.
L’attività del CAB e delle diverse forme di organizzazione che l’hanno preceduto negli anni non ha realmente inciso sul sistema bibliotecario. limitandosi a fornire servizi alle biblioteche, sostanzialmente la gestione dell’ILS di Ateneo, e formazione ai bibliotecari. Solo nel 2013, con la riorganizzazione dell’Ateneo a seguito della legge Gelmini e l’emanazione del nuovo statuto che istituisce il Sistema Bibliotecario di Ateneo, viene modificato il regolamento del CAB, cui viene attribuito il controllo diretto delle ex biblioteche di facoltà che assumono la nuova denominazione di Biblioteche di Area. Si compie in questo modo il processo partito agli inizi degli anni 2000.
Sviluppo e gestione delle collezioni di risorse elettroniche
Lo sviluppo delle collezioni di risorse elettroniche a partire dal 2002 è stato tumultuoso in termini di budget dedicato, tipologia e quantità dell’offerta informativa.
La spesa per l’acquisizione di risorse elettroniche del solo CAB nel 2015 è oltre che centuplicato rispetto alla fee pagata a Elsevier nel 2002.
Il rapporto fra cartaceo e digitale si è ribaltato: la maggior parte dei titoli disponibili in formato digitale, soprattutto quelli dell’area STEM e medica, è sottoscritta in versione e-only. Mentre nel 2002 la versione online rappresentava una sorta di gadget di lusso della versione cartacea, negli ultimi grandi contratti sottoscritti le versioni cartacee, offerte a un prezzo fortemente scontato (DDP), rappresentano la possibilità per alcune biblioteche, sempre minori per numero, di attardarsi in una gestione delle collezioni, ormai quasi romantica, chiaramente superata.
La tipologia di risorse si è arricchita, passando dai periodici elettronici a un’offerta che comprende banche dati, sia bibliografiche che fattuali, e-book e, in ultimo, videojournal come JoVE i cui numeri invece che da articoli sono costituiti da filmati.
Attualmente l’ateneo mette a disposizione dei propri utenti, grazie agli abbonamenti sottoscritti, oltre 15.000 periodici elettronici, oltre 27.000 ebook e oltre 120 banche dati. La crescita è stata esponenziale. Solo per le banche dati bibliografiche si è verificata una riduzione nel numero degli abbonamenti, dopo un periodo di circa dieci anni in cui le sottoscrizioni hanno avuto un trend di costante aumento, dovuta in gran parte al progressivo disinteresse da parte degli utenti per risorse che non danno accesso al full text.
Fin dal loro apparire è stato chiaro che le RER ponevano inediti problemi di gestione alle biblioteche e di fruizione agli utenti: difficoltà di utilizzo, difficoltà di diffusione, disintermediazione.
Inizialmente non è stato semplice per gli utenti, ma anche per i bibliotecari, muoversi con disinvoltura all’interno delle piattaforme che davano accesso alle RER: interfacce poco amichevoli, diverse da risorsa a risorsa, e linguaggi di interrogazione complessi hanno avuto un effetto respingente su chi si avvicinava ai nuovi strumenti. Già nel 2000 William Arms scriveva che la validità di una biblioteca digitale è pari alla bontà della sua interfaccia.
Alla difficoltà di utilizzo delle RER hanno cercato di dare una risposta le software house con prodotti dedicati alla metaricerca che hanno offerto la possibilità di utilizzare la stessa interfaccia per interrogare contemporaneamente più banche dati; il vantaggio teorizzato è doppio: all’utente è sufficiente impratichirsi nell’uso di un solo ambiente e l’efficienza delle ricerche è migliorata dalla possibilità di essere lanciate contemporaneamente su più banche dati. Nella realtà però i risultati non sono stati pari alle aspettative: per un utente esperto, con una banca dati di riferimento per la propria disciplina, gli strumenti di interrogazione di un metamotore risultano fatalmente meno precisi e i risultati inquinati da una quantità eccessiva di risposte non pertinenti; per un utente inesperto l’interfaccia risulta ancora troppo complessa e appesantita da funzioni necessarie a mettere in comunicazione archivi di dati troppo diversi gli uni dagli altri. Inoltre la ricerca federata richiede tempi di esecuzione percepiti come troppo lenti rispetto ad altri strumenti disponibili in rete, perché l’interrogazione è legata alle prestazioni delle singole piattaforme di origine dei dati, ai tempi di risposta delle diverse banche dati, al numero di accessi consentiti per le connessioni simultanee dall’esterno. Oltre alle difficoltà di utilizzo, le RER hanno sofferto inizialmente della difficoltà da parte delle biblioteche di “comunicarle”, vale a dire della difficoltà ad informare gli utenti in merito alle nuove risorse messe a loro disposizione.
