Dalla giusta distanza: biblioteca e memoria nel Multiverso bibliografico
Dipartimento di Studi storici Università degli studi di Torino maurizio.vivarelli@unito.it
Per tutti i siti web la data di ultima consultazione è il 21 marzo 2021. Ringrazio per i loro consigli e suggerimenti Federico Valacchi e Chiara Faggiolani.
Abstract
L’obiettivo principale del contributo è quello di proporre alcune considerazioni sulle relazioni tra “biblioteca” e “memoria”, per riuscire a delineare una prospettiva di analisi ragionevolmente praticabile di un argomento dalle dimensioni evidentemente molto ampie. Da un punto di vista metodologico, in primo luogo, verrà proposta una sommaria e schematica periodizzazione del campo delle relazioni individuate. In secondo luogo, si discuteranno alcune possibili modulazioni di queste relazioni, prendendole in esame dall’interno e dall’esterno dell’Universo bibliografico, e dunque dentro e fuori i confini delle discipline bibliografiche e documentarie. Infine verranno proposte alcune considerazioni sulla fisionomia di un ipotetico Multiverso bibliografico, nel quale sia possibile ospitare le differenti memorie in cui si organizzano le registrazioni e i modelli secondo cui sono costituite, integrando l’ordine vincolante dell’Universo bibliografico con la molteplicità dei dati e delle informazioni che esistono nei modelli dinamici e interattivi della realtà, dello spazio bibliografico, della mente delle persone.
English abstract
The article proposes some considerations on the relations between “library” and “memory”, in order to outline a reasonably practicable perspective of analysis. From a methodological point of view, firstly, a brief and schematic periodization of the topic will be proposed. Secondly, some possible modulations of these relations will be discussed, examining them from inside and outside Bibliographical universe, and therefore inside and outside the boundaries of LIS. Finally, the article reflects about the physiognomy of a hypothetical Bibliographical multiverse, in which it is possible to accommodate the different memories in which the records are organised and the models according to which they are constituted, integrating the binding order of the Bibliographical universe with the multiplicity of data and information that exist in the dynamic and interactive models of reality, of the bibliographical space, and of people’s minds.
Premessa
Cercare di prendere in esame, in un breve contributo, le relazioni tra il concetto di “biblioteca” e quello di “memoria” – due parole che significano contemporaneamente moltissime cose – apre una prospettiva entro la quale si intrecciano problemi bibliografici, biblioteconomici, documentari di rilevante complessità, che tuttavia, come si dichiara nel titolo, proveremo a indagare “dalla giusta distanza”, cioè con un percorso argomentativo dotato in primo luogo del requisito della coerenza interna, caratterizzandolo da un convinto – e in questo caso indispensabile – approccio interdisciplinare. Il tema centrale, come vedremo, è il concetto di “registrazione”, che possiamo sommariamente definire, per ora, come una rappresentazione memorizzata di un qualcosa d’altro, prendendo atto che è sul suo fondamento che la comunicazione è resa possibile, e diviene informazione elaborabile, sia con i modelli di rappresentazione documentaria che con le funzioni cognitive di cui in via ordinaria ci avvaliamo. Situare all’inizio un concetto di questa ampiezza, dunque, implica la necessaria adozione di una prospettiva interdisciplinare, che si muova dentro e fuori i confini del “campo” della nostra tradizione disciplinare. Per questo motivo poniamo al centro del nostro ragionamento appunto la registrazione, lo strumento di cui ci avvaliamo sia per “trovare”, “identificare”, “selezionare”, “ottenere”, “esplorare” informazioni documentarie (dentro l’Universo bibliografico), sia per scoprire che cosa c’è nel mondo (fuori dall’Universo bibliografico). Credo per questo che si possa concordare con Maurizio Ferraris quando afferma che «senza registrazioni nella testa non avremmo niente da comunicare, né avrebbe senso farlo, poiché […] senza registrazione di ciò che si comunica, senza fissazione, comunicare sarebbe, letteralmente, parlare al vento» [Ferraris, 2009, p. 206], come mostra con evidenza narrativa e visiva il film Memento di Christopher Nolan [Nolan, 2000]; e nello stesso tempo produrre registrazioni, come sostiene Mauro Guerrini richiamando Elaine Svenonius, serve per «riunire insieme le informazioni essenzialmente uguali e di differenziare ciò che non è essenzialmente uguale» [Guerrini, 2008, p. XIX]. Per questo è importante cercare di capire, o almeno di capire meglio, come i diversi modi di rappresentare e comprendere le registrazioni concorrono alla produzione di quella memoria che è indubbiamente un elemento fondamentale della nostra tradizione culturale, perché è grazie alle sue tracce, cioè ancora le registrazioni, che viene combattuta la lotta millenaria contro l’oblio, riconoscendo, come scrive Adriano Prosperi, che «nella realtà accanto a quella del ricordare ci sia un’altra funzione comune alla memoria e alla storia: quella del dimenticare» [Prosperi, 2021]. Questi problemi, epistemologici, documentari, storico-culturali fanno parte del gran crogiuolo del tempo presente, con la sua rapida e tumultuosa trasformazione delle forme di produzione e uso delle informazioni documentarie, digitali e non digitali, e di nuovo dobbiamo prendere atto della centralità delle registrazioni, grazie alle quali, accedendo alle tracce memorizzate, imprimiamo circolarmente, e ancora registriamo, tracce nella nostra mente, individuale e collettiva. Dall’esigenza di una visione “panoramica” di questo stato di cose trae origine un contributo, orientato a individuare un “punto di vista” utile, per ridurre la sensazione intuitiva di disorientamento, in una fase di grandi discontinuità e incertezze, che toccano sia i modelli disciplinari che i modelli antropologici di organizzazione della conoscenza. La fisionomia elusiva della registrazione, dunque, è uno degli elementi principali di quella che, con efficaci metafore, è stata definita «tempesta perfetta» delle biblioteche da John Palfrey [Palfrey, 2016, p. 27 e seguenti; Ferrieri, 2020, p. 11] ed elegiacamente «crépuscole» da Virgile Stark.
In cerca di un punto di vista
L’obiettivo principale di questo contributo è quello di proporre alcune considerazioni sulle relazioni tra “biblioteca” e “memoria”, secondo le modalità in seguito descritte, per riuscire a delineare una prospettiva di analisi ragionevolmente praticabile di un argomento dalle dimensioni smisurate. I contenuti di questo breve testo non hanno finalità immediatamente pragmatiche, né si sforzano di individuare un miracolistico elemento risolutore, ma aspirano a fornire qualche elemento di riflessione, finalizzato a rafforzare l’identità, il ruolo e le funzioni, a partire da un possibile modello di “biblioteca”, delle “biblioteche”, nella loro concreta ed empirica esistenza, e delle culture disciplinari e professionali che di esse si occupano.
