Neutralità della rete, tariffe gratuite e giardini recintati: le difficili scelte della libertà intellettuale
Dipartimento di studi umanistici, Università Ca’ Foscari, Venezia; ridi@unive.it
Le traduzioni in italiano non diversamente attribuite sono mie. Ringrazio Enrica Manenti per aver attirato la mia attenzione, nel maggio 2018, sulle posizioni dell’IFLA riguardo alla net neutrality e Juliana Mazzocchi per aver letto e commentato una versione preliminare del testo.
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 20 settembre 2019.
Abstract
La net neutrality è il principio secondo cui tutti i dati trasmessi attraverso internet dovrebbero essere gestiti nello stesso modo dagli internet service provider (ISP), senza né favorire né sfavorire in nessun modo alcun tipo di contenuto, di servizio o di utente. Un modo particolarmente discusso di favorire i contenuti e i servizi offerti da specifiche aziende è il cosiddetto zero rating, che consiste nella possibilità di accedere gratuitamente a internet, ma solo limitatamente ad alcuni siti o servizi gestiti, appunto, da tali aziende. L’IFLA, con due documenti pubblicati nel 2016 e nel 2018, ha preso decisamente posizione a favore della net neutrality e contro lo zero rating, in nome della libertà intellettuale degli utenti di internet, che non dovrebbero essere spinti dalla convenienza economica a preferire certi contenuti rispetto ad altri.
L’autore dell’articolo non condivide completamente la posizione dell’IFLA (che, benché guidata da nobili propositi, rischia di aggravare il divario digitale e di minare i principi alla base dell’Open Access e dei servizi bibliotecari) e propone di investire piuttosto maggiori energie nella promozione di un accesso gratuito universale all’intera internet (o, almeno, ai siti e ai servizi online della pubblica amministrazione) finanziato dagli enti pubblici, che costituirebbe un sostegno alla libertà intellettuale ben più efficace di qualsiasi lotta contro lo zero rating.
English abstract
Net neutrality is the principle according to which all data transmitted through the internet should be managed in the same way by internet service providers (ISPs), without favouring or disadvantaging any type of content, service or user. A particularly discussed way of favouring contents and services offered by specific companies is the so-called zero rating, which consists in the possibility of accessing the internet for free, but only for certain sites or services managed by these companies. IFLA, with two documents published in 2016 and 2018, has definitely taken a stand in favour of net neutrality and against zero rating, in the name of the intellectual freedom of internet users, who should not be driven by economic convenience to prefer certain contents compared to others.
The author of this article does not fully agree with the position of IFLA (which, though driven by noble intentions, risks aggravating the digital divide and undermining the principles underlying open access and library services) and proposes to invest rather more energy in promoting free universal access to the entire internet (or, at least, to the public administration’s online sites and services) financed by public bodies, which could be a support to intellectual freedom far more effective than any fight against zero rating.
Net neutrality, zero rating e walled garden: cosa sono
Nell’ottobre 2016 l’IFLA ha espresso la propria posizione ufficiale sulla cosiddetta net neutrality, seguita nel giugno del 2018 da un ulteriore documento, che da una parte approfondisce il concetto della neutralità della rete (ossia di internet), argomentandone ulteriormente l’auspicabilità, fornendone alcuni dettagli tecnici e indicando numerosi siti e documenti utili per formarsi un’opinione in proposito, e dall’altra precisa le modalità con cui i bibliotecari possono intraprendere le linee di azione a sostegno della net neutrality già raccomandate dal precedente testo. Né lo statement del 2016 né il toolkit del 2018 sono ancora stati tradotti in italiano.
La net neutrality (o neutralità della rete, network neutrality, NN) consiste nel principio etico e giuridico secondo cui tutti i dati presenti in internet o trasmessi attraverso internet dovrebbero essere gestiti nello stesso modo dagli internet service provider (ISP) che consentono a persone, aziende e istituzioni di connettersi alla rete e di usufruire dei relativi servizi, senza né favorire né sfavorire in nessun modo alcun tipo di contenuto, di servizio, di hardware, di software, di area geografica, di lingua, di fornitore o di consumatore, né discriminando sulla base di qualsiasi altro parametro o fattore.