Le biblioteche hanno attuato nel tempo diverse strategie per offrire un punto di accesso alle risorse elettroniche:
- inserimento nel catalogo dei periodici elettronici, ebook e banche dati;
- creazione di liste di titoli o di database consultabili sui siti web delle biblioteche o degli SBA;
- adozione di prodotti commerciali per la gestione di collezioni di periodici elettronici e di banche dati.
L’aspetto più interessante delle strategie adottate dalle biblioteche è rappresentato dal superamento della visione del catalogo organizzato per compartimenti stagni, con cataloghi diversi per i diversi materiali: uno per i materiali cartacei, magari distinto per monografie e periodici, e uno o più cataloghi/elenchi per i materiali digitali. Si diffonde la tendenza a “mescolare le carte” per cercare di intercettare dove possibile l’utente nel suo muoversi in rete, realizzando quella che è stata definita iperintermediazione, vale a dire moltiplicazione dei percorsi informativi e documentari possibili, contrapposta alla disintermediazione, cioè alla capacità degli utenti di soddisfare le proprie esigenze informative senza far ricorso al supporto dei bibliotecari.
Nell’ateneo federiciano sono state attuate nel tempo tutte queste strategie.
Come si è detto, già nel 2002 furono acquisite le licenze per SFX e Metalib, due software all’epoca all’avanguardia, sviluppati poco prima da ExLibris per la gestione di banche dati e periodici elettronici.
Col rafforzarsi, anche in termini di personale assegnato, della struttura tecnica impegnata nella gestione della biblioteca digitale, sono aumentati gli strumenti di mediazione fra risorse e utenti.
Nel 2008 è stato creato un sito web dedicato alla biblioteca digitale per favorire l’accesso al catalogo di ateneo, ai servizi di SFX e MetaLib, e per fornire sia informazioni sugli abbonamenti alle risorse elettroniche sottoscritti sia istruzioni sull’utilizzo di servizi aggiuntivi come il proxy o le barre di navigazione personalizzate. Sempre nel 2008 è stata attivata una mailing list per i bibliotecari dell’ateneo allo scopo di far circolare con maggiore facilità e tempestività le informazioni sulle risorse elettroniche e, in generale, sui servizi.
Nel 2009 il CAB, su richiesta dell’Ufficio formazione della Federico II, ha prodotto un corso erogato in modalità elearning per aggiornare il personale operante nelle biblioteche sull’uso delle risorse elettroniche e sui servizi della biblioteca digitale.
Nel 2011 viene messo in linea il nuovo sito web del CAB che adotta la soluzione del database per fornire agli utenti tutte le informazioni relative agli abbonamenti di risorse elettroniche sottoscritte.
Dal 2012 si comincia, anche se in ritardo, a superare le divisioni nel trattamento delle risorse bibliografiche: vengono importati nel catalogo di ateneo i record degli ebook acquistati permanentemente e, col supporto dei gestori di ACNP, importati i periodici elettronici sottoscritti dall’ateneo nel Catalogo italiano dei periodici.
Nel 2013 nella consapevolezza che gli strumenti di metaricerca non sono più adeguati alle nuove esigenze degli utenti, si decide di adottare un discovery and delivery tool, strumento di ultima generazione, che propone un accesso unitario a tutte le risorse locali e remote messe a disposizione dal sistema bibliotecario mediante un’interfaccia di interrogazione semplice e amichevole di tipo “Google like”. Fra i discovery presenti al momento sul mercato viene scelto EDS, il discovery della EBSCO, con l’intento di ricondurre in seno alla biblioteca i percorsi di ricerca di un’utenza le cui aspettative sono sempre più influenzate da Google.
Un passo indietro, tuttavia, si è fatto nel 2014 con il nuovo portale di ateneo: il link alle biblioteche, che nella precedente versione era in bella evidenza in homepage e dava accesso anche alla biblioteca digitale, è adesso relegato alle pagine interne, quasi nascosto. Complessivamente, gli sforzi per favorire l’incontro tra le risorse elettroniche e gli utenti hanno dato i loro frutti: nel 2015 sono stati visualizzati/scaricati quasi un milione e cinquecentomila documenti a testo pieno.
