Il reference invisibile. La “fotografia sociale” come traccia per la storia delle biblioteche
Dipartimento di Scienze documentarie, linguistico-filologiche e geografiche, Sapienza Università di Roma; chiara.faggiolani@uniroma1.it
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 27 aprile 2017.
Abstract
L’articolo presenta i presupposti e la metodologia di uno studio che, secondo un approccio fenomenologico, mira a raccontare la funzione sociale delle biblioteche in Italia attraverso le “tracce” lasciate dalle immagini fotografiche. In particolare qui l’oggetto della ricerca e della riflessione è il reference service. Il primo paragrafo è dedicato a esplicitare cosa si intende in questo studio per “fotografia sociale”, utilizzata come “traccia”, ovvero come elemento che registra, diagnostica e informa sulla presenza. Il secondo paragrafo delinea un identikit del reference service a partire dalla puntualità della definizione di Shiyali R. Ranganathan e dall’incertezza semantica che questa espressione assume nel nostro paese. Incertezza dovuta all’assenza di una traduzione nella nostra lingua che richiami immediatamente del reference la natura di servizio essenziale della biblioteca e che è strettamente legata alla storia che questo servizio ha avuto nel nostro paese. Il terzo paragrafo propone un viaggio, veloce e intermittente, attraverso alcuni dei più prestigiosi archivi fotografici “generalisti” italiani, attraverso alcune delle principali riviste del nostro settore e attraverso la rete (i social network site in particolare) per osservare la rappresentazione del servizio di reference in Italia.
English abstract
This paper presents the theoretical framework and the methodology of a study that – according to a phenomenological approach – aims to describe the social function of libraries in Italy, through the “traces” left by photographs. In this case, the reflection focuses on reference service. First paragraph explains the meaning of “social photography”, used as “trace”: an element that records, diagnoses and informs of presence of something. Second paragraph describes a reference service’s identikit starting from Ranganathan’s definition of reference service and the semantic uncertainty that this expression assumes in our country. This uncertainty is due to the lack of a translation in our language that immediately refers to the nature of the essential library service. This is closely related to the history of reference service in Italy. Finally, third paragraph offers a journey through some of the most prestigious Italian photographic archives, through some of the major journals in our scientific field and across the web to observe the reference service’s representation in Italy.
Premessa: uno studio nello studio
L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia è una grande opera edita da Einaudi tra il 2005 e il 2006 in tre importanti volumi che rivisita l’ultimo secolo di storia italiana attraverso le immagini fotografiche. Al contrario di ciò che accade tradizionalmente, qui le fotografie non hanno un ruolo ancillare rispetto ai testi, ma parlano al loro posto, divenendo la principale fonte ispiratrice del discorso storico. «Di solito non è così – ricorda lo storico Giovanni De Luna nella Prefazione all’opera – Le fotografie sono chiamate a “illustrare” un discorso storico già impostato sulle fonti scritte, nel tentativo di renderlo gradevole, emotivamente più coinvolgente. […] Non è una collaborazione facile né ingenua [quella tra immagine e testo scritto]. C’è nelle fotografie una sorta di “tempo congelato” sul quale si sono tradizionalmente appuntate le maggiori critiche alla sua capacità di restituirci un racconto storico efficace».
Qualche riga dopo De Luna ci ricorda che tre sono le funzioni che la fotografia può assolvere rispetto alla storia:
- agente di storia;
- fonte per la conoscenza storica;
- strumento per raccontare la storia.
E rispetto a quest’ultimo punto sottolinea come non solo la fotografia sia capace di collegare il “prima” rispetto al “dopo”, ma riesca anche ad avvicinarsi a “quello che c’è sotto”: «veramente così la fotografia sembra in grado di raccontare la storia “latente”, tutto quello che gli esseri umani provano, senza sapere che i loro dolori, il loro lavoro e il loro riposo “sono storia”». La fotografia esibisce la realtà nascondendo se stessa: nel riprodurre infinite volte un solo istante di vita, «si sottrae», si fa da parte e, scomparendo, mostra al suo interlocutore non se stessa ma l’oggetto che raffigura.
