N.1 2021 - Biblioteca, storia, memoria

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La digitalizzazione che non c’è

Nicola Barbuti

Dipartimento di Studi umanistici, Università degli studi di Bari Aldo Moro, nicola.barbuti@uniba.it.

Mauro De Bari

Dipartimento di Studi umanistici, Università degli studi di Bari Aldo Moro, mauro.debari@uniba.it.

Abstract

La pandemia di SARS-CoV-2 ha determinato la deflagrazione delle problematiche e criticità irrisolte connesse con gli scenari della digital transformation. Quotidianamente si sollevano dibattiti sull’impatto del digitale e della digitalizzazione e proclami di creazione del nuovo patrimonio culturale digitale, il digital cultural heritage (DCH). Il topic di un bando Horizon del gennaio 2020 ha chiaramente evidenziato come la digitalizzazione si focalizzi ancora esclusivamente sugli aspetti visuali dei dati, trascurando la cura delle informazioni storiche e culturali che ne rappresentano l’autentica componente culturale. Le presentazioni di recenti progetti digitali realizzati o avviati nel nostro Paese confermano questa constatazione, perseverando nel confondere il valore culturale della creazione digitale con il risultato di offrire agli utenti la visualizzazione online di beni analogici, con investimenti vanificati in una digitalizzazione che, non producendo DCH, di fatto non lascia alcuna traccia di sé.

L’articolo analizza le possibili cause di questa confusione dilagante. Assunto di partenza è la constatazione che l’inesistenza di processi di digitalizzazione generativi di DCH dipende dalla carenza di una adeguata formazione. Infatti, a fronte di oltre un trentennio di consolidati studi e ricerche nei diversi settori delle digital humanities, ancora oggi nei settori dell’educazione e dell’alta formazione non si registra pari attenzione alla necessità di creare una cultura consapevole sui processi di digitalizzazione.

English abstract

The SARS-CoV-2 pandemic has led to the deflagration of unresolved issues related to digital transformation scenarios. Debates on the impact of digital and digitization and proclamations of the creation of the new digital cultural heritage (DCH) are raised daily. The topic of a Horizon 2020 call for proposals (January 2020) clearly highlighted how digitization still focuses exclusively on the visual aspects of data, without care of the historical and cultural information that is their true cultural components. Recent digital projects carried out or launched in our country confirm this assumption, persisting in confusing the cultural value of digital creation with offering users the online visualization of analogue assets, investing in a digitization that, since it does not produce DCH, in fact leaves no trace of itself.

The article analyzes the possible causes of this pervasive confusion, starting by the non-existence of DCH-generating digitization processes depending on the lack of adequate training. In fact, after more than thirty years of consolidated studies and research in the various sectors of the digital humanities, even today in the fields of education and higher education there is no attention to create a cultural awareness of digitization processes.

La digitalizzazione: necessità di un cambiamento di paradigma

La pandemia di SARS-CoV-2 in corso ha determinato la deflagrazione delle problematiche e criticità irrisolte connesse con gli scenari della digital transformation (DT). Quotidianamente si sollevano dibattiti su funzioni e valore del digitale e della digitalizzazione e insistenti proclami di creazione del nuovo patrimonio culturale digitized e born digital definito nell’art. 2 delle Conclusioni del Consiglio d’Europa del 24 maggio 2014 [Consiglio dell’Unione europea, 2014]. Tuttavia, persiste e aumenta sempre più la confusione su cosa si debba intendere esattamente quando si parla di “digitalizzazione”: sebbene già da diversi anni si sia evoluta in processo metodologico e tecnologico, essa è ancora correntemente associata ad attività di mera riproduzione di beni analogici in vari formati digitali, il cui fine dovrebbe essere creare risorse digitali culturali, il digital cultural heritage (DCH) di cui tutti parlano, ma che non si comprende bene cosa sia.