Si specifica, già in apertura, che il termine “biblioteca” verrà utilizzato nella sua accezione più ampia, riferendosi ad almeno uno degli elementi che lo compongono dal punto di vista della denotazione o della connotazione (ad esempio “modelli”, “strumenti”, “tecnologie”, “collezioni”, “competenze professionali” ecc.); tuttavia il riferimento d’elezione è al “tipo” della biblioteca pubblica, condividendo la convinzione già espressa da Luigi Crocetti che il suo «scopo sono gli esseri umani» [Crocetti, 1994, p. 57].
Con il termine “memoria” ci si riferirà sia al “che cosa” viene memorizzato, che al “come” questa memorizzazione viene effettuata, e poi trasmessa. Posizioniamo dunque questi due “termini ombrello”, all’inizio del nostro percorso, caratterizzandoli con una bassa definizione semantica, che proprio per questo consente di riflettere sui diversi ed eterogenei contesti nei quali sono utilizzati.
Che i campi semantici dei due termini siano tra di loro intimamente connessi ce lo conferma, anzitutto, la struttura etimologica della parola “biblioteca”, in cui il deposito (ϑήκη) dei libri (βιβλία) rimanda agli ambienti destinati alla conservazione ordinata degli oggetti documentari, in cui, come nella mitica Biblioteca di Alessandria fondata da Tolomeo I Sotere nel III secolo a.C., avrebbe dovuto essere conservata la memoria del mondo, oltre i limiti della nostra esperienza terrena. Dunque, come scrive Alberto Manguel
Se sotto uno stesso tetto si può raggruppare e conservare un’immagine del cosmo (deve aver pensato re Tolomeo), allora ogni dettaglio di quell’immagine – un granello di sabbia, una goccia d’acqua, il sovrano stesso – troveranno qui un posto, espresso con parole da un poeta, da un narratore, da uno storico, per sempre, o finché esisteranno lettori che possano un giorno aprire la pagina designata [Manguel, 2007, p. 30].
E ancora, a distanza di millenni, nel cuore della tradizione umanistica, Richard de Bury ci ricorda con parole accorate che «ogni cosa si corrompe e si consuma col tempo e Saturno non cessa di divorare i suoi figli: ogni gloria del mondo verrebbe coperta dall’oblio se Dio non avesse fornito ai mortali il rimedio dei libri». Tuttavia, retrocedendo ancora rispetto a queste frammentarie evocazioni, troviamo i due termini “biblioteca” e “memoria” strettamente associati già nella preistoria simbolica e mitica della nostra tradizione culturale.
Le Muse della tradizione e della genealogia religiosa greca sono figlie di Zeus e di Mnemosyne, personificazione della memoria, a sua volta figlia di Urano (il cielo) e di Gea (la terra), e la loro simbologia rimanda alla rappresentazione universalistica della totalità del cosmo. Le nove Muse presiedono in tal modo alla τέχνη (Arte), da cui discende la totalità delle attività umane. Il luogo a esse consacrato è il Museo (μουσεῖον), e in modo coerente con la narrazione mitica è nello spazio del tempio delle Muse di Alessandria che viene realizzata la Biblioteca, seguendo la problematica fonte costituita dalla celebre Lettera di Aristea [Canfora, 1986]. Entro questa splendida cornice mitica ha iniziato a configurarsi la trama delle metafore e dei significati che si sono gradualmente sedimentati e concretizzati, dentro e fuori la mente umana.
Passando ora dal campo sintetico del mito a quello analitico dell’età della storia la coesione della fase originaria si riduce e si attenua, e dalla intuizione di un armonico e apollineo Cosmo si precipita nel “maelstrom” della frammentazione contemporanea, in tutte le sue numerose implicazioni antropologiche, sociali, documentarie, tecnologiche.
Una ulteriore conferma della centralità delle relazioni tra “biblioteca” e “memoria” la possiamo intravedere anche in un brano estratto dalle pagine preliminari delle Pandectae di Konrad Gesner, nel cuore delle origini della cultura bibliografica:
Ai lettori
È questo il secondo tomo della mia Biblioteca, che comprende i loci communes e le classi sia universali sia particolari di tutta la Filosofia e di tutte le arti e degli studi. Voi ricavate questo ingente profitto, ciascuno nell’ambito dei suoi studi, e siete grati all’autore per aver iniziato felicemente, per grazia divina, un’opera tanto importante: non perché il medesimo debba aspettarsi l’assoluzione in virtù del suo scritto, ma perché ognuno impieghi quest’opera per i propri studi. Infatti gli studiosi potranno là nascondere agevolmente, come in un nido, e di là nuovamente estrarre, tutto ciò che nella lettura occorrerà degno di memoria [Santoro - Orlandi, 2006; Gesner, 1548].
Proprio all’inizio dell’opera Gesner avverte la necessità di spiegare le modalità secondo cui la bibliotheca avrebbe potuto essere pensata e utilizzata, rappresentandola metaforicamente come il “luogo della memoria”, il “nido” in cui includere ed “estrarre” ciò che alla costituzione della “memoria” deve essere destinato. La memoria, nello stesso periodo, è ordinata, e acquista forma, secondo i metodi, le tecniche, i loci delle arti mnemoniche a essa dedicate, grazie alle quali, tra cabala, ermetismo e lullismo, si delineano le fisionomie incerte dei theatri, che localizzavano in un microcosmo denso, interno ed esterno alla mente individuale e collettiva, la rappresentazione miniaturizzata del macrocosmo, collegandoli con un complesso legame anzitutto estetico e poi interpretativo interpretativo.
Vorrei richiamare brevemente, infine, anche le questioni sulle quali, alcune decine di anni fa, si fondò il tentativo di Alfredo Serrai di offrire un solido fondamento scientifico alla biblioteconomia, scrivendo che «le biblioteche sono impiegate quali memorie esterne dell’uomo; esse sono depositi di registrazioni, ammassi di simboli, cumuli di dati […] L’atto di comunicazione tra supporto e simboli avviene soltanto nel cervello dell’utente; i simboli hanno valore di messaggio significante solo per chi li riceve». Nella moltitudine dei percorsi evocati, Serrai ritenne che una possibile pista di ricerca potesse essere individuata nella relazione tra memorie esterne e memorie interne, prendendo atto che «delle memorie cerebrali fino ad oggi non sappiamo praticamente nulla» e tuttavia, ipotizzando che «se riuscissimo a conoscerne a fondo i meccanismi, sicuramente ne potremmo ricavare suggerimenti preziosi per la definizione e l’allestimento delle memorie artificiali» [Serrai, 1973, p. 12-13].