Al netto degli inevitabili incidenti tecnici fortuiti (se un cavo viene reciso è possibile che, finché non verrà riparato, ci saranno rallentamenti o oscuramenti localizzati) e delle altrettanto inevitabili leggi economiche del mercato (se un cliente paga di più è probabile che in qualche modo otterrà qualcosa di più, in termini di quantità e velocità dei dati o di varietà e qualità dei servizi o di orari di accesso ecc.) è evidente che gli ISP che violassero il principio della neutralità della rete rallentando, riducendo o impedendo deliberatamente la fruizione, la ricezione o l’invio di determinati dati a determinati utenti si renderebbero colpevoli di un deprecabile comportamento discriminatorio e censorio. È ciò che capita, ad esempio, quando dai computer localizzati in un determinato paese non risulta possibile accedere ai social media o ad altri popolari siti web collocati su server stranieri, oppure quando un ISP impedisce ai propri clienti “di base” l’uso di una specifica applicazione (ad esempio Skype), che invece viene consentito ai clienti disposti a sottoscrivere un abbonamento più costoso (facendo passare come servizio aggiuntivo quello che invece è semplicemente il ripristino di un servizio artificiosamente coartato).
Meno intuitivo ed evidente è invece che non solo rallentamenti e oscuramenti, ma anche velocizzazioni e facilitazioni possono, paradossalmente, essere considerate violazioni della neutralità della rete. Ad esempio un ISP che consentisse a tutti i propri clienti di utilizzare una determinata piattaforma per lo streaming musicale e cinematografico legale in modo estremamente più rapido e stabile di tutte le altre potrebbe essere accusato non solo di conflitto di interessi (se la piattaforma privilegiata fosse per l’appunto la propria) ma anche di non aver rispettato la net neutrality (anche se la piattaforma fosse quella di un fornitore di contenuti col quale l’ISP ha stretto un accordo commerciale). Infatti, in tal caso, la piattaforma in questione godrebbe i benefici di una sorta di “banda larga proprietaria” che difficilmente verrebbe predisposta grazie a soluzioni tecniche e investimenti specifici, ma che molto più probabilmente e banalmente scaturirebbe dalla riduzione della banda messa a disposizione di tutte le altre piattaforme concorrenti.
Una modalità di accesso a internet che alcuni ritengono un caso particolarmente radicale di violazione della neutralità della rete sotto forma di facilitazione di determinati fornitori di contenuti è il cosiddetto zero rating (alla lettera: zero tariffazione), che consiste nella possibilità di usufruire gratuitamente di internet ma solo limitatamente ad alcuni siti o servizi (tipicamente quelli del medesimo soggetto che regala l’accesso alla rete) oppure – solo secondo alcune definizioni – con l’obbligo di sottostare a determinate condizioni, come ad esempio l’esposizione a messaggi pubblicitari. Si verrebbe così a costituire una sorta di walled garden effect (effetto giardino recintato), che tenderebbe a mantenere il più possibile i clienti dell’ISP all’interno di un numero limitato e controllato di siti e applicazioni ad accesso gratuito, riducendo contemporaneamente sia la libertà di scelta degli utenti che la libera concorrenza fra i fornitori di contenuti e servizi online. C’è però anche chi sottolinea che, soprattutto nelle zone più povere e più isolate del pianeta, dove il pieno accesso a internet può rivelarsi troppo costoso o complesso, una fruizione limitata della rete può comunque rivelarsi preziosa o addirittura vitale, e che spesso in tali situazioni l’unica alternativa realisticamente praticabile non è quella dell’accesso “alla pari” a qualsiasi contenuto disponibile online, ma piuttosto la totale rinuncia a qualsiasi fonte informativa – digitale o meno – che non sia già presente negli immediati paraggi.
La legislazione sulla neutralità della rete varia notevolmente da paese a paese e nel corso del tempo. Inoltre anche nei paesi dotati di leggi favorevoli alla neutralità lacune, vaghezze ed eccezioni presenti nelle norme possono di fatto permettere comportamenti non neutrali. Ad esempio l’Unione europea ha approvato nel 2015 una normativa entrata in vigore nel 2016 che, in linea generale, prescrive la neutralità, lasciando però agli ISP un ampio spazio di manovra per favorire «servizi specializzati» non ben definiti, per rallentare determinati servizi anche solo in previsione di congestioni future del traffico, per creare canali di traffico differenziati e per non far pagare l’accesso a certi siti o applicazioni. Persino l’India, che nel 2018 ha varato una normativa che viene considerata quella più favorevole del mondo alla neutralità della rete, prevede eccezioni che consentono corsie preferenziali per servizi come la telemedicina e la guida automatica.