Eppure, il topic del bando Horizon “Curation of digital assets and advanced digitizaton” di gennaio 2020, evidenziando quanto lo stato dell’arte della digitalizzazione sia ancora esclusivamente vincolato agli aspetti visuali degli oggetti digitali, ha ben chiarito in cosa consista la digitalizzazione generativa del nuovo DCH:

So far, digitisation focused mainly on capturing the visual appearance of individual objects, collections or sites. There is a real need to establish a comprehensive picture of the studied assets, capturing and re-creating not only visual and structural information, but also stories and experiences (stored in language data), together with their cultural and socio-historical context, as well as their evolution over time.

Ma proprio l’esigenza di delineare un topic del genere nel 2020 è indicativa del fatto che la digitization è ancora distante dall’essere associata al paradigma di processo generatore di DCH: evidentemente, nonostante l’indiscutibile evoluzione e maturazione della ricerca nelle digital humanities (DH) degli ultimi trent’anni, manca ancora una cultura digitale consapevole.

A conferma della confusione imperante e crescente, valga qui ricordare i recenti progetti di digitalizzazione e creatività digitale realizzati o avviati nel nostro Paese, le cui finalità sono persistentemente ed esclusivamente focalizzate sull’esposizione online di oggetti digitali che riproducono visualmente monumenti, libri antichi, documenti storici, oggetti d’arte, collezioni museali e ogni sorta di entità analogica che abbia una qualche attinenza con il patrimonio. Una tendenza cresciuta in seguito alla prima chiusura imposta dalla pandemia nella primavera del 2020, con numerosi istituti culturali nazionali e territoriali che hanno cercato di ovviare al blocco riversando online un’ingente mole di oggetti e soluzioni digitali di ogni genere vantandole come nuovo DCH [De Bari - Barbuti, 2021], mentre, di fatto, ancora una volta le sole componenti culturali sono i contenuti visuali che ritraggono beni analogici.

Tra l’altro, di queste risorse e soluzioni non è mai dato sapere se e in quale misura attivino o migliorino le interazioni e relazioni tra gli utenti della rete e il patrimonio rappresentato. Certo è che, nella digitalizzazione, manca da sempre e continua a mancare la pur minima attenzione per le componenti descrittive e informative correlate al dato nel suo insieme e non alla sola rappresentazione visuale, sebbene queste siano elementi indispensabili per rendere le risorse digitali intellegibili e storicizzarle in quanto culturalmente valide, come l’Unione europea ha affermato. Ne consegue che poco, se non proprio nulla, del magmatico “blob” digitale che quotidianamente ci sommerge da anni, corrisponde al DCH come definito dall’UE. Dunque, dal momento che si persiste nell’identificare la valenza culturale della digitalizzazione nella produzione di contenuti visuali a tema “beni analogici”, riteniamo si possa dire che essa, pur esistendo come pratica, è ancora oggi ben lontana da qualsivoglia definizione metodologica che la qualifichi come processo creativo di nuovo patrimonio digitale. Rispetto alla trasformazione digitale in atto, questa carenza rappresenta una vera e propria emergenza.

Dall’umanistica computazionale alle digital humanities

Lo stato dell’arte sopra delineato risulta del tutto paradossale, ove si consideri che, fin dagli esordi della “rivoluzione digitale”, molta ricerca è stata focalizzata sull’applicazione ai data humanities delle innovazioni prodotte dai data science. L’umanistica computazionale, poi evolutasi nelle contemporanee digital humanities, non è certamente un ambito scientifico recente, essendo stato inaugurato oltre cinquant’anni fa dall’epica impresa dell’Index Thomisticus realizzato da Padre Roberto Busa dopo trent’anni di ricerche e sperimentazioni. Di fatto, i suoi studi definirono metodologicamente, tecnologicamente e applicativamente i processi di ricerca scientifica che, da quel momento in poi, sarebbero confluiti nella linguistica computazionale.

L’esperienza di Busa è stata apripista per gli altri ambiti delle humanities che, a seguire, si sono impegnate nel confronto scientifico con le sfide dell’informatizzazione e della digitalizzazione. Le numerose esperienze sull’applicazione di metodi e strumenti computazionali hanno generato specifiche evoluzioni della ricerca umanistica: oltre alle scienze biblioteconomiche e dell’informazione, delle quali la digitalizzazione, nelle sue procedure applicative, è parte integrante da oltre vent’anni, si stanno sempre più affermando l’archivistica digitale, l’archeologia digitale, la digital history, l’epistemologia del digitale impegnata nello studio sull’utilizzo dei big data.