Gli argomenti utilizzati da Serrai sono ancor oggi molto suggestivi e convincenti. Nei sistemi biologici l’efficacia e le funzioni mnemoniche sono garantite dai meccanismi dell’evoluzione, che prevedono la scomparsa dell’organismo non in grado di organizzare e gestire la propria memoria, individuale e di specie. Molto diverso il campo delle memorie artificiali, in cui, prevalentemente, «ci si è accontentati di applicare la semplice idea che, come uno scritto serve a far ricordare una notizia o un concetto, una raccolta di scritti sarebbe stata in grado di far ricordare molte notizie e molti concetti». A partire da questa semplificazione, applicata a oggetti di natura unidimensionale, si sono andati definendo i principi costitutivi nelle discipline che della “biblioteca” si occupano e, alla fine, «si è rimasti essenzialmente ignari delle nuove dimensioni di complessità che si erano andate in tal modo introducendo» [Serrai, 1973, p. 14].
Nei decenni successivi, che hanno portato alla già evocata «tempesta perfetta», accelerata dagli eventi della pandemia, la complessità, e la percezione diffusa della complessità, è andata ancora crescendo, e insieme ad essa il disorientamento delle persone, dei bibliotecari, dei biblioteconomi.
A partire da queste generalissime osservazioni nelle pagine che seguono si prenderanno in esame tre questioni specifiche. In primo luogo verrà proposta una sommaria e schematica periodizzazione del campo delle relazioni individuate. In secondo luogo si discuteranno alcune possibili modulazioni di queste relazioni, prendendole in esame dall’interno e dall’esterno dell’Universo bibliografico, e dunque “dentro” e “fuori” i confini delle discipline bibliografiche e documentarie. Infine verranno proposte alcune considerazioni sulla fisionomia di un ipotetico Multiverso bibliografico, nel quale sia possibile ospitare le differenti memorie in cui si organizzano le registrazioni e i modelli secondo cui sono costituite, integrando l’ordine vincolante dell’Universo bibliografico con la molteplicità dei dati e delle informazioni che esistono nei modelli dinamici e interattivi della realtà, dello spazio bibliografico, della mente delle persone.
Raggruppare i punti di vista: una sommaria ipotesi di periodizzazione
Qualunque tipo di periodizzazione degli eventi del flusso storico è il risultato di un delicato percorso di interpretazione dei fatti del passato, condotto sempre a partire da uno specifico contesto, per ricondurne la successione a fasi, variamente denominate, caratterizzate da uno specifico elemento distintivo. Da questo derivano i modelli di organizzazione dei fatti storici nella storiografia e nella nostra memoria, raggruppati intorno a date, come il 476 o il 1492 o il 1789, per fare solo alcuni semplici esempi. In questa sede gli oggetti del nostro interesse (“biblioteca” e “memoria”) verranno periodizzati in tre fasi: Preistoria, Storia e Iperstoria, con alcune varianti rispetto allo schema proposto da Luciano Floridi.
La prima fase è quella che, dalle sue origini necessariamente incerte, coincidenti con l’emersione delle prime forme di scrittura grafica e non iconica, intorno al VI millennio a.C., si conclude con l’esistenza documentata dei primi oggetti in cui sono impressi segni linguistici destinati a essere conservati in luoghi a essi specificamente destinati, come le tavolette di argilla rinvenute negli anni Settanta del Novecento nella biblioteca/archivio del Palazzo Reale G dell’acropoli di Ebla, tra 2500 e 2250 a.C., anno della distruzione della città [Martin, 1990].
La seconda fase, della Storia, la possiamo comprendere tra 2250 a.C. e inizio della rivoluzione digitale, che convenzionalmente correliamo alla pubblicazione del celebre articolo di Alan Turing On computable numbers, with an application to the Entscheidungsproblem, a partire dal quale sarebbe stato elaborato il modello logico della macchina di Turing, caratterizzata da una memoria infinita, da essa stessa originata [Turing, 1937]. La terza fase, della Iperstoria, è quella nella quale siamo oggi immersi, caratterizzata dalla inestricabile integrazione di oggetti fisici, mentali, artificiali, relazionati, connessi e di nuovo immessi nel circuito comunicativo dal potere computazionale delle macchine, che ha dato origine a una memoria digitale di dimensioni gigantesche, che oltre a tutti gli elementi di complessità pregressi, contiene anche quelli propri dell’ecosistema digitale. Questo stato di cose, per la sterminata dimensione anche solo quantitativa dei dati che lo compongono, misurabili con l’ordine di misura dello zettabyte (mille alla settima potenza, o 1021 byte), ci pone in una situazione non dissimile a quella degli originari racconti mitici, e secondo le visioni più convintamente distopiche ci può condannare a vivere in un eterno presente, in cui i nuovi oggetti informativi prodotti soppiantano continuamente quelli precedenti, per le azioni combinate di una ossimorica «memoria che dimentica» [Floridi, 2017, p. 19].
Nella consapevolezza della convenzionalità della distinzione di queste generalissime fasi, vorrei tuttavia evidenziare che, in ognuna di esse, possiamo facilmente individuare un filo conduttore persistente, che riguarda la natura e le relazioni, nei diversi contesti storici, di quel “qualcosa” che si situa “dentro” e “fuori” la mente umana. Questo “qualcosa”, come già abbiamo detto, è costituito dalle registrazioni.
Nella fase della Preistoria, in cui non sono stati costituiti depositi esterni, le registrazioni sono presenti negli oggetti, nella mente delle persone, e nel linguaggio che contestualmente interpreta e codifica i segni impressi. Un punto di riferimento fondamentale per la comprensione di questa tipologia di memoria è il classico libro di Jan Assmann La memoria culturale, con cui viene riconosciuta l’universalità della «cultura del ricordo» [Assmann, 1997, p. 6], affidata nella sua fase iniziale ai suoi «detentori speciali», cioè «gli sciamani, i bardi, i griot, così come sacerdoti, gli insegnanti, gli artisti, gli scrittori, gli studiosi, i mandarini, o come sempre si vogliono chiamare i delegati al sapere» [Assmann, 1997, p. 28]. La memoria culturale si oggettiva in «forme simboliche come i miti, i canti, le danze, i proverbi, le leggi, i testi sacri, le immagini, gli ornamenti, la pittura, i sentieri e addirittura – come nel caso degli Australiani – interi paesaggi» [Assmann, 1997, p. 61]. Nelle forme della memoria culturale convergono le tipologie di memoria preesistenti: quella “mimetica”, costituita da rappresentazioni dell’agire, quella detta “delle cose”, riferita all’uso degli oggetti quotidiani e personali, quella “comunicativa”, espressa attraverso il linguaggio [Assmann, 1997, p. XVI].