La disponibilità di smartphone con la fotocamera incorporata, la facilità con cui realizziamo fotografie e le condividiamo sta radicalmente trasformando il contenuto, la forma e soprattutto l’impatto delle immagini fotografiche. Viviamo nell’epoca «dell’immagine del mondo» caratterizzata da:
- una esplosione della comunicazione visiva – 100 milioni di foto al giorno su Facebook;
- una rinnovata riflessione sulla costruzione dell’identità – siamo definiti e rafforzati dalle fotografie che ci ritraggono o che scattiamo del mondo;
- una evidente urgenza di politiche di conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio fotografico e multimediale;
- una nuova consapevolezza sul fondamentale ruolo che esso potrà svolgere in futuro per la documentazione storica.
È in questo contesto di riscoperta e valorizzazione che si collocano le pagine che seguono. Si tratta di una prima esposizione degli intenti e delle premesse teoriche e metodologiche di uno studio di più ampio respiro che – come il titolo promette – mira a ricostruire la “storia della biblioteca” in Italia attraverso le “tracce” lasciate dalla “fotografia sociale”, secondo un approccio fenomenologico. Questo si traduce nella volontà di studiare il “fenomeno” biblioteca per come appare e non il suo “noumeno”, ovvero il nucleo astratto e oggettivo delle cose, che resta quasi sempre inafferrabile.
Approccio fenomenologico – con riferimento a Husserl – prima di tutto vuol dire “sospensione del giudizio” (ἐποχή): l’obiettivo dello studio, dunque, non è chiedere alla realtà riprodotta dalle immagini fotografiche una conferma di un certo modello teorico di biblioteca, ma partire dai fenomeni rappresentati per risalire alla costruzione sociale del modello.
Questo tipo di prospettiva richiede in prima battuta la costruzione di un corpus di immagini fotografiche da sottoporre ad analisi, che si definisce strada facendo secondo un disegno di ricerca che non facciamo fatica a definire “emergente”, proprio perché non ci sono ipotesi di partenza.
La progressiva costruzione del corpus (tuttora in fieri) ha determinato – sta determinando – l’individuazione di “tipi ideali” di immagini, da intendersi come astrazioni che nascono dalla rilevazione empirica di uniformità. Tra questi tipi è emersa, in modo abbastanza nitido, l’assenza della manifestazione visiva del servizio di reference. Fatto che naturalmente non stupisce: sono note, infatti, le relazioni e le divergenze tra tradizione angloamericana e tradizione italiana e, dunque, la tensione tra “servizio di reference” e “sala di consultazione” (riservata a pochi).
Da qui parte lo studio dell’immagine del reference service che si presenta in queste pagine e che è da considerarsi una parentesi chiusa all’interno della più ampia ricerca sopra descritta: uno studio nello studio, animato da una logica differente ma funzionale ad assaggiare la materia fotografica e cominciare a definirne le criticità metodologiche.
Le tante virgolette sopra utilizzate esprimono la consapevolezza dell’utilizzo di termini profondamente densi e ambigui che richiedono una esplicitazione. Il secondo paragrafo sarà dedicato a esplicitare cosa si intende in questo studio per “fotografia sociale”, utilizzata come “traccia”, ovvero come elemento che registra, diagnostica e informa sulla presenza. Il terzo paragrafo delinea un identikit del reference service a partire dalla puntualità della definizione di Shiyali R. Ranganathan e dall’incertezza semantica che questa espressione assume nel nostro paese. Incertezza dovuta, come si dirà, all’assenza di una traduzione nella nostra lingua che ne richiami immediatamente la natura di servizio essenziale della biblioteca e che emerge dalla storia che questo servizio ha avuto nel nostro paese e di cui ho cercato una traccia nelle fotografie. Il quarto paragrafo propone un viaggio, veloce e intermittente, attraverso alcuni dei più prestigiosi archivi fotografici “generalisti” italiani, attraverso alcune delle principali riviste del nostro settore e attraverso la rete per osservare la rappresentazione del servizio di reference in Italia.
Si precisa che questo breve viaggio conserva solo il sapore di un assaggio, frutto di una indagine che non vuole essere esaustiva e sistematica, obiettivo della ricerca più ampia in cui questo piccolo studio (nello studio) si colloca.