Le risorse elettroniche e l’utenza
Non risulta agevole indagare l’impatto delle RER sull’utenza: la principale caratteristica di questo tipo di risorse, vale a dire il fatto di essere remote e immateriali, e quindi accessibili senza bisogno di recarsi in biblioteca, si è riverberata in qualche modo sugli utenti che sono diventati a loro volta remoti, lontani dalle biblioteche e sfuggenti ai contatti con i bibliotecari e alla loro mediazione.
Rispetto a quanto avvenuto nelle biblioteche pubbliche, il processo della disintermediazione in ambito accademico è stato probabilmente ancora più radicale, fortemente favorito dal fatto che l’accesso alle risorse avviene tramite riconoscimento dell’indirizzo IP del computer dell’utente all’interno della rete di ateneo o anche da casa, mediante il server proxy, rendendo superflua la frequentazione della biblioteca per quanto vicina e di agevole accesso possano essere la sua sede e i suoi servizi.
La biblioteca mantiene una sua funzione riconosciuta soprattutto per gli studenti, in quanto dispensatrice di spazi dove poter studiare da soli, specialmente se studenti fuori sede, o in gruppo con i colleghi. In alcuni casi, dove le sedi si prestano a questo tipo di utilizzo, le biblioteche vengono percepite dall’utenza studentesca come luoghi di aggregazione e di socializzazione. Le collezioni cartacee mantengono la loro centralità solo in ambito umanistico o limitatamente ai testi necessari alla preparazione degli esami.
In questo panorama la figura del bibliotecario scolorisce fino a diventare quasi invisibile: l’utente si sente del tutto autonomo, non avverte l’esigenza di avvalersi delle competenze professionali del bibliotecario nel campo dell’information retrieval e finisce per considerare il bibliotecario un mero distributore o, nel migliore dei casi, una figura amichevole a cui confidare difficoltà e soddisfazioni della propria vita accademica e personale.
Sorte migliore non tocca al bibliotecario digitale. Come si è detto, nel nostro ateneo le risorse elettroniche sono gestite centralmente dai bibliotecari del CAB che, nel loro lavoro, non hanno un rapporto diretto con gli utenti. Poiché lo scopo principale della loro attività è di rendere il più possibile semplice e trasparente l’accesso alle risorse, il risultato è che quanto maggiore è il successo dei loro sforzi tanto più forte è la sensazione degli utenti che l’accesso alle risorse elettroniche sia la semplice e diretta conseguenza dell’attivazione di un abbonamento e avvenga quasi magicamente, senza che sia necessario alcun ulteriore intervento. Paradossalmente i bibliotecari digitali acquistano una maggiore visibilità presso gli utenti quando avviene che una risorsa, per qualsivoglia motivo, non sia accessibile; in questi casi gli utenti, cercando un contatto per segnalare il loro problema, scoprono l’esistenza di un servizio che rende possibile l’accesso alle risorse e, qualche volta, vengono a conoscenza di altre risorse di cui ignoravano l’esistenza.
In un panorama del genere gli strumenti per studiare i comportamenti degli utenti in relazione alle risorse elettroniche sono sostanzialmente tre: distribuzione e analisi di questionari, analisi dei logfiles delle piattaforme, statistiche d’uso delle risorse.
Indicazioni sul comportamento degli utenti ci vengono dai risultati di alcune indagini condotte da OCLC, pubblicate a partire dal 2003. Questo network dedica una specifica linea di ricerca all’utenza riconoscendo la stretta connessione tra la progettazione dei servizi bibliotecari e le modalità di ricerca con cui sono utilizzate le tecnologie per accedere alle informazioni.
In Italia fra il 2003 e il 2004 sono state effettuate le prime ricerche su un ampio campione di utenti: il riferimento è alle analisi condotte sul comportamento degli utenti della Emeroteca virtuale CIBER.
Interessante il test di usabilità della Biblioteca digitale dell’Università di Milano svolto su un campione di 15 studenti, la cui attività di ricerca bibliografica è stata registrata con un programma di video screen capture. Significative soprattutto le conclusioni: la principale problematica del rapporto tra utenti e biblioteca digitale è la carenza di metodologie e competenze necessarie ad utilizzare gli strumenti di ricerca in un fruttuoso processo di individuazione delle risorse.