Da un decennio circa sono anche attive organizzazioni scientifiche e di ricerca internazionali e nazionali. Valga qui ricordare, per l’Italia, l’Associazione per l’informatica umanistica e la cultura digitale (AIUCD), che nel 2021 festeggia i dieci anni di attività; tra le principali organizzazioni internazionali, l’Alliance of Digital Humanities Associations (ADHO), che riunisce le reti continentali di associazioni umanistiche digitali, tra le quali l’European Association for Digital Humanities (EADH); l’infrastruttura europea Digital Research Infrastructure for Arts and Humanities (DARIAH-EU).

Tuttavia, a questo rilevante sviluppo della ricerca scientifica non ha corrisposto un pari sforzo per programmare un’adeguata formazione che abiliti a digitalizzare per creare, gestire, valutare, tutelare, conservare, valorizzare, comunicare il nuovo DCH. In Italia il sistema dell’alta formazione universitaria fatica a maturare una strategia didattica che affronti in modo strutturato questo pressante bisogno. Il frammentario assetto istituzionale del nostro Paese rende difficile il dialogo e la collaborazione tra i diversi attori che dovrebbero essere coinvolti nel progettare e realizzare questo indispensabile rinnovamento, con il risultato che, a oggi, mancano del tutto figure professionali qualificate e provviste delle adeguate conoscenze e competenze digitali, che siano in grado di affrontare le sfide della trasformazione digitale e di digitalizzare secondo metodi e tecniche ben definite.

Il che, unitamente alla persistente concezione strumentale della digitalizzazione, contribuisce a inficiare qualsiasi ipotetica affermazione dell’esistenza di un DCH: mancando i profili professionali provvisti delle necessarie competenze, di fatto non si comprende in base a quali requisiti esso possa essere qualificato. E questo motiva il perdurare dell’errore di individuarlo nei soli contenuti visuali delle risorse e collezioni digitali che riproducono beni del patrimonio analogico.

Le digital humanities nella prospettiva accademica italiana

Quanto detto sopra si sostanzia in uno dei principali limiti che condizionano l’università italiana: la ridotta capacità di rinnovarsi al passo con l’evolversi delle dimensioni culturali, sociali ed economiche determinate dalla DT.

Negli Stati Uniti, le associazioni disciplinari si preoccupano della valutazione della ricerca condotta con metodologie digitali, e la Stanford University e l’University of California, Los Angeles hanno dipartimenti dedicati. Nel Regno Unito, il King’s College London e l’University College London si propongono come università pilota a livello europeo con i loro dipartimenti dedicati alle DH e al DCH, riconosciuti come strategici per lo sviluppo e l’evoluzione costruttiva delle smart society [Netexplo, 2019, p. 138-139].

Nel nostro Paese, le attività dell’AIUCD, della Fondazione Rinascimento digitale, della Scuola a rete in Digital cultural heritage, arts e humanities (DiCultHer), le iniziative dell’attuale Ministero della Cultura, la recente creazione dell’Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale (Digital library), le decine di progetti di ricerca internazionali nei quali le università e gli enti di ricerca sono stati e sono protagonisti sono tutte realtà che rendono ineludibile la necessità di riconoscere alle DH pieno e indiscusso valore accademico [Ciotti, 2018b].

Invece, nella rigida articolazione accademica italiana le DH sono ancora considerate “ibridazioni”, non collocabili né associabili ad alcuna area scientifica o settore scientifico disciplinare, marginalia ancillari delle tradizionali discipline umanistiche, sebbene ormai da molti anni siano ambito consolidato di studi condotti da centinaia di ricercatori rinvenienti dalle diverse aree disciplinari del sistema nazionale della ricerca, la cui eccellenza e preparazione sono solide, istituzionalmente riconosciute a livello internazionale, documentate scientificamente e bibliograficamente da un catalogo che ben si configura come potenziale riferimento per orientare le linee formative da adottare [Barbuti - Lana - Casarosa, 2020, p. 24].