Negli Stati Uniti la maggiore o minore neutralità della rete dipende in gran parte da come la Federal communications commission (FCC) classifica i servizi disponibili grazie a internet: se essi vengono considerati servizi informativi allora la stessa FCC ha pochi poteri su di essi ed è probabile che gli ISP, perseguendo i propri interessi economici, non si preoccupino di comportarsi in modo neutrale, mentre se vengono considerati servizi di telecomunicazione allora la FCC ha la possibilità di imporre loro un certo livello di neutralità. Poiché i cinque membri della FCC vengono nominati dal presidente degli USA, è già capitato più volte che in concomitanza con l’avvicendamento dei presidenti muti anche l’atteggiamento del governo statunitense nei confronti della net neutrality. Ad esempio il nuovo presidente della FCC, designato a tale funzione da Donald Trump nel gennaio 2017, ha fatto passare dei provvedimenti, in vigore da giugno 2018, che hanno invertito la tendenza favorevole alla neutralità della precedente amministrazione Obama.
In Italia è stata redatta nel 2015 dalla Camera dei deputati una Dichiarazione dei diritti in Internet, il cui quarto articolo (Neutralità della rete) è composto da due soli commi, estremamente espliciti nel prescrivere una piena net neutrality:
- ogni persona ha il diritto che i dati trasmessi e ricevuti in Internet non subiscano discriminazioni, restrizioni o interferenze in relazione al mittente, ricevente, tipo o contenuto dei dati, dispositivo utilizzato, applicazioni o, in generale, legittime scelte delle persone.
- il diritto ad un accesso neutrale ad Internet nella sua interezza è condizione necessaria per l’effettività dei diritti fondamentali della persona.
Ciò nonostante, offerte commerciali di zero rating, non esplicitamente proibite in qualsiasi forma né dalla legislazione italiana né da quella comunitaria, sono state più volte proposte ai propri clienti da ISP italiani anche dopo il 2015, venendo considerate accettabili dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) purché non avvantaggino una singola azienda rispetto alle altre fra quelle che offrono una determinata categoria di servizi online (ad esempio lo streaming musicale) ma piuttosto favoriscano, offrendola gratuitamente ai propri clienti, quella stessa intera categoria di servizi (e, quindi, non si può fare a meno di notare, le aziende che operano in tale settore) rispetto ad altre categorie (ad esempio lo streaming cinematografico). Ovvero, per l’Agcom, favorire lo streaming musicale di TIM rispetto a quello di Vodafone viola la neutralità della rete, mentre – curiosamente – non la violerebbe favorire lo streaming musicale (di qualsiasi azienda) rispetto allo streaming cinematografico o a un altro tipo di servizio (purché sempre di qualsiasi azienda).
Net neutrality, zero rating e walled garden: cosa ne pensa l'IFLA
Nei suoi due documenti sulla neutralità della rete l’IFLA, coerentemente con altre sue precedenti prese di posizione, linee guida, codici, manifesti e campagne, si focalizza soprattutto sulle sue conseguenze per la libertà intellettuale, sia sul fronte della libertà di espressione che su quello del diritto di accesso alle informazioni, inferendone una netta e decisa difesa della net neutrality e un’altrettanto ferma condanna dello zero rating. L’IFLA teme che infrazioni della neutralità riducano la libertà di scelta dei cittadini, non solo nel caso in cui determinati contenuti o servizi vengano oscurati o rallentati, ma anche quando essi vengono favoriti da soluzioni commerciali come lo zero rating, che «viola il principio della neutralità della rete, perché i servizi che vengono offerti gratuitamente vengono discriminati in senso positivo, permettendo così agli ISP di orientare le scelte degli utenti. […] Ciò distorce la fruizione dei contenuti e può condurre all’“effetto giardino recintato”, in cui l’esperienza che gli utenti hanno di internet è limitata ai soli servizi gratuiti». Tale evenienza preoccupa l’IFLA perché «il diritto di cercare, diffondere e ricevere informazioni e idee e di ottenere un equo accesso a tutti i contenuti è un diritto universale, centrale rispetto alla missione dell’IFLA» stessa e «quando soggetti privati e pubblici possono guidare slealmente le persone verso certi servizi e distoglierle da altri ciò aumenta il rischio della censura e del consolidamento del dominio da parte di chi detiene il potere».
Anche la riservatezza dei comportamenti informazionali, secondo l’IFLA, viene messa a rischio dalla «discriminazione fra i differenti servizi, che implica una violazione della privacy delle comunicazione degli utenti, perché l’ISP sta monitorando gli specifici siti web che vengono visitati e i contenuti che vengono scaricati». L’IFLA teme anche che «il sito web della biblioteca non sia in grado di competere con l’informazione commerciale e coi fornitori di contenuti che hanno la capacità di offrire livelli di servizio differenziati, a prezzi preferenziali o gratuitamente come servizi zero rated. In questa situazione i siti delle biblioteche possono risultare confinati nella corsia lenta o nell’accesso a pagamento che, ovviamente, non può competere con quello gratuito». Questi due argomenti non mi paiono però particolarmente efficaci, perché da un lato gli ISP possono benissimo monitorare i comportamenti dei propri utenti anche senza violare in alcun modo la neutralità della rete, e dall’altro lamentarsi perché i siti delle biblioteche rischiano di finire nella “corsia lenta” potrebbe sembrare più una richiesta di essere spostati nella “corsia veloce” che una condanna dell’esistenza stessa di corsie con velocità differenziate.