La fotografia sociale come traccia per la storia della vita quotidiana
L’immagine fotografica è una traccia per raccontare la storia (del quotidiano). In questa espressione sono contenuti mondi che non posso non richiamare – almeno sommariamente – come riferimenti imprescindibili per lo studio che sto presentando. A differenza delle immagini pittoriche, prodotte a mano attraverso un lungo percorso di costruzione, le immagini fotografiche per la loro stessa natura tecnica sono «il risultato di una impressione meccanica della luce sull’emulsione fotosensibile. Sull’emulsione, lastra o pellicola che sia, rimane la traccia di qualcosa che nel mondo è stato presente». Questa è la sua magia e la sua complicazione insieme. Per questa sua capacità di essere «materia dell’espressione» la fotografia ha un profondo significato culturale e una ubiquità che la rende potenzialmente rilevante in tutte le discipline, sempre immediata e indiscutibilmente affascinante.
Obiettivo di questo paragrafo è spiegare sinteticamente il significato attribuito all’espressione in apertura: l’immagine fotografica è una traccia per raccontare la storia del quotidiano.
Dichiaro subito che per farlo in modo rispettoso dello spazio a disposizione – uno spazio che si vuole dedicare essenzialmente alle immagini – ho scelto di osservare il problema attraverso la lente interpretativa che viene fornita da due studiosi che in modo diverso si sono occupati di questo oggetto teorico-pratico: Susan Sontag per quanto riguarda la fotografia sociale come traccia; Peter Burke per quanto riguarda il significato storico delle immagini e, dunque, l’uso che se ne può fare per raccontare la storia del quotidiano. Tralascio in questa sede un ultimo fondamentale contributo, che sarà centrale nell’ambito dello studio più generale in cui questa piccola riflessione sul reference si inserisce, che è quello di Roland Barthes e in generale degli studi semiotici in relazione all’interpretazione della significazione dell’immagine fotografica, da intendersi non come segno ma come testo.
La fotografia come traccia in Susan Sontag
Per chi si accosta alla riflessione intorno al fenomeno della fotografia, volendone intuire l’anima per poterla rispettare e farne l’uso più appropriato nella ricerca, il lavoro di Susan Sontag è un classico imprescindibile. Pubblicato nel 1973, esso nasce come raccolta di una serie di saggi dapprima pubblicati – in una forma leggermente diversa, specifica l’Autrice – su «The New York review of books» a partire dalla riflessione su alcuni problemi, estetici e morali, suscitati dall’eccessiva proliferazione delle immagini fotografiche:
L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare. […] Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini.
Nelle fotografie – nell’atto fotografico – è insita una qualità predatoria: esse sono «esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo». Consapevolezza dell’altro – l’oggetto/la persona/la situazione che si fotografa – che si coglie in un modo quasi violento e che rimanda allo statuto ontologico delle immagini fotografiche. Queste si collocano su un piano completamente diverso da quello delle immagini pittoriche, che sono interpretazioni del mondo fatte a mano. Le fotografie il mondo lo rubano e lo fanno proprio:
Queste immagini riescono a usurpare la realtà perché, prima di tutto, una fotografia non è soltanto un’immagine (come lo è un quadro), un’interpretazione del reale; è anche un’impronta, una cosa riprodotta direttamente dal reale, come l’orma di un piede o una maschera mortuaria. Mentre un quadro, anche se rispetta i criteri fotografici della rassomiglianza, non fa mai nulla di più che enunciare una interpretazione, una fotografia non fa mai niente di meno che registrare un’emanazione (onde luminose riflesse da oggetti), un’orma materiale del suo soggetto, come un quadro non è mai in grado di fare.
L’immagine fotografica è una diretta manifestazione del reale che viene impressa su una superficie materiale: «la fotografia non mente perché è la luce che l’ha scritta sulla lastra fotografica». Ecco perché la fotografia è una traccia. Così come fa l’orma di un piede rispetto a colui che la lascia, la fotografia registra, diagnostica e informa sulla presenza e informa sull’identità. Questo lascerebbe supporre la necessità di una interpretazione della fotografia come “indice”, ovvero un segno che intrattiene con il suo oggetto di riferimento una relazione di connessione fisica e che pertanto può assumere un significato univoco. Non è così. La stessa Sontag ricorda che «le intenzioni del fotografo non determinano il significato della fotografia, che avrà vita propria, sostenuta dalle fantasie e dalle convinzioni delle varie comunità che se ne serviranno».
Le fotografie non hanno mai un significato univoco: scattate per un certo motivo vengono utilizzate per tutt’altro. Ogni immagine fotografica è passibile di sguardi diversi: quello del fotografo che ha scelto la traccia da immortalare, quello del committente che ha definito lo sguardo da adottare, quello dell’oggetto fotografato e infine quello di chi nel tempo fruisce delle immagini stesse e le utilizza rispetto a un proprio specifico obiettivo.