Non si può continuare a fingere che queste posizioni non rappresentino un vulnus nell’ecosistema della conoscenza del nostro Paese. È ormai improcrastinabile la definizione dei criteri secondo cui la riflessione teorica e scientifica nei domini delle DH e del DCH debba essere tradotta in risultati concreti sul piano accademico e di carriera. Va da sé che dal riconoscimento del pieno valore accademico discende la creazione e attivazione di un adeguato sistema di alta formazione, che sia in grado di affrontare le sfide della DT generando una cultura digitale sostanziata, omogenea, condivisa e quindi sostenibile nel tempo e nello spazio della memoria, capace di ricondurre la digitalizzazione alla sua dimensione attuale di processo in grado di generare il DCH come definito dall’UE.

Competenze digitali in cerca d’autore

La Convenzione di Faro del 2005 ha innescato una profonda opera di rivisitazione del concetto stesso di patrimonio culturale [Consiglio d’Europa, 2005]. Tuttavia, in quel contesto, la digitalizzazione, essendo considerata nella sua unica funzione di strumento per la valorizzazione del patrimonio tangibile e intangibile, rivestiva un ruolo assolutamente marginale ed era anche guardata con circospezione quale potenziale fattore di rischio per l’incolumità dell’analogico. Ratificata nel nostro Paese nel 2020, la convenzione, a suo tempo innovatrice, rischia di diventare oggigiorno un nodo problematico se non ripensata alla luce della DT, in quanto genera un contrasto del tutto anacronistico tra i settori culturali tradizionali e il digitale e la digitalizzazione, proprio nel momento in cui le istanze comunitarie stanno iniziando a considerarli parte integrante del patrimonio culturale.

Secondo Fabio Ciotti, una soluzione efficace al problema della distanza tra innovazione digitale e humanities «non può nascere se non nel campo della formazione, agendo con gli strumenti e le strategie innovative delle DH per strutturare una Catena del Valore Formativo che doti le nuove generazioni della conoscenza non solo delle nuove dimensioni del Patrimonio culturale, ma nel più vasto universo del nuovo DCH» [Ciotti, 2018a; Manacorda, 2017; Barbuti - Ciotti - De Felice, 2019].

Solo quando nella formazione si stabilirà un rapporto paritario e di mutuo scambio tra saperi umanistici e metodi e tecniche computazionali, affrancandosi da una situazione in cui le competenze attualmente attive nella ricerca sulle DH, quantitativamente esigue, sono poco considerate qualitativamente nonostante l’alto profilo della produzione scientifica, si porranno le premesse per generare la necessaria cultura digitale consapevole con cui provvedere le nuove figure professionali, quale quella del digital curator, da impegnare nelle sfide della trasformazione digitale [Tammaro - Madrid, 2013; Leimkuehler, 2020].

Le esperienze didattiche e formative in corso sui processi di digitalizzazione del patrimonio culturale e di creazione di contenuti culturali digitali hanno ben mostrato il ruolo fondamentale che rivestirebbero le DH come settore autonomo transdisciplinare rispetto ai settori tradizionali:

è ormai evidente come le attività di ricerca basate su tali metodi e strumenti digitali abbiano assunto una grande rilevanza in quasi tutti i settori delle scienze umane. Ne è testimonianza la presenza pervasiva di attività che rientrano nel dominio delle Digital Humanities (DH) sia nei progetti di ricerca nazionali sia, anzi soprattutto, in quelli del programma europeo Horizon 2020. O il notevole incremento del numero di centri di ricerca, corsi e insegnamenti, posizioni accademiche di Digital Humanities verificatosi negli Stati Uniti, in Canada, in molti paesi europei (primi tra tutti il Regno Unito, la Germania e la Francia [AIUCD, 2016].