L’IFLA non mostra invece interesse per un’altra delle critiche che vengono più spesso rivolte allo zero rating, ossia alle sue conseguenze negative rispetto alla libera concorrenza nel mercato dei fornitori di contenuti e servizi online (che pure dovrebbero includere una parte significativa di quei «lavoratori dell’informazione» a cui il suo codice deontologico aspirerebbe a rivolgersi), che non viene neppure rammentata né nello statement del 2016 né nel toolkit del 2018.
Entrambi i documenti dell’IFLA si chiudono raccomandando ai bibliotecari numerose azioni da intraprendere, alcune delle quali del tutto condivisibili (illustrare ai propri utenti le problematiche della net neutrality e dello zero rating; partecipare alla discussione pubblica su tali temi; combattere per ridurre o azzerare i costi della connessione senza restrizioni a internet, anche dall’interno delle biblioteche stesse; verificare che la propria biblioteca non subisca violazioni della neutralità della rete), altre soggette alla maggiore o minore forza che si ritenga di attribuire alle argomentazioni contenute nei documenti stessi (combattere affinché la neutralità della rete sia legalmente garantita a livello nazionale; combattere per la proibizione delle tariffazioni gratuite nei contratti per la connessione a internet di smartphone e tablet) e altre, infine, francamente velleitarie, almeno in paesi dove la rilevanza sociale dei bibliotecari è scarsa come in Italia (verificare se gli ISP violano la neutralità della rete ed eventualmente renderne consapevoli i rispettivi utenti; invocare normative che obblighino gli ISP a rendere pubblico come, quando e perché essi influenzano il traffico della rete; avviare campagne di opinione e contattare legislatori e agenzie di controllo per difendere la net neutrality).
Perché le biblioteche dovrebbero fare attenzione a non autocontraddirsi riguardo allo zero rating
Gli argomenti più solidi dell’IFLA contro lo zero rating e a favore della net neutrality sono quindi quelli che coinvolgono la libertà intellettuale, però in tale ambito i pro e i contro sono a mio avviso più numerosi e complessi di come vengono presentati nei suoi due documenti. L’atteggiamento eccessivamente manicheo dell’IFLA utilizza, di conseguenza, argomenti che risultano “troppo forti”, nel senso che, se venissero accettati interamente, con tutti i loro corollari logici, rischierebbero di abbattere, insieme allo zero rating, anche numerosi servizi tipicamente bibliotecari o comunque supportati dalle biblioteche che, in fondo, gli somigliano parecchio.
Il movimento Open Access, che l’IFLA e l’intero mondo bibliotecario appoggiano con convinzione, non ha forse come obbiettivo principale la costruzione di un ampio insieme di pubblicazioni scientifiche disponibili online gratuitamente per chiunque? E gli studenti e studiosi sempre più abituati ad attingere da questo serbatoio zero rated non vengono forse, di conseguenza, sempre più disabituati e distolti dall’utilizzare anche documentazione scientifica che, del tutto legittimamente, è invece stata pubblicata in autorevoli riviste e collane che non aderiscono all’Open Access o che, addirittura, sono attualmente disponibili solo in formato cartaceo? L’Open Access non crea forse un walled garden all’interno dei cui confini è così tanto più comodo aggirarsi da rischiare di rinunciare a spingersi oltre le sue mura, tralasciando di cercare, procurarsi (spesso con una certa fatica e talvolta anche con qualche spesa), leggere e citare anche pubblicazioni che non ne fanno parte? Tale comportamento non rischia forse sia di ridurre la qualità delle tesi di laurea e dei “prodotti della ricerca” che di danneggiare – dal sempre più rilevante punto di vista bibliometrico – gli autori delle pubblicazioni non ancora disponibili in open access? E indurre tale comportamento non potrebbe forse essere quindi visto come una violazione della neutralità e come un’infrazione della libertà intellettuale, che ridurrebbe sia la libertà di accesso all’informazione dei lettori (spinti in una direzione piuttosto che in un’altra) che la libertà di espressione degli autori (sempre meno letti e citati, se hanno avuto la sfortuna di pubblicare i propri lavori nella “corsia lenta”)?