Peter Burke e la fotografia (sociale) per la storia del quotidiano
A partire dalla nozione di traccia di ciò che è stato presente nella realtà, Sontag ci insegna che «tutto ciò che la macchina fotografica registra è una rivelazione». Da qui la riflessione si sposta sulla possibilità di utilizzare i repertori fotografici, al pari degli archivi di documenti scritti, come fonte storica. Come abbiamo visto in apertura, ricordando le parole di Giovanni De Luna, il tema è molto complesso e ad esso è stata dedicata soprattutto negli ultimi quindici anni grande attenzione. Qui mi limiterò a richiamare alcuni concetti fondamentali già ben noti a chi si occupa di ricerca fotostorica.
Le immagini fotografiche, come anticipato, sono state quasi sempre utilizzate dagli storici per “illustrare” una narrazione basata il più delle volte sull’unicità del documento scritto: «va constatato – ricordava Adolfo Mignemi nel 2000 – che nessuno storico ritiene indispensabile riporre nella propria cassetta degli attrezzi le competenze e gli strumenti utili all’analisi critica delle nuove fonti, analogamente a quanto viene fatto per le cosiddette fonti tradizionali». Stessa carenza viene sottolineata da Peter Burke:
In confronto agli storici che lavorano su archivi di documenti scritti o dattiloscritti, quelli che operano su repertori fotografici sono relativamente pochi. Relativamente pochi sono anche i periodici di argomento storico che includono un apparato iconografico; e quando ciò avviene, relativamente pochi sono gli autori che mettono a frutto l’opportunità che viene loro offerta. Quando ricorrono alle immagini, infatti, gli storici tendono ad adoperarle come semplici illustrazioni, inserite nel libro senza alcun commento; e anche nel caso in cui se ne occupano nel testo, questo genere di “prove” sovente sono impiegate per illustrare le conclusioni cui l’autore è giunto già per altre vie, e non propriamente per fornire nuove risposte o per porsi nuovi interrogativi.
Solo di recente, un nuovo approccio ha riconosciuto alla fotografia lo statuto di fonte storica o di agente di storia. Lavorando con le immagini fotografiche si avverte nitida la sensazione che esse ci offrono il pretesto per raccontar storie: il loro potere in tal senso è efficacemente espresso da Peter Burke quando dice che le immagini fotografiche «ci consentono di immaginare il passato in maniera più vivida o, […] il nostro porci davanti a un’immagine ci mette “davanti alla storia”». Per il ricercatore/storico lavorare con le immagini pone non pochi problemi. Questi sono legati essenzialmente al fatto che la traccia – la rivelazione del mondo – è frutto sì di una impressione meccanica ma è anche figlia di una scelta soggettiva, quella del fotografo che definisce la porzione di mondo da riprodurre – attraverso le sue modalità: un certo taglio, una inquadratura, una determinata luminosità e contrasto – e che a sua volta risente per esempio dell’influenza dei differenti stereotipi visivi che caratterizzano le società, i periodi storici, le culture. Ciò è particolarmente vero per quella tipologia di immagine fotografica che possiamo definire “sociale” e che si pone come oggetto ideale della storia del quotidiano, a cui studiosi come Philippe Ariès, Michel Vovelle, Jacques Le Goff hanno dato un contributo decisivo, individuando come fondamentale oggetto di studio le relazioni sociali e le diverse culture anche attraverso modelli di rappresentazione visiva. Strettamente collegato a questo è lo sviluppo della public history, ovvero della storia considerata nella sua più ampia accezione finalizzata alla valorizzazione della memoria sociale e rivolta ai pubblici più diversi anche attraverso l’uso intensivo dei mezzi di comunicazione. In questo ambito ovviamente la fotografia gioca un ruolo decisivo e centrale.
Per un identikit del reference service
Il lavoro di ricerca finalizzato alla costruzione del corpus di fotografie, cui si è accennato in apertura, mi ha dato l’opportunità di cominciare a definire dei “tipi ideali”, non da intendersi come ipotesi predefinite ma al contrario come astrazioni che nascono dalla rilevazione empirica di uniformità. Tra i tipi ideali di immagini fotografiche che rappresentano la biblioteca in Italia è emersa l’assenza della manifestazione visiva del servizio di reference. Da qui è nata l’idea di distaccarsi dall’approccio fenomenologico sopra descritto e di andare in cerca di tracce.