Eppure, per valorizzare una recente installazione digitale sul suo sito web, il Cineca, pur ribadendo l’importanza dell’interdisciplinarità come elemento fondante delle DH, ne fornisce una definizione ancora alquanto semplicistica: «Le Digital Humanities, o Informatica Umanistica, sono una disciplina emergente che affronta temi della ricerca umanistica attraverso nuovi approcci e paradigmi basati su strumenti di ICT (Information Communication Technology)» (Information Communication Technology)».

Desta un certo stupore leggere che le DH sarebbero «una disciplina emergente», considerato il trentennio di ricerche e studi già accumulati sull’innovazione informatica e digitale nei diversi settori umanistici. Sembra quasi di rileggere gli slogan con cui si definivano le scienze computazionali agli albori della rivoluzione digitale, regredendo la portata scientifica che le DH hanno oggi ad approcci e paradigmi «basati su strumenti di ICT», semplicemente evitando di fare riferimento alle metodologie – o metodi – che si sono elaborate e articolate nei diversi ambiti della ricerca scientifica sul digitale, trasversali alle diverse aree e ai settori delle humanities.

Dunque, è evidente quanto sia ancora necessario svolgere molto lavoro nella prospettiva di evolvere questa stasi, radicata anche in quelle che dovrebbero essere le sacche più resilienti e produttive di innovazione reale [Clini - Quattrini, 2020] e che, nonostante gli oltre cinquant’anni di storia, classificano le DH come settore “emergente” e di difficile identificazione. Presupposto indispensabile dovrebbe essere, secondo noi, strutturare una “catena del valore formativo” agendo innanzitutto su obsoleti e anacronistici ostruzionismi che, in nome di un’astratta tradizione sbandierata quale unico vessillo di autentica conoscenza, considerano il digitale e i processi da esso derivati come meri strumenti di condivisione social, o come elemento di semplificazione della routine giornaliera, o, ancora peggio, come strumento per fruire di un ipotetico patrimonio, di fatto inesistente se non nell’immaginario di chi digitalizza. E, piuttosto che la fruizione fine a se stessa, si dovrebbe privilegiare l’“interazione”, avendo ben presente che le risorse digitali “possono” e “devono” diventare beni culturali e futuro retaggio del contemporaneo [Barbuti, 2016].

È, questa, una sfida complessa, da affrontare ripensando e riprogrammando metodi e tecniche della formazione e riconoscendo le DH quale ambito necessario alla costruzione nelle nuove generazioni di conoscenze e competenze digitali ben strutturate, che le abilitino a riconoscere e validare nei processi di digitalizzazione e di creazione digitale [Chun et al., 2016], ancorché nelle risorse digitali prodotte, le funzioni di memoria e di fonte di conoscenza della società contemporanea da conservare, tutelare e valorizzare nel futuro.

Formare per arginare la de-formazione

Per sostanziare a quanto argomentato, è sufficiente analizzare sinteticamente l’offerta didattica del sistema universitario nazionale. Attualmente, in Italia sono attive 96 università, di cui 11 telematiche. La sezione Didattica del sito web dell’AIUCD riporta l’elenco dei corsi e degli insegnamenti nei settori delle DH attualmente attivi. Come si può notare dal grafico seguente, in relazione al numero di atenei le percentuali sono decisamente basse (Figura 1).

Fig. 1 Iniziative formative in DH attive nelle università italiana

Estraendo i dati relativi alle sole lauree triennali e magistrali e ai dottorati di ricerca, il numero crolla a 15 corsi attivi su 96 atenei, di cui uno (Bari) è un’interclasse LM5 (Archivistica e biblioteconomia) – LM43 (Metodologie informatiche per le discipline umanistiche) in attivazione per l’a.a. 2021-2022 (Figura 2), attualmente prima esperienza del genere nel panorama nazionale dell’alta formazione.