Esiste inoltre un altro walled garden, dalle mura ancora più ripide e sorvegliate di quello dell’Open Access, e alla cui edificazione le biblioteche hanno dato un contributo ancora più rilevante. Al suo interno si trovano tutte le banche dati, i periodici elettronici, gli e-book e le altre risorse informative digitali a pagamento che le biblioteche, soprattutto quelle universitarie, mettono a disposizione (dopo aver corrisposto il prezzo del relativo abbonamento a editori e distributori) dei propri utenti, che possono consultarle gratuitamente dai computer delle biblioteche stesse o anche dai propri, facendosi riconoscere come utilizzatori autorizzati. Non si potrebbero forse applicare anche a queste pubblicazioni zero rated le stesse considerazioni fatte relativamente all’Open Access dal punto di vista della violazione della neutralità e della libertà intellettuale? Anzi, in questo caso le discriminazioni sono addirittura maggiori, perché da un lato non tutti i cittadini possono accedere a queste risorse informative (quando sono gestite da biblioteche non aperte a chiunque) e dall’altro gli autori hanno ancora meno controllo su quali saranno le pubblicazioni a cui le singole biblioteche si abboneranno.
E non saranno, in fin dei conti, addirittura le intere collezioni delle biblioteche – e quindi, in un certo senso, le biblioteche stesse – dei veri e propri “giardini recintati”, dove la società ritiene utile mettere gratuitamente a disposizione di certi suoi sottoinsiemi o addirittura dell’intera popolazione una serie di documenti considerati particolarmente importanti per la ricerca, per l’istruzione e per la cultura? Coloro che, come gli editori e i librai, tali documenti vorrebbero venderli non solo alle biblioteche ma anche (e soprattutto) ai singoli cittadini non potrebbero riscontrare in tale comportamento una discriminazione a loro sfavorevole, in quanto altererebbe la libera concorrenza del mercato? E i cittadini non potrebbero considerare un attentato alla loro libertà di scegliere autonomamente cosa leggere il fatto che solo certe pubblicazioni (o, comunque, certe pubblicazioni più di altre) vengano offerte loro gratuitamente, scoraggiandoli dall’acquistarne altre? E, infine, gli autori non potrebbero addirittura scegliere se lamentarsi che le biblioteche, comprando i loro libri, riducono i loro proventi dal diritto d’autore oppure che, non comprandoli, censurano la loro libertà di espressione, riducendo le probabilità che la loro voce giunga fino alle orecchie dei cittadini, soprattutto quando le loro pubblicazioni saranno ormai fuori commercio? In tutti questi casi i libri e le riviste zero rated offerti dalle biblioteche non stanno forse violando la neutralità rispetto ai contenuti esattamente come i film e le canzoni offerte dagli ISP senza intaccare i giga di traffico internet mensili previsti in alcuni contratti degli smartphone?
Perché lo zero rating non è un male assoluto
Eliminare, con coerenza, qualsiasi tipo di zero rating nell’accesso alle fonti informative rischierebbe quindi di minare alle radici l’esistenza stessa delle biblioteche e dell’Open Access. Ma non è questo l’unico motivo per cui un attacco frontale ad ogni forma di tariffazione gratuita dell’accesso a internet può lasciare perplessi.
Per l’IFLA «quando prezzi e modalità d’uso differenziali vengono applicati in paesi in via di sviluppo tale pratica può esacerbare il problema del divario digitale», ma è difficile sostenere che nessun accesso riduca il divario digitale più di un accesso parziale, anche se è chiaro che l’ideale sarebbe un accesso totale. Se stessimo parlando di risorse nutritive, anziché informative, chi se la sentirebbe di dire che – nel caso in cui non ci si possa permettere una salubre dieta ampia e bilanciata – sia meglio morire di fame piuttosto che nutrirsi di junk food offerto gratuitamente da qualche multinazionale perché ciò comprometterebbe la nostra salute? Semmai l’obbiettivo dovrebbe essere quello di ampliare e diversificare tale dieta, aggiungendovi altri tipi di cibo, e non quello di impedirla, sostituendola con l’inedia. E, se stessimo parlando di libertà intellettuale, credo che nessuno la considererebbe talmente minacciata dal saper leggere e scrivere in una sola lingua da proibire tale condizione, preferendovi l’analfabetismo, ma piuttosto ci si sforzerebbe di promuovere il poliglottismo, che aumenta le possibilità sia di accedere alle idee altrui che di diffondere le proprie. E allora perché, quando invece parliamo di internet, se Facebook, Google o Wikipedia offrono (o hanno offerto, in passato) in alcuni paesi l’accesso gratuito via smartphone ai loro siti, invece di ringraziarli e cercare di creare accordi analoghi con ulteriori soggetti, queste iniziative vengono accusate di ampliare, anziché di ridurre, il divario digitale?