Se intendiamo la fotografia come traccia e la traccia come “indice”, quel particolare tipo di segno, di cui si è detto sopra, che permette di “inferire” l’oggetto o il processo che rappresenta, la prima domanda alla quale rispondere è “di quali tracce sto andando in cerca?” Per farlo è necessario definire quali sono gli elementi fondamentali del servizio di reference, tali da permettermi di poter seguire una pista e di rendermi capace di valutare quando di fronte a una fotografia sono in presenza di una traccia oppure no.
In questo paragrafo definisco, dunque, un identikit del reference ovvero riproduco una immagine ipotetica di questo oggetto a partire dall’interpretazione verbale di una presunta esperienza percettiva. Esperienza che per gli studiosi di biblioteconomia passa soprattutto attraverso la teoria illustrata nella letteratura scientifica a esso dedicata: le opere di Ranganathan e Reference Service in particolare.
Carlo Bianchini nell’Introduzione all’edizione italiana dell’opera non può fare a meno di dedicare un paragrafo alle due immagini del reference alle quali lo studioso indiano ha demandato il compito di sintetizzare il cuore del servizio: la prima illustra il reference quale nodo centrale dell’organizzazione della biblioteca come sistema; la seconda (Fig. 1) ne mette in evidenza il senso, restituisce l’idea del reference come fine ultimo della biblioteca istituto culturale della società. Reference, dunque, come «vero lavoro del bibliotecario».
Il nostro identikit parte da queste due immagini che esplicitano la definizione che ne dà lo stesso Ranganathan come di servizio personalizzato che stabilisce il contatto tra il lettore e tutti i documenti che verosimilmente gli possono essere utili. A tal fine deve esserci un’intensa empatia tra il bibliotecario e il lettore: «dal primo momento in cui il lettore chiede aiuto all’ultimo momento in cui ottiene tutti i suoi documenti, il bibliotecario sarà tenuto a provvedere personalmente alle necessità del lettore: è per questo che il servizio di reference è essenzialmente un servizio personale». Per conoscere un oggetto reale nella sua totalità, abbiamo sempre la tendenza a operare cominciando dalle sue parti; proviamo, dunque, a scomporre questa definizione che chiama in causa una triade: bibliotecario-lettore-collezioni. Perché ci sia reference abbiamo bisogno di un “utente”, che deve superare una “assenza” – un vuoto cognitivo – attraverso un tramite con la “biblioteca” (con la sua organizzazione, i suoi servizi, le sue collezioni ecc.): il “bibliotecario”. La Fig. 2 di seguito somiglia molto all’identikit appena delineato: una delle pochissime immagini “complete” che rappresentano il servizio di reference che ho trovato nel mio percorso di ricerca di cui renderò meglio conto nel paragrafo successivo. Probabilmente non è un caso che la fotografia sia stata scattata negli anni Settanta del secolo scorso e in America: momento in cui si assiste a uno spostamento da un visione della biblioteconomia basata sulla centralità della biblioteca a una visione basata sulla centralità dell’utente, che ha generato l’incremento dei tradizionali servizi di informazione al pubblico.
Rispetto al nostro identikit, osserviamo come un elemento non esplicitato ma che appare centrale nell’immagine sia rappresentato dal bancone – il desk – che separa il bibliotecario dall’utente definendo in modo chiaro i diversi “ruoli attanziali”, come si direbbe secondo un approccio semiotico generativo: chi cerca (“voler fare”) e chi risponde (“saper fare”). E infatti, la maggior parte delle immagini trovate, ad esempio nei profili delle biblioteche sui social network attraverso l’uso di una stringa di ricerca che contiene al suo interno la parola “reference”, rappresenta situazioni molto simili a quelle delle Fig. 3-4 dove manca sempre, almeno apparentemente, uno dei protagonisti di questo rapporto – quasi sempre l’utente – e dove invece il bancone è sempre presente in un contesto evidentemente di biblioteca. Almeno apparentemente perché, tornando alla Fig. 4, possiamo immaginare l’utente all’altro capo del telefono (poi sostituito dal computer, come in Fig. 5). Questo introduce ovviamente una questione importante che meriterebbe di essere approfondita circa la natura evolutiva di questo servizio, che al pari o forse più di altri, si è trasformato rispetto all’entrata in scena delle nuove tecnologie modificando le proprie modalità.