Nella fase della Storia rinveniamo la genesi originaria dei cumuli di oggetti caratterizzati da segni impressi, e intorno ai quali comincia a intravedersi la forma del concetto di “biblioteca”, e più in generale di tutte le aggregazioni documentarie finalizzate. Valgono insomma, in questo senso, le considerazioni proposte da Paul Ricoeur quando definisce l’“archivio”, nella sua forma archetipica, «come un luogo fisico che protegge il destino di questa sorta di traccia, che abbiamo accuratamente distinto dalla traccia cerebrale e dalla traccia affettiva, e cioè la traccia documentaria» [Ricoeur, 2003, p. 365]. A partire dagli elenchi di Ebla e dalle “voci bibliografiche” rinvenute a Hattusa, e risalenti al XIII secolo a.C., le tavolette, insieme ai segni grafici che rappresentavano il contenuto del messaggio, hanno iniziato a configurare quello che, con la terminologia contemporanea, siamo abituati a denominare Universo bibliografico Universo bibliografico. Queste meta-informazioni, o metadati, prima coimpresse insieme ai segni primari, sono state dislocate nelle innumerevoli forme degli strumenti di mediazione, i cui segni specifici sono legati agli altri oggetti da uno specifico legame referenziale; e, in tal modo, si è originato uno strato intermedio tra gli oggetti e la mente umana, utilizzato nei diversi contesti storici per accedere al contenuto informativo degli oggetti, rappresentato e ordinato secondo il modello che i codici della rappresentazione e dell’ordinamento, nello stesso tempo, garantivano e imponevano. In tal modo l’organizzazione oggettuale, documentaria, culturale, tecnologica e culturale della memoria si è profondamente diversificata.
Nella fase dell’Iperstoria la registrazione della memoria subisce un triplice scarto. Viene prodotta e rappresentata in formato digitale, aumenta ulteriormente da un punto di vista quantitativo, è registrata e relazionata secondo modalità che sono prodotte direttamente anche dalle concretizzazioni materiali delle macchine di Turing. In questa fase ognuno di noi lascia in ambiente digitale “tracce” (ancora nella forma di registrazioni) delle proprie azioni, con cui riveliamo la natura delle nostre propensioni e dei nostri atteggiamenti [Durante, 2020, p. 127]. Nelle oscure dinamiche della “datificazione”, dunque, si ripropone in modo drammatico il problema di quali registrazioni conservare, dal momento che, come scrive Luciano Floridi, «l’iperstoria è fuoriuscita dallo spazio della memoria in cui gettare i propri dati già molti anni or sono». Emerge dunque con chiarezza la necessità, come ha scritto efficacemente Federico Valacchi, di «governare il disordine», nella consapevolezza che i dati sono organizzati secondo «dinamiche multi-dimensionali […] e generano assetti mutevoli, difficili da fissare dentro a gerarchie monolitiche» [Valacchi, 2021, p. 116].
In un primo senso, entro i confini della fase della Storia, la memoria è costituita direttamente dagli oggetti, nella loro concreta materialità, includendo in essa anche i segni impressi, che nel corso del tempo sono stati radunati e raccolti nelle diverse tipologie di istituzioni dedicate alla loro conservazione; questo livello basico, fondamentale, primario, potremmo chiamarlo “memoria oggettuale”. Si tratta tuttavia, come è evidente, di una memoria parziale, dal momento che i codici dei segni impressi, che garantiscono la significazione, sono disponibili solo nelle funzioni della mente che a esse si accosta. Mente che, elaborando il contenuto di quegli oggetti, ne produce di ulteriori, dai primi dipendenti, in cui l’informazione elaborata si concretizza, e dà origine a una porzione, ampia ma non esclusiva, del campo sterminato della “memoria culturale”. Alcuni di questi oggetti, sia primari che secondari, possono essere pensati come costituenti della “memoria documentaria”, caratterizzata dalla elusiva caratteristica, che in questa sede non è possibile che evocare, della documentarietà; questa memoria la troviamo registrata (cioè rappresentata e organizzata), nelle innumerevoli tipologie di libri, di documenti, di risorse documentarie. Queste tre “memorie”, differenziabili solo grazie ad artifici linguistici, e in base alle pratiche di scrittura delle tradizioni disciplinari, sono in realtà incapsulate le une dentro le altre: la memoria oggettuale include quella culturale, che a sua volta ingloba al proprio interno quella documentaria.
Nella fase successiva a Turing, poi, è iniziata l’epocale formazione della “memoria digitale”, affidata a sequenze di bit e byte la cui metaforica dimora è costituita dalle macchine che li processano, questa volta senza l’ausilio simbolico di rassicuranti genealogie mitiche.
La memoria digitale è costituita nel suo insieme da rappresentazioni in formato digitale, che riflettono al proprio interno la stessa articolazione delle precedenti (oggettuale, culturale, documentaria); in questa tipologia di memoria potremmo includere in primo luogo le rappresentazioni digitali degli oggetti, e di fatto anche gli oggetti prodotti direttamente ed autonomamente attraverso procedure di intelligenza artificiale, come ad esempio un testo prodotto dall’algoritmo GPT-3.
Queste tipologie in apparenza differenziate di memorie (oggettuali, culturali, documentarie, digitali), si costituiscono solo in relazione alle funzioni in senso lato psichiche che, contestualmente, le producono e la elaborano. Potremmo denominare “memoria neurobiologica” questa memoria impressa nelle nostre strutture neuronali.
A queste conclusioni approda Maurizio Ferraris, quando scrive, in una delle undici tesi che sintetizzano l’esito della sua Documentalità:
Poiché nulla di sociale esiste fuori dal testo, le carte, gli archivi e i documenti costituiscono l’elemento fondamentale del mondo sociale. La società non si basa sulla comunicazione, ma sulla registrazione, che costituisce la condizione per la creazione di oggetti sociali. L’uomo cresce come uomo e socializza attraverso la registrazione. La nuda vita non è che un inizio remoto, la cultura incomincia molto presto, si ha subito una vita vestita, che si manifesta attraverso registrazioni e imitazioni: linguaggio, comportamento, riti. Questo spiega perché sia così importante la scrittura, e prima ancora l’archiscrittura, ossia la sfera di registrazioni che precede e circonda la scrittura in senso proprio e corrente.