Fig. 2: Corsi di laurea triennale, magistrale e di dottorato di ricerca 

Corsi di studio e scuole di informatica umanistica/digital humanities attualmente attivi in Italia

Laurea triennale Laurea magistrale Dottorato di ricerca
Università di Pisa Informatica umanistica Informatica umanistica
Università di Trento Interfacce e tecnologie della comunicazione
Università di Verona Lingue e letterature per l’editoria e i media digitali
Alma mater studiorum Università degli studi di Bologna

Digital humanities and digital knowledge (DHDK) (internazionale)

Geomatic engineering for cultural heritage

Università della Calabria Gestione e conservazione dei documenti digitali
Università degli studi di Genova Digital humanities: comunicazione e nuovi media
Università del Salento European heritage, digital media and the information society
Università Ca’ Foscari di Venezia Digital and public humanities (internazionale)
Università degli studi “G. D’Annunzio” di Chieti Informatica umanistica
Università degli studi di Catania Scienze del testo per le professioni digitali
Università degli studi di Bari Aldo Moro Patrimonio digitale: musei, archivi, biblioteche

Università degli studi di Genova
Università degli studi di Torino

Digital humanities: tecnologie digitali, arti, lingue, culture e comunicazione
Università degli studi di Macerata Humanism and technologies

(Fonte: AIUCD)

Il panorama europeo non è molto distante dalla situazione italiana. Recentemente, l’UE ha creato un registro nell’ambito del programma Lifelearning [Pavese, 2014], dal quale risultano esistere 2.673 università di 36 Paesi europei (28 facenti parti dell’UE e 8 extra-UE). A fronte di questa cifra, il Digital humanities course registry riporta un totale di 213 corsi attivi in Europa nel settore delle DH, quindi meno del 10% del totale. Un dato da valutare anche tenendo conto del fatto che ci sono Paesi che registrano alta densità di corsi o insegnamenti di DH (ad esempio Francia, Germania, Regno Unito) e altri del tutto sprovvisti.

Nondimeno, nell’ambito della classifica stilata dalla Digital Economic and Society Index [European Commission, 2020] della Commissione europea tenendo conto della diffusione di competenze digitali e dell’utilizzo di internet tra i cittadini UE, l’Italia si colloca all’ultimo posto [Assolombarda, 2020]. E questo conferma quanto i dati sopra riportati rappresentino pienamente il riflesso della situazione di arretratezza digitale che la pandemia ha fatto letteralmente esplodere, rendendola non più sostenibile.

Già prima del Covid-19, diversi enti di formazione privati hanno provato a occupare lo spazio lasciato libero dal sistema nazionale dell’istruzione e dell’alta formazione, lanciando corsi le cui ricadute, in termini di professionalizzazione, sono evidenti: nessun miglioramento, niente profili professionali provvisti almeno delle minime competenze digitali necessarie a confrontarsi con le sfide in corso. Anzi: si stanno de-formando le già scarse competenze di quanti li frequentano nutrendo aspettative di crescita culturale, proponendo iniziative mirate a formare – per citare una tra le figure professionali più fantasiose – i “catalogatori digitali”, profilo per il quale ancora oggi ci si interroga su quale sia la sostanza cognitiva e culturale che lo caratterizzerebbe.

Finalmente, da qualche tempo nelle università del nostro Paese si stanno attivando anche iniziative di respiro internazionale, con sperimentazioni di percorsi formativi portati a livello europeo. In tale direzione sta operando il consorzio internazionale impegnato nel progetto Erasmus+ KA2 BIBLIO, coordinato dal Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli studi di Bari Aldo Moro, del quale fanno parte partner europei di eccellenza nei settori LIS, tra cui l’ICCU e la rete europea Public Libraries 2030. Obiettivo del progetto è realizzare percorsi formativi destinati a produrre figure innovative di digital librarian conformi agli standard europei EQF5, nella prospettiva di creare le prime professionalità specificamente provviste delle competenze necessarie per affrontare le sfide della trasformazione digitale. Sebbene il tema delle digital library sia argomento di ricerca dibattuto dalla fine degli anni Novanta, dovrebbe far riflettere che solo oggi sia stato intrapreso un progetto pilota finalizzato a formare operatori di biblioteca dotati di competenze digitali consapevoli.