Tornando alla Fig. 2 e continuando a fare riferimento a Ranganathan, ciò di cui non possiamo essere sicuri e che possiamo soltanto supporre, attraverso l’osservazione di una serie di dettagli, sono le diverse modalità di gestione del servizio di reference che corrispondono anche alle diverse tipologie di utenti/lettori:
- il principiante avrà bisogno essenzialmente di istruzioni;
- il lettore generico di un aiuto;
- il ricercatore ordinario o generale necessiterà di un servizio di reference immediato;
- lo studioso di un servizio di reference ad ampio raggio.
Questa visione iconografica del servizio corrisponde anche a una visione ideologica che non trova, come noto, un corrispettivo nella storia delle biblioteche in Italia. Nel 1939 – più o meno negli stessi anni in cui Ranganathan formula la sua visione del servizio di reference – la guida di Ettore Apollonj propone una classificazione delle biblioteche italiane attraverso diversi criteri, il primo è l’uso pubblico o non pubblico di una biblioteca, chiamando in causa il “rango” del lettore. Ovvero una distinzione tra biblioteche italiane di alta cultura e biblioteche di cultura comune o generale.
Viene così tradito il primo elemento che caratterizza il servizio di reference: «istruire gli utenti indipendentemente dal loro status sociale o culturale all’uso della biblioteca».
Le biblioteche popolari appaiono allora come gli organi più indicati per la diffusione della cultura «che ai più non è possibile attingere dalle grandi raccolte che hanno sede soltanto nelle città principali e che sono indirizzate ai soli studi superiori». «Si vorrebbe – aggiunge l’Autore – anzi che dalle biblioteche di alta cultura esulasse qualsiasi intento o scopo rivolto a soddisfare le esigenze della cultura che dicesi comune, e che, comunque, se la biblioteca dotta anche a questa dovesse servire, si istituisse in essa una sezione particolare a tale fine, nettamente distinta dal grande corpo delle altre raccolte».
Come noto, le biblioteche italiane non hanno improntato la propria politica di servizio al reference, al contrario di quelle di area anglosassone. La sala di consultazione (l’unica con scaffale aperto) con accesso riservato soltanto a «pochi e scelti lettori» è stata per lungo tempo la risposta italiana a quegli stessi cambiamenti sociali e culturali che hanno caratterizzato la seconda metà del XIX secolo e che hanno determinato la nascita del movimento del reference service in ambito anglosassone: la crescita del patrimonio librario legata alle profonde trasformazioni subite dalla produzione del libro e «l’affacciarsi […] di una nuova fascia di pubblico, meno preparata e disinvolta degli utenti abituali».
La sala di consultazione riservata a un pubblico selezionato, a particolari tipologie di utenti selezionati in base alla cultura – «studiosi seri che hanno bisogno di quiete e raccoglimento» – è stato dunque il “compromesso” che ha caratterizzato le biblioteche italiane fino agli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso quando ha iniziato a diffondersi l’esposizione a scaffale aperto non più riservato a pochi studiosi nelle sale di consultazione ma più in generale nelle biblioteche pubbliche.
Nell’ultimo quarto del XX secolo [– affermano Gianna Del Bono e Raffaella Vincenti –] la riflessione italiana (e di conseguenza, laddove possibile, la pratica bibliotecaria), pur mantenendo questa identità radicalmente diversa da quella angloamericana e concen- trandosi ancora sull’informazione bibliografica e sulla bibliografia come attività primarie dell’addetto ai servizi di informazione, si è via via accostata sempre più alla teoria e alla prassi internazionali, fino a recepire un modello concettuale in cui la funzione di collezione e quella di assistenza agli utenti venissero riconosciuti come due aspetti interconnessi e specifici […] di un più generale servizio di informazione, mentre entravano in gioco, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, anche l’aspetto civico e sociale del servizio e, soprattutto, il ruolo centrale dell’utente nel processo informativo.
Questa storia spiega naturalmente anche il motivo per cui per fare riferimento a questo servizio personalizzato di assistenza all’utente in cerca di informazione in biblioteca, in Italia non abbiamo sentito l’urgenza di una parola specifica e continuiamo a utilizzare una «espressione presa a prestito dal di fuori», senza considerare che esiste un legame molto intenso tra le parole e le cose.