A questo punto, dunque, possiamo ritenere confermato il fatto che le diverse tipologie di “memorie” indicate in precedenza sono accomunate dal fatto di essere “registrazioni”, che nella loro non misurabile varietà compongono il campo complessivo della memoria, distribuita nei diversi oggetti, documentari e non documentari, che veicolano significato attraverso i segni in essi impressi. Questa modello è rappresentato nella Figura 1.
Si tratta ora di valutare in che modo la memoria, rappresentata con questo semplice schema, si manifesti nei principi, nei modelli, nei metodi della tradizione bibliografica, consapevoli del fatto che, in prospettiva, questo problema dovrebbe essere affrontare in modalità dichiaratamente comparativa rispetto ai processi che hanno avuto luogo negli ambiti disciplinari contigui, quello della archivistica e della museologia.
Costruire memoria dentro l’Universo bibliografico
Per iniziare a orientarsi in questa nuova tappa del percorso dobbiamo chiarire in che modo la memoria, e la memoria documentaria in particolare, si situi nell’ambiente in cui una parte delle registrazioni globali, quelle bibliografiche, delimitano i confini del campo dell’Universo bibliografico.
Il concetto di Universo bibliografico non è certamente semplice da descrivere. Secondo quanto si dichiara nella Section 1.2 del Final report dedicato ai Functional requirements for bibliographic records, sembra di poter affermare che è costituito dall’insieme delle «entities» rappresentate da registrazioni bibliografiche; in altre parole gli elementi che compongono l’Universo bibliografico sono quelli che si individuano a partire dalla applicazione a essi di un peculiare modello di rappresentazione: la tautologia è davvero dietro l’angolo, e viene colta con evidenza da Jacques Derrida quando scrive che «il senso archiviabile si lascia anche in anticipo co-determinare dalla struttura archiviante» [Derrida, 2005, p. 30].
Le difficoltà nella delimitazione dell’estensione del termine sono approfonditamente discusse in un interessante articolo di Amanda Cossham, che esordisce asserendo che quello di Universo bibliografico è un concetto molto più frequentemente osservato e descritto che definito [Cossham, 2013].
Cossham censisce undici abbozzi di definizioni, alcune delle quali riportate di seguito, tra loro sensibilmente diverse, in base alle quali il significato dell’espressione varia sensibilmente, oscillando tra:
- il “contenuto” presente negli oggetti;
- la materialità dell’insieme più limitato di oggetti localizzabile delle biblioteche;
- la rappresentazione memorizzata di quegli stessi oggetti all’interno dei database.
Vediamo, con la Figura 2, alcune di queste definizioni, riportate nella Appendix dell’articolo, integrate nelle due ultime posizioni della tabella con citazioni da Michael Gorman e Carlo Bianchini.
Fig. 2: Definizioni del concetto di Universo bibliografico, elaborazione da [Cossham, 2013]
Citazione | Riferimenti bibliografici |
«the totality of things over which bibliographical control is or might be exercised, consists of writings and recorded sayings’, which ‘includes items of radically different sorts’» (p. 6); «‘manuscripts as well as printed books, bills of lading and street signs as well as personal letters, inscriptions on stone as well as phonograph recordings of speeches, and most notably, memorized texts in human heads and texts stored up in the “memories” of machines’» (p. 12); «‘the universe of writings and sayings [not] the universe of pictorial and musical works’ (p. 14)». | [Wilson, 1968] |
«The totality of bibliographic entities and their relationships. In a sense, the bibliographic universe consists of all types of intellectual or physical objects in any format which contain works of imagination as well as information’» (chapter 4). | [Fattahi, 2010] |
«information resources [that] exist … within a given “universe” (e.g., within the totality of available information resources, within the published output of a particular country, within the holdings of a particular library or group of libraries, etc.)’» (p. 8); «‘the universe of entities described in bibliographic records’» (p. 3); «‘the universe that is represented in a bibliography, catalogue, or bibliographic database» (p. 55). | |
«contains millions and millions of points that are the bibliographic entities with which the bibliographic control process is concerned’» (p. 1); «‘A subset of all knowledge in which all instances of recorded, and therefore potentially retrievable knowledge, reside» (p. 166). | |
«includes anything a library might wish to collect or make accessible to its users» (p. 197). | |
«consists of ‘documents, sets of these (formed by attributes such as work, edition, author and subject), and relationships among them’» (p. 32); «‘The smallest or basic entities in the bibliographic universe are documents. Documents, which have been defined as information-bearing messages in recorded form, are individuals or singular entities» (p. 34). | [Svenonius, 2000] |
«the realm related to the collections of libraries, archives, museums, and other information communities» (p. 10). | [IFLA, 2009] |
«‘a conceptual model of the bibliographic universe as represented in library catalogues through descriptions (bibliographic records)’» (p. 13). | [Zhang - Salaba, 2009] |
«Comprised of ‘intellectual and artistic creations, the entities need for their creation and use, as well as relations among them’» (p. 644). Citazione tratta da [Fattahi, 1997]. |
[Pisanski - Zumer, 2010a] |
«La conoscenza registrata è un vasto assemblaggio di creazioni testuali, visive e simboliche in tutte le lingue, provenienti da tutti i periodi storici e presenti in tutti i formati di comunicazione – dalle tavolette d’argilla ai codici binari del digitale» (p. 12). | [Gorman, 2018] |
«L’insieme di tutte le risorse bibliografiche, cioè delle registrazioni mediante le quali viene tramandata e fruita la conoscenza umana in forma indiretta, costituisce l’universo bibliografico. L’universo bibliografico è quindi l’insieme delle conoscenze registrate su qualsiasi supporto, trasmesse nel tempo e nello spazio dalla comunità umana. L’universo bibliografico è composto dalle tracce permanenti della sconfinata conversazione che l’umanità intrattiene con sé stessa per scambiare le conoscenze che ha acquisito e per promuovere il proprio progresso» (p. 35). | [Bianchini, 2018] |
Sulla base di questi elementi maggiormente analitici, dunque, possiamo distinguere tre modi diversi di intendere il concetto di Universo bibliografico, ai quali corrispondono, a livello di modello semplificato, tre diverse tipologie di memoria. Questa situazione è schematizzata nella Figura 3.
Questa immagine dà forma a un semplice modello, molto semplificato, che tuttavia consente di evidenziare anche visivamente un aspetto realmente problematico, dal momento che il campo della memoria culturale include in realtà quelli della memoria documentaria e della memoria digitale, come mostra la Figura 4.