Nella fase iniziale del progetto è stata eseguita una ricognizione sulle professionalità digitali presenti nei sistemi bibliotecari dei Paesi partner e di altri Paesi UE e sui bisogni formativi ancora insoddisfatti. L’analisi dei dati rilevati ha prodotto un corposo report di 180 pagine circa, dal quale sono emerse la scarsa presenza e disponibilità di personale digitalmente competente e la necessità di formare «competenze comunicative di impegno nella comunità, e competenze digitali per il lavoro». Tenendo conto delle indicazioni fornite relativamente alle professionalità ritenute necessarie sono stati delineati i due seguenti profili, posizionabili a un livello intermedio rispetto alle aree DigComp 2.1  [Carrethero - Vuoricari - Punie, 2017]:

  • community engagement and communication officer (CECO);
  • digital transformation facilitator (DIGY).

Nelle biblioteche dell’immediato futuro, il CECO avrà un ruolo teso alla comunicazione e alla facilitazione della comunità, offrendo un know-how trasversale rispetto alle convenzioni attuali; il DIGY, invece, avrà le competenze necessarie a una gestione consapevole dei processi di digitalizzazione, indispensabili a innovare l’interazione tra i sistemi bibliotecari e le diverse comunità di utenti che ne fruiscono.

In questo modo, i digital librarian in uscita dalle attività formative avranno una collocazione facilitata nei contesti della gestione biblioteconomica digitale, in quanto mediatori privilegiati tra le nuove vocazioni comunicative e formative delle biblioteche e i bisogni cognitivi e informativi, sempre più complessi, delle differenti community di utenti, con un’attenzione particolare ai giovani.

Allo stato attuale, si sta ultimando la fase di costruzione dei moduli didattici, che avranno inizio a decorrere da settembre 2021 e coinvolgeranno sia operatori già impegnati nelle istituzioni bibliotecarie europee che intendono arricchire il proprio know-how con competenze digitali, sia quanti ritengono necessario acquisire conoscenze che, a oggi, sono quanto mai necessarie per proporsi nei nuovi scenari occupazionali che ovunque si stanno aprendo.

Alcuni conclusivi spunti di riflessione

La distanza dell’Italia dalla disseminazione capillare di una cultura digitale consapevole si configura come un dato estremamente allarmante. Il gap determinato dal digital divide si è manifestato in tutta la sua evidenza nell’ultimo anno, e non accenna a diminuire. Le istituzioni culturali si affrettano a esporre “digitalmente” materiali che, nella quasi totalità, risultano surroghe neanche molto attrattive delle visite-fruizioni in presenza.

Se questo tipo di offerta poteva essere accettabile – ma neanche tanto – in seguito alla prima chiusura coattiva determinata dall’emergenza sanitaria, oggi, in scenari che si sono ulteriormente complicati per il perdurare della pandemia, inondare la rete con proposte e soluzioni quasi sempre frutto di frettolose e malfatte digitalizzazioni a basso costo non è più accettabile. Tanto più che i dati relativi alla fruizione degli utenti ne evidenziano lo scarso impatto.

Opportune politiche di sistema e adeguati investimenti su processi di digitalizzazione correttamente eseguiti e sulla valorizzazione delle risorse digitali, invece, garantirebbero l’attivazione dell’interesse degli utenti che, sebbene impediti a spostarsi fisicamente, avrebbero la possibilità di interagire con le installazioni “n” volte, vivendo esperienze culturali non meno dense di emozioni e di apporti cognitivi.

Infatti, come recentemente ha affermato l’esperto in DH Jeffrey Schnapp, bisognerebbe scardinare le più consolidate convinzioni che persistono nel «pensare il museo come un luogo di deposito e pellegrinaggio» e «pensare il museo invece come una piattaforma o un hub nel quale le esperienze in presenza, e non, vengono fornite in forme e formati diversi, convergenti e divergenti. Ossia, il museo come tessuto di connessioni e non solo di collezioni» [Colombo, 2021]. Riteniamo che queste istanze siano valide per l’intero ecosistema culturale, non solo per i musei.