Per quanto riguarda l’Università di Napoli Federico II, a tutt’oggi l’unico strumento per un’analisi oggettiva del comportamento degli utenti è rappresentato dall’esame delle statistiche d’uso delle risorse che, rilevate a partire dal 2008, consentono se non altro di individuare trend costanti nel loro utilizzo: incremento notevole dei download di articoli e ebook (+250%); incremento costante dell’uso delle risorse di area STEM e medica; incremento notevole ma solo in anni recenti dell’uso delle risorse di area umanistica, con picchi per le risorse di area giuridica; sacche residue di sottoutilizzo delle risorse in area umanistica; progressivo disinteresse per banche dati bibliografiche con conseguente chiusura degli abbonamenti.
Ovviamente, ai dati oggettivi forniti dalle statistiche d’uso delle RER si affiancano le osservazioni sul campo, frutto dell’interazione diretta con gli utenti che ancora frequentano le biblioteche “fisiche” o raccolte attraverso i canali di comunicazione (form e link a indirizzi e-mail) attivati su tutte le piattaforme di accesso alle risorse e sul sito web del CAB.
Le conclusioni a cui le osservazioni di questi anni ci hanno condotto non sono difformi da quanto emerge dalla lettura degli studi sopra citati.
Gli utenti hanno poco tempo da dedicare alle ricerche bibliografiche e tendono a privilegiare la disponibilità immediata rispetto alla qualità, vale a dire a preferire un documento per il quale è disponibile la versione full-text rispetto a altri magari più pertinenti e con una valutazione più alta ma non immediatamente accessibili.
Gli utenti privilegiano sistemi di ricerca semplici e tendono a utilizzare soprattutto Google, spesso nemmeno nella versione accademica rappresentata da Google Scholar. Google ha rappresentato una svolta epocale e ha modificato profondamente il rapporto tra gli utenti di Internet e l’accesso alle informazioni. Attivo solo dal 1998, si è affermato come il motore di ricerca più utilizzato della rete sbaragliando ogni concorrenza grazie all’intuizione vincente di proporsi come porta di accesso all’immenso patrimonio informativo della rete attraverso un’unica e semplice funzione, quella della ricerca per parole chiave: una sola finestra per inserire le richieste, una finestra «spartana nel design ma straordinariamente comunicativa nel promuovere sé stessa, cioè il proprio marchio». Google ha nel tempo ampliato il suo raggio di interesse a qualsiasi tipologia informativa, ha rivoluzionato il concetto stesso di ricerca in rete e lo ha imposto al mondo, attirando nella sua prospettiva non solo l’utente generico, estemporaneo, ma anche l’utente accademico, comprendendo sotto questa categoria non solo lo studente ma anche lo studioso esperto che dovrebbe essere l’utilizzatore più avvertito di un tale strumento.
Già nel 2003 uno studio condotto in quasi 400 università americane ha rivelato che il 47,4% del corpo docente utilizzava i motori di ricerca come punto di partenza e che solo il 31,6% privilegiava allo scopo il sito della biblioteca.
Due anni dopo il report pubblicato da OCLC a seguito di un’indagine volta a esaminare il legame tra le biblioteche e la loro utenza nell’epoca dell’informazione globale, è eloquente: la maggior parte di chi ha necessità informative non è a conoscenza, o non utilizza, le risorse delle biblioteche. I motori di ricerca sono gli strumenti che meglio si adattano alle mutate abitudini degli utenti, che li giudicano adeguati alle proprie esigenze più delle biblioteche, fisiche o digitali.
Google è il punto di riferimento in assoluto più utilizzato, dal quale ben l’84% degli intervistati parte per le proprie ricerche, contro l’1% di quelli che si rivolgono, inizialmente, agli strumenti offerti dalla biblioteca; il dato più interessante è che il 90% degli intervistati si dichiara soddisfatto dei risultati ottenuti attraverso i motori di ricerca.
Il nuovo modo di rapportarsi ai processi di ricerca ha naturalmente condizionato lo sviluppo degli strumenti pensati per le biblioteche. Nelle proposte dei produttori si fa strada la parola discovery che sottende ad un diverso modo di affrontare l’esperienza di ricerca. La funzione esplorativa di “scoperta” non si esaurisce in sé ma si inserisce in un nuovo ciclo di integrazione dei servizi resi dalla biblioteca, sintetizzabili nella catena del discovery to delivery, in un processo che nel minor tempo possibile e con il minimo sforzo, porti l’utente ad accedere alla risorsa individuata.