Questo a me pare un elemento rilevante, sul quale vale la pena riflettere ancora, per chiarire se, come sostiene Ferraris, «il mondo esiste per entrare in un catalogo», o addirittura se esiste “in quanto” rappresentato in un catalogo [Ferraris, 2009, p. 7]. Si tratta insomma di stabilire se i confini dell’Universo bibliografico coincidono con quelli del catalogo della realtà, cioè dell’insieme delle rappresentazioni che agli oggetti del mondo reale sono correlate (o correlabili). Questa, mi pare, è la prospettiva suggerita dalla struttura del modello Resource description and access (RDA). Carlo Bianchini e Mauro Guerrini, infatti, sostengono che lo stesso aggettivo “bibliografico”
non è più adeguato perché, dal punto di vista di chi compie una ricerca, motivo d’interesse è la conoscenza registrata, ovvero qualsiasi risorsa che trasmetta informazioni, qualsiasi risorsa che sia veicolo di un contenuto intellettuale o artistico su qualsiasi supporto ed in qualsiasi forma. La risposta a questa domanda implica delimitazioni molto diverse del tipo di memoria che a partire da queste premesse viene generata [Bianchini - Guerrini, 2014, p. 19].
L’attività centrale, al posto della tradizionale catalogazione, diviene dunque la «registrazione dei dati», riferita a qualsiasi entità motivo di interesse per l’utente. In RDA risiede appunto il «codice unico» per la registrazione dei dati, relativi a tutte le possibili tipologie di risorse, indipendentemente dalla loro localizzazione, codice destinato a “metadatare” tutto ciò che viene e verrà prodotto dalle più disparate comunità disciplinari. RDA, insomma, ha segnato la riemersione dell’antico sogno universalistico di rappresentazione totalizzante del mondo, coltivato nella Biblioteca di Alessandria, nella Bibliotheca universalis di Gesner, nella clavis universalis di Leibnitz, nel Mundaneum di Paul Otlet, nello Xanadu immaginato da Ted Nelson. Il mondo nella sua totalità si riflette, o può riflettersi, nelle registrazioni che di esso vengono prodotte; da ciò consegue che il campo dell’universo dei dati registrati e quello della memoria (nella sua accezione più ampia) si sovrappongono completamente, come nell’esempio della Figura 5. L’universo dei dati, sottoposto al nomos dei metadati, produce in tal modo una memoria altrettanto universalistica, in una alleanza che parrebbe stipulata tra le “cose” e le “parole”, o, nel lessico di IFLA LRM tra la Res ed il suo Nomen [Bianchini, 2018, p. 87 e seguenti].
Conflitti tra modelli: il punto di vista (e la memoria) degli utenti
Usciamo ora dai confini dell’Universo bibliografico, o Universo dei dati, e approdiamo ai campi empirici entro i quali le relazioni tra “cose” rappresentate e mente delle persone si situano. Che questo sia il modello entro cui muoversi è confermato, ancora, da un autorevole esegeta di questi temi, Carlo Bianchini, quando scrive, richiamando Ranganathan, che «la biblioteca quindi è una triade, un’entità unica e indivisibile composta da lettori, libri (nel senso di risorse) e da strumenti e personale, in particolare il personale di reference, e consiste precisamente nell’interazione tra queste tre componenti» [Bianchini, 2018, p. 31]. Mi limito ad affermare, in questa fase, che l’“unicità” del concetto “forte” di “biblioteca” che viene proposto è garantita, al suo centro, dalla stabilità del modello di rappresentazione delle entità, nelle sue diverse articolazioni e componenti. Il lettore ideale del modello (i «lettori» della triade lettori, libri/strumenti, personale) è dunque costituito da una persona che in mente dovrebbe disporre della struttura normativa del modello; è per questo che la mediazione del bibliotecario, che del modello è il garante, è di importanza così fondamentale.
Si tratta dunque di capire meglio quali siano le relazioni tra ciò che hanno in mente i lettori empirici e ciò che si postula che debba avere in mente il lettore ideale. La letteratura su questi argomenti è molto ampia e in questa sede, per non smarrire ulteriormente il bandolo di una già intricata matassa, si farà riferimento principalmente agli esiti di alcuni convincenti articoli di Jan Pisanski e Maja Žumer, pubblicati tutti sul Journal of documentation [Pisanski - Zumer, 2010a; Pisanski - Zumer, 2010b; Pisanski - Zumer, 2012]. Gli autori, sulla scia della pubblicazione del modello FRBR, hanno avvertito l’esigenza di orientare «a fresh look at the bibliographic universe», concretizzato in una indagine sui «non-librarians’ mental models», e in particolare su quelli riferiti alle entità del Gruppo 1 di FRBR (Work, Expression, Manifestation, Item). I contributi, nel loro insieme, fanno riferimento al concetto di “modello mentale”, inteso dai nostri autori come «internal representation of the outside world» [Pisanski - Zumer, 2010a, p. 646], e prendono atto del fatto che, per quanto FRBR sia esplicitamente orientato all’utente, di fatto «there were no user studies performed during its creation process»[Pisanski - Zumer, 2010a, p. 647]. L’obiettivo della ricerca è stato quello di verificare il grado di corrispondenza dei diversi modelli, quelli ideali e quelli empirici; il metodo è consistito nel fornire ai partecipanti delle schede con rappresentazioni linguistiche delle entità FRBR, invitandoli a raggrupparle secondo alcune modalità predefinite. Non è possibile in questa sede descrivere dettagliatamente le procedure utilizzate; le conclusioni mostrano tuttavia che nessuno dei criteri di raggruppamento prodotti si è rivelato uguale a quello previsto dal modello FRBR, e che i nomi attribuiti agli insiemi costituiti erano tra di loro diversi. Tuttavia va rilevato che 14 dei 30 partecipanti, invitati a ordinare le rappresentazioni linguistiche, le hanno gerarchizzate secondo la catena Work - Expression - Manifestation - Item [Pisanski - Zumer, 2010a, p. 656]. Le conclusioni analitiche (peraltro, sia detto, abbastanza facilmente prevedibili) mostrano da un lato che i modelli mentali dei partecipanti sono tra di loro diversi e che, presi in esame cumulativamente, producono un ulteriore modello che somiglia maggiormente a FRBR; questo modello di sintesi, tuttavia, è risultato evidente dell’intervento diretto dell’azione, e dunque dei modelli mentali, degli stessi sperimentatori. La conclusione finale qualifica gli esiti conseguiti come un primo passo verso la comprensione dell’Universo bibliografico, rilevando ancora che il metamodello di sintesi abbia dato origine, almeno, a «FRBR-like results» [Pisanski - Zumer, 2010b, p. 678-679].