A voler assumere per buono il profluvio di proclami delle istituzioni culturali del nostro Paese, saremmo letteralmente sommersi da uno “tsunami” di patrimonio culturale digitale. La rete viene quasi quotidianamente occupata da annunci su nuovi virtual tour, sulla realtà aumentata, sulla realtà virtuale, su archivi e biblioteche digitali, e su un’impressionante massa critica di dati, in assoluta maggioranza esito di digitalizzazioni eseguite senza alcun rispetto per norme, linee guida e standard, viene rivenduta come innovazione quasi di frontiera. Dopo anni di ricerche e studi che hanno prodotto risultati di tutto riguardo, sentir definire “soluzione digitale culturale” video in cui si racconta la mostra del museo o si espongono repliche virtuali di libri, biblioteche o collezioni museali non è più tollerabile. Soprattutto in un’epoca in cui il digitale e la digitalizzazione – intesi come insieme di metodologie e tecnologie sapientemente utilizzate in processi creativi – offrono possibilità pressoché illimitate.

Le istituzioni culturali italiane devono affrontare con una certa celerità e, nel contempo, con crescente consapevolezza il tema del rinnovamento del proprio ruolo di riferimenti culturali per le comunità [Bonacini, 2012]. Quando si parla di “tour virtuale”, si devono rispettare i parametri ben definiti dei processi di digitization intesa concettualmente e applicativamente nel significato anglofono dell’insieme di attività generative di risorse digitali culturali [Bloomberg, 2018]. Riproporre la staticità dell’analogico in rassegne virtuali poco o nulla interattive non è la risposta adeguata ai nuovi bisogni cognitivi delle comunità contemporanee: la tradizione culturale è senza dubbio il fondamento della conoscenza che conduce alla scoperta delle identità, ma la digitalizzazione deve educare le diverse comunità di utenti a interagire con soluzioni digitali che intercettino i loro bisogni informativi e cognitivi non solo sui contenuti visuali delle risorse, ma anche sulla narrazione dei dati.

Riferimenti di buone pratiche non mancano: valga qui ricordare i progetti pilota realizzati dal Victorian & Albert Museum di Londra, da quasi trent’anni impegnato nella sperimentazione di processi di digitalizzazione e di creazione digitale intesi come integrazione di ricerca, formazione e innovazione. O il progetto che il Dipartiment di Studi umanistici dell’Università degli studi di Bari Aldo Moro ha in corso in collaborazione con il Liceo “G. De Sanctis” di Trani, nel quale si sta sperimentando un approccio innovativo alla biblioteca scolastica basato sul concetto di expanded endless library (ExELib), la cui sostanza è la creazione di collezioni di expanded endless book (ExEBook): un nuovo modello di libro cartaceo pensato per riavvicinare i giovani alla lettura [Solimine, 2021], nel quale la dimensione analogica e quella virtuale si integrano grazie a espansioni digitali connesse con le pagine del libro e fruibili tramite applicazione su dispositivi mobili, che arricchiscono l’interazione e l’esperienza cognitiva dei lettori.

Simili iniziative, però, continuano a essere “di nicchia” negli ecosistemi culturale e formativo del nostro Paese, nei quali permane la difficoltà di progettare e realizzare azioni di sistema in grado di generare approcci simili a quello del V&A o della sperimentazione tranese, o del progetto formativo BIBLIO prima descritto. Nondimeno, le ricadute che il Covid-19 sta generando rendono urgente agire in modo proattivo, per elaborare, se non nel breve, almeno nel medio termine soluzioni lungimiranti e competitive.

In questo, ribadiamo che la formazione riveste un ruolo di primo livello nella prospettiva di consentire a quanti decidono di studiare, specializzarsi e lavorare nei settori delle DH e del DCH di poter competere e rispondere positivamente alle sfide della DT in corso. È necessaria, però, un’evoluzione di pensiero e di approcci che ci porti a considerare l’innovazione quale meta-dimensione, da cui derivare le dimensioni applicative dei processi di digitalizzazione e di creazione digitale. Urge, perciò, dare soluzione al problema di sostanziare culturalmente una realtà di cui tutti parlano, ma che concretamente permane in un limbo di consapevolezza mancata. Per dare corpo e materializzare, finalmente, la digitalizzazione che, ancora, non c’è.