I produttori dei discovery tool hanno conciliato l’approccio amichevole di un’interfaccia di interrogazione “Google like” con la qualità dell’offerta rappresentata dalle collezioni dei sistemi bibliotecari e si sono da subito rivolti all’ambito accademico dove, se da un lato la grande quantità di contenuti rilevanti faticava ad emergere proprio a causa di strumenti per il recupero dell’informazione complicati e poco efficaci, dall’altro la ricchezza della documentazione accessibile a testo pieno era il requisito essenziale a legare l’esperienza di discovery a quella di delivery.
Pur nell’entusiasmo per un prodotto nuovo che ricrea la facilità di navigazione del web e promuove la cono- scenza delle risorse di qualità selezionate dalla biblioteca, i discovery non mancano però di suscitare alcune perplessità e, a giudizio di scrive, fanno promesse che non riescono a mantenere: la complessità della produzione scientifica e l’articolazione delle collezioni mal si adattano alla semplificazione dei percorsi di ricerca che essi propongono.
Se si sposa il punto di vista di docenti e ricercatori, la piattaforma semplificata non può rispondere ad esigenze informative complesse e non può quindi sostituire la varietà e la profondità delle strategie di ricerca effettuabili sulle piattaforme native di database specifici.
Se si sposa invece il punto di vista degli studenti, l’interfaccia semplificata non risolve da sola i problemi legati alla difficoltà di padroneggiare i percorsi di ricerca; la comprensione dei passaggi necessari a modificare, raffinare, circoscrivere un’esigenza informativa, non è immediata per un’utenza, come quella studentesca, non abituata alle svariate tipologie documentarie raccolte dalla biblioteca. A fronte della possibilità di partire, come con Google, da un unico punto per accedere a tutta l’offerta formativa della biblioteca, l’inconveniente è quello di ritrovarsi con un enorme numero di risultati, nei quali un utente poco esperto ha comunque difficoltà a districarsi.
Avviene così che allo specchietto per le allodole del boxino unico in cui inserire le parole chiave si contrapponga l’articolato ambiente in cui vengono restituiti i risultati della ricerca, ricco di faccette e di filtri per ulteriori approfondimenti, il cui utilizzo non è di immediata comprensione, lontano anni luce dall’essenziale elenco dei risultati proposto da Google. La complessità che si è tentato di cacciare dalla porta rientra dalla finestra e allontana gli utenti ai quali maggiormente dovrebbe essere rivolto il discovery, vale a dire studenti e ricercatori privi di una banca dati di riferimento o con esigenze di ricerca interdisciplinari, ricacciandoli fra le braccia di Google.
Gli utenti attualmente vivono in pieno la disintermediazione, si sentono assolutamente autonomi nella ricerca bibliografica e nell’uso delle risorse elettroniche, sono – volendo azzardare una definizione – orgogliosamente “disintermediati” e poco interessati non solo al supporto che possono ricevere dai bibliotecari ma persino alle guide in linea per l’uso delle piattaforme, preferendo piuttosto stringati help contestuali. Contrariamente alla percezione che gli utenti hanno di se stessi, essi spesso risultano invece avere una scarsa conoscenza dell’offerta informativa messa a loro disposizione dell’ateneo e degli strumenti per ricercarla. Gli studenti inoltre, pur essendo (quasi) “nativi digitali” o forse proprio per questo, nella loro navigazione sembrano mancare di senso di orientamento, danno la sensazione di non rendersi conto degli ambienti in cui si trovano e da cui traggono le informazioni. La difficoltà maggiore sta nella valutazione delle fonti che non hanno più i confini ben delineati di un tempo, quando erano selezionate dalla biblioteca e definite nella loro validità dal fatto stesso di trovarsi all’interno dello spazio bibliotecario. Ora che le fonti informative galleggiano tutte insieme in una sorta di brodo primordiale senza confini è sempre più complicato definirne la gerarchia, soprattutto per chi non è stato addestrato a farlo.
A complicare la situazione, infatti, c’è il ridursi delle aspettative da parte dei docenti: a partire dalla scuola media superiore e talvolta proseguendo fino all’università, la richiesta di approfondimento bibliografico si è abbassata e l’unico viatico per la ricerca bibliografica spesso è un invito a “cercare su Internet” senza che vengano forniti gli strumenti indispensabili a distinguere e valutare le fonti.