Certamente sarebbe più equo, più neutrale, più rispettoso della libertà intellettuale e più incisivo rispetto al divario digitale garantire, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli già sviluppati, un accesso a internet universale (cioè da parte di chiunque), totale (cioè a qualsiasi sito), gratuito e senza condizioni, ma non ci si può realisticamente aspettare un risultato del genere da un ISP, da un’azienda fornitrice di contenuti o da un’associazione culturale privata. Chi potrebbe raggiungerlo, se lo ritenessero un obbiettivo più importante di altri per cui vengono investite ancora più risorse, sono le istituzioni pubbliche, nazionali e locali, che in molti paesi già offrono, in alcune città, un certo numero di hotspot wifi ad accesso gratuito spesso localizzati presso università, biblioteche, musei, ospedali e altri edifici di interesse pubblico, fruibili anche dalle strade e dalle piazze circostanti fino a coprire, talvolta, buona parte dei centri abitati, anche se non sempre con la velocità e stabilità di banda desiderabili. Un potenziamento significativo di questo tipo di accesso a internet probabilmente incrementerebbe la net neutrality e la libertà intellettuale molto più di qualsiasi lotta contro lo zero rating, e quindi sarebbe forse stato meglio che l’IFLA lo avesse appoggiato con maggior forza nei due documenti che stiamo commentando, dove invece non riceve neppure un accenno nel toolkit del 2018 e viene nominato esclusivamente in due delle raccomandazioni finali nello statement del 2016:
I professionisti delle biblioteche dovrebbero: […]
- sostenere la riduzione del costo di accesso all’intera ampiezza di internet in tutto il mondo, anche attraverso un ben supportato accesso pubblico nelle biblioteche;
- sostenere gli investimenti pubblici in infrastrutture e in strategie di accesso alternativo a internet come le reti di comunità.
E se le istituzioni pubbliche ritenessero di non avere risorse sufficienti per fornire un accesso universale, gratuito, stabile e veloce alla totalità di internet (o se comunque preferissero non entrare in concorrenza diretta, su questo fronte, con gli ISP privati) credo che un aiuto sostanziale alla libertà intellettuale e alla riduzione del divario digitale potrebbe venire anche da una serie di accordi con gli ISP allo scopo di permettere tale tipo di accesso almeno ai siti della pubblica amministrazione, rendendo con una sola mossa più efficaci i diritti di tutti i cittadini all’istruzione, alla salute, alla partecipazione alla vita politica, alla trasparenza dell’amministrazione ecc.
Che ci sarebbe, infine, di male nel consentire (o, addirittura, nel prescrivere) forme di zero rating per specifici siti e servizi pubblici e privati che i singoli stati ritenessero particolarmente importanti per i propri cittadini, come ad esempio è avvenuto in India per la telemedicina e la guida automatica?
Neutralità forte e debole: due pesi ma una sola misura
Lo zero rating, quindi, non è un male assoluto, se applicato in aree geografiche o a tipologie di siti e servizi che rendano i suoi benefici per l’intera comunità maggiori delle sue criticità rispetto alla libertà intellettuale e alla libera concorrenza del mercato. Tant’è vero che l’American Library Association (ALA), più saggiamente dell’IFLA, non lo nomina mai esplicitamente nella sua presa di posizione e nelle sue FAQ sulla neutralità della rete, che pure sono entrambe decisamente contrarie alla suddivisione del traffico su internet in corsie più lente e più veloci.
Ma, riflettendoci meglio, forse neppure la net neutrality è un bene assoluto, visto che neanche i paesi che ufficialmente la difendono, come l’Italia, si esimono dal prevedere che la polizia o la magistratura possano indicare agli ISP nazionali elenchi di siti che devono essere resi inaccessibili da tutti i computer del paese stesso, per motivi strettamente legali connessi, ad esempio, alla pedopornografia, al terrorismo, al gioco d’azzardo o al copyright. Si tratta, ovviamente, di un terreno molto delicato, dove basta davvero poco per scivolare in forme di censura e di violazione della libertà intellettuale decisamente antidemocratiche, ma non si può fingere di non sapere che, in ogni epoca e ad ogni latitudine, anche i regimi politici più liberali e democratici hanno sempre previsto qualche regolamentata modalità di restrizione dell’accesso alle informazioni e della diffusione delle opinioni che consentisse di salvaguardare esigenze considerate di primaria importanza sociale: dalla salute all’ordine pubblico, passando per la tutela dei segreti militari e per la repressione della calunnia e della diffamazione ecc. Del resto la stessa IFLA pare accettare questo tipo di limitazioni, contraddicendo la propria radicale opposizione a qualsiasi infrazione o indebolimento della net neutrality, quando si dichiara favorevole a «un internet aperto […], ma entro i limiti delle leggi nazionali (ad esempio quelle che contrastano il razzismo, la diffamazione e le molestie)».