La mia impressione, entro la cornice delimitata in questo contributo, è che l’approccio microsperimentale all’analisi comparativa dei modelli sia molto interessante e nello stesso tempo solo in parte adeguato. Questa parzialità deriva da due elementi principali: la varietà delle entità a cui le rappresentazioni linguistiche sono correlate; la varietà dei modelli mentali individuali [Vivarelli, 2018].
Ugualmente mi pare evidente che si mobilitano da questa angolatura problemi di «complessità spaventosa», come li ha definiti Serrai, che con lucidità ancor oggi molto apprezzabile ha scritto che:
Le soluzioni da predisporre al fine di restringere il campo dei troppi possibili non-incontri fra proposte e richieste di informazione, sono riconducibili o al dominio progressivo dei rapporti tra significato e linguaggio, e quindi alla formalizzazione dei termini, o alla classificazione dei contenuti; purtroppo quanto viene acquisito in precisione si perde in elasticità, in adattabilità, e soprattutto in capacità di rinnovamento [Serrai, 1973, p. 17].
Serrai forniva tuttavia un suggerimento che ancor oggi potrebbe risultarci utile, quello di «abbandonare l’accoppiamento tra linguaggio e metafisiche di turno», e di prevedere quelle che sono definite «manipolazioni datografiche» in grado di attenuare, o far scomparire tendenzialmente, le divergenze che il linguaggio continuerà incessantemente a concretizzare [Serrai, 1973, p. 17]. Ed è proprio a questo punto, in una fase aurorale della intuizione delle possibilità derivanti dall’utilizzo dei computer, che viene prefigurata la possibilità di garantire agli «elementi mnemonici» (cioè le rappresentazioni degli oggetti dell’Universo bibliografico) la facoltà di «scomporsi e ricombinarsi in maniera sufficientemente libera, così da poter assumere impostazioni e configurazioni che non siano già obbligatoriamente predeterminate» [Serrai, 1973, p. 19].
Dentro e fuori l’Universo bibliografico: una prospettiva olistica
Questo stato di cose mostra dunque la divergenza, intuitiva e sperimentalmente accertata, tra lettori ideali dell’Universo bibliografico (e del sistema risorse - biblioteca - lettori) e lettori empirici che esistono nella realtà. In altri termini potremmo affermare che la “biblioteca” configurata nel macromodello dell’Universo bibliografico è diversa dalla “biblioteca” di cui le persone hanno esperienza, sia nella loro esperienza di rappresentazione della realtà, sia nella funzione più specifica di ricerca e recupero delle informazioni, come dimostra il noto saggio di Marcia Bates, riferito in modo specifico alla strutturazione delle interfacce, nel quale si parte dal riconoscimento della priorità del «real behavior of information searchers than the traditional model of information retrieval» [Bates, 1989]. L’irriducibile varietà dei modelli utilizzati dai lettori empirici, e insieme la crescita esponenziale delle risorse informative prodotte, misurabili con i ciclopici ordini di grandezza degli zettabyte, rendono necessario un adeguamento di prospettiva, che tenga conto della pluralità delle entità e dei punti di vista con cui esse vengono osservate, elaborate, interpretate, memorizzate.
Credo dunque che il riconoscimento di questa evidente “impasse” potrebbe legittimare una diversa formulazione linguistica del termine e del concetto di Universo bibliografico, che, abbondonando il tetragono monismo della sua attuale configurazione, sia ri-denominato Multiverso bibliografico, mitigando, e naturalmente non eliminando, la capacità modellizzante degli strumenti tradizionali ed evolutivi della catalogazione e della metadatazione.
Il termine “multiverso”, in questo senso, si riferisce all’insieme tendenziale della totalità delle rappresentazioni, correlate alle diverse memorie da esse prodotte (oggettuale, culturale, documentaria, digitale). Il termine “bibliografico” implica sostanzialmente una apertura ulteriore del significato di questo termine, non dissimile a quella proposta alcuni decenni orsono da Donald McKenzie. Lo studioso neozelandese aveva proposto di definire la bibliografia come «la disciplina che studia i testi come forme registrate, e i processi della loro trasmissione, ivi comprese la produzione e la registrazione», con riferimento a «tutte le forme di testo, non soltanto i libri o i segni su pergamena e su carta». E ancora: «Con il termine ‘testi’ intendo i dati verbali, orali, visivi, numerici, sotto forma di carte geografiche, stampe e musica, di archivi di suoni registrati, di film, di video, di informazioni memorizzate nei computer; tutto, insomma, dall’epigrafia fino alle forme più moderne di discografia» [McKenzie, 1998, p. 19-20].Insomma, sulla base di quanto fin qui si è detto, sostituire la parola “testo” con la parola “rappresentazione” prefigura la possibilità di dotarsi di una prospettiva trans e metadisciplinare, che individui quelle rappresentazioni come oggetto del proprio interesse, per descriverle, ordinarle (quando è possibile), e soprattutto relazionarle tra di loro. Il mantenimento dell’aggettivo “bibliografico” va inteso sostanzialmente come espressione della volontà di mantenere una continuità diacronica rispetto alla storia di una “tradizione”, come l’ha definita Luigi Balsamo, ed estenderne l’atteggiamento interpretativo dagli oggetti della bibliografia classica fino alle masse di rappresentazioni datificate distribuite nei territori indeterminati del postumano [Balsamo, 1984]. Passando al versante disciplinare, a questa idea di Multiverso bibliografico potrebbe corrispondere dunque una apertura “interdisciplinare”, e come si dirà in seguito, “olistica”, della bibliografia classica, per adeguarla al trattamento delle rappresentazioni che danno forma alla memoria nell’età contemporanea. Insomma al Multiverso, che esiste e continuerà a esistere (indipendentemente dal fatto che lo qualifichiamo, o meno, come “bibliografico”), potrebbero correlarsi principi, modelli, strumenti e pratiche, scientifiche e professionali, della bibliografia del futuro.
La varietà dei fatti e delle esperienze che nello spazio della biblioteca concretamente si situano, e che credo sia nostro obbligo riconoscere e legittimare, già ora implica la necessità di un modello ampio, poroso, inter e transdisciplinare, in cui il linguaggio del catalogo si incroci con i segni e i codici utilizzati per tutte le altre funzioni attraverso le quali le informazioni vengono rappresentate e utilizzate, dai siti web ai canali social, dal browsing sugli scaffali alla esperienza di lettura individuale, dalle relazioni con le altre persone alla percezione dei benefici che derivano da uno spazio accogliente e creativo. Tutti questi oggetti (“sociali” nel senso di Ferraris) sono conoscibili attraverso le loro registrazioni, che solo asintoticamente possono essere “normalizzate”. In questa fase, che a mio parere è strutturale, e non transitoria, sarebbe dunque ipotizzabile intanto una valorizzazione di questi insiemi di dati e del loro potenziale informativo, e questo credo che possa essere immaginato solo attraverso la “mobilitazione” finalizzata del potere computazionale di queste reimmaginate dream machine.