Reference, dunque, è una parola con una storia molto breve, caratterizzata in Italia dall’assenza di una narrazione dedicata che deriva dal fatto che “informazione al pubblico” e “biblioteca” per molto tempo sono state entità separate, protagoniste di storie molto diverse. Non solo, l’universo del reference tra l’altro non è completamente sovrapponibile/circoscrivibile al servizio di informazione al pubblico: diverse sono le mappe evocate da ciascuna definizione e diversi sono i mondi in cui ciascuna delle due definizioni trova o meno cittadinanza.
La traccia che non c’è: il reference invisibile
Prima di entrare nel merito dei risultati di questa ricerca esplorativa è importante almeno evocare la centralità di un paio di questioni che meriterebbero di essere approfondite: a) la conservazione/valorizzazione del patrimonio fotografico e la sua progressiva digitalizzazione, che rende oggi questo tipo di ricerca più facilmente attuabile, gestibile e controllabile; b) la catalogazione di questo tipo di materiale, tema che impatta poi sulla sua ricercabilità, uso e valorizzazione.
Come si è detto, le fotografie non hanno mai un significato univoco: scattate per un certo motivo vengono utilizzate per tutt’altro. Su questo sta la profonda ambiguità della fotografia: «ogni immagine è determinata nel suo contenuto iconologico dall’intenzione e dallo sguardo di chi la realizza, ma quando diventa oggetto di catalogazione è altrettanto determinata nella sua descrizione dall’interpretazione di chi la osserva mediata dal contesto in cui l’immagine è stata conservata».
L’associare alle immagini delle parole – le parole-chiave o chiavi di ricerca – è l’azione che rende le immagini ricercabili da utenti animati da obiettivi molto spesso di diversa natura. La parola chiave che ha guidato lo studio, all’interno del quale questo assaggio si colloca, è la più generica “biblioteca”.
Il primo passaggio di questo viaggio ha previsto una ricognizione degli archivi fotografici italiani che possono essere considerati come album fotografici della storia d’Italia del Novecento. Il panorama è molto ricco e articolato e comprende raccolte a carattere pubblico e raccolte private.
I criteri di scelta delle fonti – che inevitabilmente risultano arbitrari ed estremamente parziali – sono stati l’imponenza dei patrimoni conservati e la natura pubblica/privata delle fonti. I primi fondi pubblici presi in esame sono stati l’archivio fotografico dell’Istituto Luce, la Fototeca nazionale dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (ICCD), il Sistema informativo regionale beni culturali (SIRBeC) della Lombardia. Tra le raccolte private l’Archivio Alinari e l’Archivio Gilardi. Tra gli archivi fotografici italiani quello dell’Istituto Luce è uno dei più consistenti per qualità e quantità di immagini conservate. Facendo una ricerca attraverso l’archivio online con parola chiave “biblioteca” ci vengono restituiti 116 risultati.
Le foto più interessanti rispetto agli intenti dell’articolo sono quelle relative al reparto Attualità, dove troviamo essenzialmente fotografie di eventi che accadono in biblioteca (Fig. 6-7) o di eventi eccezionali che vedono la biblioteca protagonista (Fig. 8) e il fondo Grazia e giustizia dove troviamo fotografie che ritraggono interazioni tra detenuti in biblioteca (Fig. 9). Negli altri casi (ad esempio Serie L) a essere protagonista è lo spazio: uno spazio caratterizzato dall’assenza di persone – utenti e bibliotecari – e dalla presenza di libri (Fig. 10).
Il Sistema informativo regionale beni culturali (SIRBeC) della Lombardia – che vede catalogate su supporto informatico circa 200.000 fotografie – ci restituisce allo stesso tipo di ricerca 259 risultati. Anche qui troviamo soprattutto tracce di eventi che accadono in biblioteca o biblioteche protagoniste di eventi (Fig. 11).
Il patrimonio della Fototeca dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione rappresenta una raccolta pubblica di fotografia straordinariamente significativa. L’archivio offre un’ampia e approfondita panoramica della storia dell’arte italiana, ma anche delle principali tematiche riguardanti la fotografia storica e di documentazione degli aspetti peculiari della società e della cultura italiana del XX secolo. La ricerca restituisce 267 fotografie delle medesima tipologia di quelle precedentemente emerse dove spiccano gli eventi eccezionali di cui la biblioteca è protagonista (l’alluvione di Firenze del 1966 e gli “angeli del fango” che estraggono i volumi dalla Biblioteca nazionale ecc.).