Si potrebbero allora, forse, ipotizzare due tipi – o, meglio, due livelli – di net neutrality. La neutralità “forte”, più radicale, che in nome della libertà intellettuale e della libertà del mercato proibisce “qualsiasi” intervento – eseguito da chiunque e per qualunque scopo – sul traffico della rete, sia per velocizzarne e facilitarne una parte che per oscurarne o rallentarne un’altra; e la neutralità “debole”, più moderata, che non considera la libertà intellettuale e la libertà del mercato dei valori assoluti, a cui tutti gli altri vanno sempre e comunque sacrificati, ma che – nel difficile tentativo di trovare un equilibrio fra i numerosi diritti, doveri e interessi presenti in ogni società – prevede la possibilità di interventi sul traffico, purché limitati, giustificati e regolamentati. La neutralità forte, nella sua linearità, ha una sola formulazione, quella difesa dall’IFLA (eccetto, come abbiamo appena visto, che in due righe del suo statement del 2016), che può paradossalmente implicare varie conseguenze indesiderate, come la delegittimazione dell’Open Access e dei servizi bibliotecari e l’aggravamento del divario digitale. La neutralità debole invece può prendere mille forme, a seconda del tipo di eccezioni incorporate; se le eccezioni sono troppo numerose e troppo vaghe può diventare una neutralità apparente, esclusivamente formale, che lascia troppa libertà d’azione agli interessi economici degli ISP e delle aziende fornitrici di contenuti e servizi online, ma se invece le eccezioni sono scelte e definite attentamente – come in India – allora la debolezza può trasformarsi in una “robustezza” capace di difendere concretamente la libertà intellettuale con maggiore efficacia rispetto a prese di posizione magari più ambiziose ma sicuramente anche più problematiche e velleitarie.
Chi legge potrebbe legittimamente chiedersi se schierarsi a favore della forma più moderata della net neutrality contraddica o almeno indebolisca la difesa della forma più radicale della neutralità intellettuale dei bibliotecari che ho argomentato in più occasioni. In realtà non c’è però alcuna contraddizione o contrasto fra i due tipi di neutralità, prima di tutto perché sono indirizzati a due soggetti ben diversi: la neutralità intellettuale “forte” è un principio etico che la maggior parte dei codici deontologici emanati da associazioni professionali di bibliotecari prescrive ai propri soci e raccomanda all’intera comunità professionale; la neutralità della rete “debole” è invece un principio etico rivolto agli ISP, o, se si preferisce, agli stati e alle loro aggregazioni, che dovrebbero tradurlo in dettati giuridici che gli ISP devono comunque rispettare, qualunque sia il loro orientamento morale.
Inoltre entrambe le norme hanno lo stesso obbiettivo di fondo, cioè la difesa della libertà intellettuale, raggiunto però seguendo due diversi percorsi. Al livello del singolo bibliotecario la libertà intellettuale è probabilmente il valore etico più importante che, in ambito professionale, è doveroso perseguire, pur mitigandolo con altri principi, fra i quali la responsabilità sociale nei confronti di altri valori presenti nella comunità in cui il bibliotecario stesso opera. La neutralità intellettuale (che consiste nel non favorire o sfavorire in alcun modo le fonti informative in base al proprio punto di vista, sforzandosi di adottare piuttosto quello dell’utente che vuole accedervi) è quindi per il bibliotecario altrettanto centrale e prioritaria, perché astenersi da valutazioni personali (morali, politiche, religiose ecc.) sui contenuti di tali fonti è il modo migliore per garantire a qualsiasi utente il massimo aiuto possibile nel reperimento dei documenti desiderati, senza né censure (in negativo) né pressioni (in positivo) nei riguardi di questo o quel contenuto.
Per lo stato, invece, la libertà intellettuale non è mai la guida fondamentale della propria azione, perché deve tener conto anche e soprattutto di numerosi altri valori, diversi in ciascuna società e spesso più pressanti. La neutralità della rete rispetto ai contenuti che essa stessa veicola, quindi, non può e non deve assumere per lo stato la stessa importanza – e quindi la stessa radicalità – che la neutralità intellettuale riveste per il bibliotecario. Una forma di neutralità “robusta” – cioè debole, ma con eccezioni limitate, giustificate e regolamentate rispetto a quella forte – costituisce quindi il massimo sostegno alla libertà intellettuale che un’associazione di bibliotecari può aspettarsi dai governi e dai legislatori senza incorrere in un paradossale autolesionismo, e non solo perché le sue esortazioni hanno ovviamente un peso ben diverso quando si rivolgono agli stati e agli ISP invece che ai bibliotecari stessi.