Per ottenere questo obiettivo è necessario che il nostro punto di vista divenga “olistico”, e dunque in grado di riconoscere e apprezzare tendenzialmente tutte le differenze, nella consapevolezza che in certi casi la rappresentazione delle informazioni verrà effettuata con precisione ed efficacia pragmatiche maggiori, in altri con approssimazioni, ridondanze e incertezze. Per questo modello, dunque, è indispensabile optare a livello epistemologico per l’adozione di una prospettiva panoramica e plurale, in grado di dar conto dell’inestricabile intreccio di registrazioni ordinate e non ordinate in cui si riflette la complessità della vita.
In questo modo verrebbe allargato, ma non eliminato, il campo della «control zone» prefigurata da Ross Atkinson [Atkinson, 1996], accogliendo, ad esempio, la proposta di Carl Lagoze di attenuare la rigidità dei confini perimetrati dalle culture documentarie, proprio per favorire la possibilità di trasformare i dati big in informazioni affidabili [Lagoze, 2014], magari proprio passando attraverso quelle «manipolazioni datografiche» intuite molti anni fa da Serrai. Di questa necessità personalmente sono convinto da tempo, come già ho avuto modo di comunicare in altre sedi editoriali [Vivarelli, 2016a], ccon interventi nei quali ho cercato di promuovere le ragioni di un “pensiero bibliografico debole”, che rinunciando consapevolmente alla rigidità dei confini da esso stesso tracciati si apra a una rappresentazione più libera, produttiva e aperta delle realtà, documentaria ed extradocumentaria, trovando in tale orientamento evidenti punti di contatto con le prospettive e le linee di ricerca che animano il campo della biblioteconomia sociale [Faggiolani, 2019; Solimine - Faggiolani, 2013]. A queste “manipolazioni”, volendo individuare un antecedente retrodatato, si collega ad esempio il progetto Reading(&)Machine, sviluppato in collaborazione con Marco Mellia del centro SmartData@Polito del Politecnico di Torino, finalizzato a sviluppare algoritmi di raccomandazione per elaborare, potenziare e arricchire l’esperienza della lettura.
Questa nuova configurazione del Multiverso bibliografico disporrebbe dunque di cinque vantaggi principali:
- non eliminerebbe le caratteristiche e le funzioni dell’Universo bibliografico, e delle pratiche disciplinari a esso connesse;
- legittimerebbe i fenomeni che di fatto avvengono nello spazio empirico della biblioteca, e che ne determinano la percezione e l’impatto sociale;
- legittimerebbe (sul versante della memoria neurobiologica), insieme alle registrazioni documentarie, tutte le altre registrazioni in cui si concretizza la nostra rappresentazione della realtà;
- costituirebbe un modello ampio e inclusivo, dinamico e interattivo, entro il quale ordinare ciò che è ordinabile, e contestualmente accogliere ciò che ordinabile non è, in una incessante dialettica tra ordine e disordine, attenuando quel “mal d’archivio” che mi pare affliggere da sempre l’identità profonda delle discipline documentarie;
- infine, ma non in modo residuale, offrirebbe la possibilità di inserire entro una cornice teorica la pluralità variegata dell’agire professionale bibliotecario, che con questa ampiezza di fenomeni si confronta quotidianamente, prima fra tutte il radicamento solido e senza esitazioni, nella “biblioteca”, di una autentica e convinta «politica per la lettura».
Limitatamente alla mia personale riflessione uno dei pilastri su cui si fondano queste considerazioni è il pensiero olistico di Gregory Bateson, che con una metodologia a base epistemologica ci ha insegnato (non da solo, naturalmente) la possibilità di percepire e pensare la realtà (e le sue registrazioni) non come un insieme di oggetti monadici, isolati e irrelati, ma come una rete viva di entità tra di loro ecologicamente correlate, contemporaneamente dentro e fuori la mente che alla natura si accosta, attraverso la «struttura che connette», garante della esistenza di un modello di comprensione comune [Bateson, 1984]. Questa apertura, declinata dall’interno della tradizione bibliografica, avrebbe inoltre il vantaggio di accreditare e consolidare, anche sul piano epistemologico, quel bisogno pervasivo di adeguamento innovativo alla complessità del cambiamento, che porta R. David Lankes, ad esempio, ad affermare, orgogliosamente ma su una base solo intuitiva e, mi pare, sostanzialmente solipsistica: «io intendo fornire accesso alla conoscenza, e questo è molto diverso dalle risorse, dai libri, dagli articoli» [Lankes, 2020].
Il Multiverso bibliografico in questo modo immaginato disporrebbe del non lieve vantaggio, allargando i propri confini, di contribuire all’arricchimento della produzione di memoria negli individui e nella società, dal momento che non si limiterebbe a utilizzare gli engrammi della memoria documentaria, ma anche di tutte le tracce delle differenze della realtà, a partire dalle quali il ciclo di vita della conoscenza si produce.
Infine, entro la fisionomia di questo modello, inizia a delinearsi il campo di questa ultima “provincia” della memoria, la Memoria iperstorica, in cui verrebbero raccolte le rappresentazioni prodotte direttamente dall’azione degli agenti artificiali, che peraltro già esistono ed agiscono, e producono informazioni, contribuendo a popolare la sterminata e indeterminata infosfera (Figura 6).
Forse, anche per il turbinare degli eventi suscitato dagli sciami virali della pandemia, è il momento di tornare a riflettere, molto più accuratamente di quanto fin qui si sia proposto, su che cosa significhi fornire, con le registrazioni, un ordine documentario a ciò che è complesso, mutevole, indeterminato, e su come sia possibile alimentare, attraverso la “biblioteca”, le dinamiche di una memoria, ora iperstorica, dinamica e viva, riflesso della «danza di parti interagenti» in cui si manifesta la realtà. Da questa “distanza”, che nella convinzione di chi scrive è quella “giusta” evocata nel titolo, non può essere elusa la riflessione sui fondamenti, sullo strato profondo e archetipico a partire dal quale, con progressive “embricature” e riscritture, come ha chiarito Michel de Certeau, si stratificano le metafore, i modelli, i principi ed infine le attività che danno forma ai «modi di fare» con cui vengono realizzate le pratiche delle nostre quotidiane arti del fare documentarie.