Ci si chiede a questo punto quali strategie attuare per intercettare l’utenza nei suoi passaggi, analogici e digitali, e cercare di formarla a un corretto utilizzo delle risorse elettroniche, quale rete utilizzare per catturare questa nuova specie di uccelli di passo i cui flussi migratori sono tutt’altro che regolari.
Il progetto SHARE
In primo luogo va portata avanti l’interazione fra gli strumenti che danno accesso all’informazione. In questa direzione si muove SHARE. Scholarly Heritage and Access to Research, un progetto di cooperazione per la condivisione dei servizi che coinvolge le biblioteche degli atenei napoletani, Federico II, L’Orientale e Parthenope, e delle Università di Salerno, del Sannio e della Basilicata. SHARE mira alla «realizzazione di un sistema integrato di sviluppo, fruizione e gestione dei propri servizi d’informazione, documentazione e supporto alla didattica, alla ricerca e al trasferimento della conoscenza» come recita la “Convenzione interuniversitaria per l’integrazione di servizi bibliotecari e documentari” sottoscritta dai rettori dei sei atenei che hanno così individuato nelle biblioteche un settore strategico di programmazione. Lo scopo, attraverso un modello cooperativo improntato alla rete, è soprattutto quello di riuscire a potenziare i servizi offerti alla propria comunità di riferimento, anche grazie all’adozione di una Carta dei servizi condivisa, a garanzia che gli utenti di ciascun ateneo siano considerati come “utenti interni” da tutte le biblioteche delle università che hanno aderito alla convenzione. Il progetto amplia la sua portata potenziando con la condivisione sia gli strumenti per la ricerca bibliografica sia quelli per pubblicare e distribuire la letteratura scientifica. Pertanto gli atenei aderenti offrono:
- SHARE Catalogue: Catalogo collettivo in modalità linked open data;
- SHARE Discovery: discovery tool consortile nel cui indice condiviso sono confluite le informazioni bibliografiche relative alle collezioni, analogiche, elettroniche e digitali, degli atenei convenzionati, in modo che l’utente possa essere indirizzato o al full text, se disponibile e se consentito dalle licenze editoriali, o alla localizzazione della risorsa con l’indicazione della biblioteca che ne possiede i diritti di accesso;
- SHARE Press: denominazione editoriale per la pubblicazione ad accesso aperto di riviste, libri elettronici, prodotti, dati della ricerca e documentazione storica.
In un tale contesto, perché la potenzialità di progetti come SHARE approdi ad un reale incremento dell’utilizzo delle risorse elettroniche e delle collezioni digitali, è fondamentale la formazione continua dei bibliotecari all’utilizzo delle banche dati, agli strumenti e alle strategie di ricerca; gli atenei devono continuare a investire in questo settore. Solo così sarà possibile offrire agli utenti un supporto di qualità tale da vincere la loro diffidenza – che talvolta sfiora la supponenza – inducendoli a tornare a richiedere la mediazione dei bibliotecari e a farsi promotori – attraverso il passaparola fra colleghi – del servizio ricevuto.
Ancora più importante è creare occasioni di incontro con gli utenti. Purtroppo l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato quanto siano scarsi i risultati ottenuti organizzando incontri formativi o presentazioni di risorse e di strumenti di ricerca: gli utenti, sia docenti che studenti, li disertano e la partecipazione si limita quasi solo ai bibliotecari. Per fornire agli studenti le competenze necessarie per ricercare, valutare e gestire le informazioni e le risorse informative disponibili in rete sarebbe opportuno istituire dei corsi di information literacy per i quali siano riconosciuti crediti formativi.
Oltre al riconoscimento dei crediti formativi, unica motivazione forte in contesti didattici tradizionali, bisognerebbe coinvolgere maggiormente gli studenti in quelle attività di ricerca scientifica che impongono un uso critico delle risorse e degli strumenti per ottenerle e valutarle.
Infine, la strada maestra per migliorare e diffondere il più possibile l’utilizzo delle risorse elettroniche messe a disposizione dall’ateneo a fronte di cospicui investimenti economici e, di conseguenza, per dare maggiore visibilità ai servizi della biblioteca digitale, passa necessariamente anche attraverso le sollecitazioni attuate dai docenti: solo se i docenti pretenderanno il ricorso a risorse informative di alta qualità, se ne diffonderà la conoscenza e l’uso consapevole tra gli studenti. In caso contrario alla mancata sollecitazione continuerà a corrispondere un uso scarso, svogliato e mal indirizzato.