Libertà intellettuale: perché è più facile lodarla in astratto che difenderla in concreto
L’influente bibliotecario statunitense Leon Carnovsky (1903-1975) ha affermato, cinicamente ma acutamente, di «non aver mai incontrato un bibliotecario pubblico che abbia approvato la censura o uno che abbia evitato di praticarla in qualche misura». Analogamente si potrebbe dire che nessun bibliotecario si dichiarerà mai contrario alla libertà intellettuale, ma molti possono rischiare di metterla in pericolo con dichiarazioni e azioni improntate alle migliori intenzioni ma che, nella complessità del mondo reale, potrebbero condurre a esiti opposti rispetto a quelli auspicati.
Nel mondo contemporaneo è difficile trovare qualcuno – soprattutto se è un “lavoratore dell’informazione” come i bibliotecari, gli insegnanti, i giornalisti, gli editori o i librai – che si schieri esplicitamente contro la libertà intellettuale, un principio grosso modo riducibile al diritto di chiunque a leggere (e ascoltare, guardare ecc.) e scrivere (e dire, pubblicare ecc.) ciò che preferisce, purché ciò non danneggi gli altri. Ciò nonostante le violazioni e le limitazioni di tale libertà, sia sul fronte della “lettura” che su quello della “scrittura”, sono ogni giorno numerosissime in tutto il mondo e vengono effettuate talvolta in modo più grave e plateale (come quando attivisti politici vengono imprigionati affinché non diffondano le proprie idee) e altre volte in modo più tollerabile e sottile (come quando degli algoritmi indirizzano la nostra navigazione verso determinati siti web piuttosto che altri). Questo non accade solo perché la maggior parte di tali violazioni e limitazioni dipende da decisioni prese da persone che non sono lavoratori dell’informazione o perché molti esseri umani – qualunque lavoro facciano – evidentemente mentono spesso, ma anche da numerosi altri motivi che non ho né lo spazio né la competenza per elencare, fra i quali vorrei però che non si dimenticasse quello implicito nell’inciso «purché ciò non danneggi gli altri» collocato alla fine del tentativo di definizione della libertà intellettuale che ho appena azzardato.
Quell’inciso allude al fatto che, in un mondo sempre più complesso, mutevole e “liquido” in cui ciascuno di noi sempre più di rado si riconosce in un sistema di valori unico, stabile e dotato di una gerarchia fra i valori stessi ben riconoscibile, diventa di conseguenza anche sempre più difficile attribuire a un singolo valore o principio, qualunque esso sia, la priorità assoluta su tutti gli altri. Si moltiplicano quindi i casi, in ambito etico, giuridico, professionale, politico ecc. nei quali, prima di prendere una decisione sulla base di un certo principio in cui crediamo, occorre tenere conto anche di altri principi rilevanti. La libertà intellettuale non fa eccezione, e per quanto sia raccomandata dalla deontologia della professione che pratichiamo o sia tutelata dal sistema giuridico del paese in cui viviamo, non sarà mai né possibile né auspicabile che scelte etiche o norme legali vengano dettate esclusivamente da tale principio, senza tenere conto di un quadro più ampio. Ampliare lo sguardo può condurre a qualche compromesso, ma non ampliandolo si può rischiare, paradossalmente, di risultare ancora meno efficaci nell’applicazione concreta del principio stesso, com’è capitato all’IFLA riguardo alla neutralità della rete e può succedere anche in altre situazioni.
La privacy della navigazione fra i siti web di ogni utente della biblioteca va difesa ad ogni costo, anche se c’è chi sospetta che infrangerla potrebbe prevenire un attentato terroristico? La libertà di parola di ogni autore ed editore va protetta anche se le opinioni espresse potrebbero essere viste come un incitamento a commettere dei reati? Stabilire un tetto agli sconti sui libri, favorendo le piccole librerie che non se li possono permettere, aiuta davvero la diffusione della cultura? La proibizione di diffondere documenti che incoraggino l’odio è una elementare norma di civiltà o la scorciatoia per poter censurare le opposizioni politiche? Il negazionismo è deprecabile solo quando riguarda lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale oppure anche se si riferisce a qualsiasi altra vicenda storica o, quanto meno, a qualsiasi altro massacro? La fruizione di documentazione pedopornografica va punita anche quando riguarda fumetti e cartoni animati, per produrre i quali nessun essere vivente ha sofferto?
Sono tutte scelte difficili, per le quali adottare la libertà intellettuale come stella polare è sicuramente necessario, ma purtroppo non sempre sufficiente.