Tra le raccolte private l’Archivio fotografico Alinari, fondato nel 1852, con un patrimonio di 3.500.000 immagini, è senza dubbio il più importante. Alla ricerca “biblioteca” l’archivio restituisce 1.962 immagini: alcune si sovrappongono a quelle già individuate (ad esempio molte della serie relativa al disastro dell’alluvione di Firenze), molte sono immagini di stampe e codici miniati conservati presso importanti biblioteche, numerose sono le immagini che rappresentano la biblioteca come spazio e patrimonio culturale (Fig. 12). Pochissime le immagini che ritraggono “la vita dentro le biblioteche” (Fig. 13). Nessuna che immortala il servizio reference.
Un altro interessante archivio privato è quello fondato da Ando Gilardi nel 195979. Qui ci vengono restituite 29 immagini. La maggior parte di esse presenta alcuni personaggi di rilievo del Novecento italiano immortalati sullo sfondo della propria biblioteca personale – Trilussa, Maria Bellonci, Margherita Sarfatti, Robert Musil ecc. – o, ancora una volta, la biblioteca protagonista di eventi eccezionali (Fig. 14).
Questa prima esplorazione negli archivi fotostorici generalisti italiani ci restituisce da una parte una immagine del servizio di reference invisibile, confermando una assenza ben documentata da quelle che possiamo definire fonti storiche più tradizionali, dall’altra alcune tipologie di immagini che contribuiscono alla costruzione dell’immaginario di biblioteca condiviso.
Come secondo passaggio, ho provato a entrare all’interno di fonti più specifiche attraverso una ricerca in alcune delle principali riviste di settore caratterizzate da una massiccia presenza di immagini fotografiche: «AIB notizie» e «Biblioteche oggi». «AIB notizie» offre una testimonianza della vita associativa dei bibliotecari italiani ma non presenta materiale interessante rispetto agli obiettivi di questa ricerca: pochissime sono le fotografie che documentano la vita dentro le biblioteche. «Biblioteche oggi» offre un repertorio fotografico estremamente ricco: attraverso una ricerca con parola chiave “reference” nel titolo degli articoli, la banca dati online restituisce 33 risultati. In questo caso tra le immagini dominano le illustrazioni (Fig. 15) che rappresentano l’immaginario condiviso del reference e non compaiono mai fotografie che ritraggono il servizio di reference “dal vivo” all’interno di biblioteche italiane. Troviamo una sola fotografia che ritrae il servizio di reference (in una biblioteca di area anglosassone) come emerge dall’identikit descritto nelle pagine precedenti, ma anche in questo caso la fotografia manifesta una assenza, una triade incompleta (Fig. 16).
L’ultima esplorazione ha previsto una ricognizione all’interno dei siti delle biblioteche italiane il cui posizionamento è caratterizzato dall’apertura al pubblico e dalla centralità del servizio all’utenza. Nelle gallery passate in rassegna compaiono molte fotografie che rappresentano soprattutto gli spazi di queste biblioteche di nuova generazione. All’interno del sito della biblioteca San Giorgio di Pistoia ad esempio ogni servizio bibliotecario ha una sua pagina web dedicata in cui una foto accompagna un testo esplicativo. Il servizio di reference viene presentato così: «Ai punti informativi, in ciascun piano della biblioteca, è possibile chiedere aiuto ai bibliotecari per avere spiegazione sui servizi e informazioni di carattere bibliografico». Il testo è accompagnato dalla foto in Fig. 20.
Naturalmente possiamo immaginare cosa sia accaduto prima: il contatto tra l’utente e la sua risorsa informativa può essere l’esito della transazione di reference che però non è rappresentata, mettendo in evidenza una contraddizione rispetto al testo: dov’è il bibliotecario? Per una interpretazione di questa contraddizione tornano utili le parole di Annamaria Testa: «È chiaro che è sempre l’immagine a decidere “che tempo fa” davvero: se c’è contraddizione tra un messaggio digitale (parole) e uno analogico (immagini) noi diamo sempre retta all’analogico. Per questo negare un’affermazione con un’immagine è molto più facile che negarla a parole: le immagini “non si discutono”. Noi non leggiamo le immagini come rappresentazioni ma leggiamo direttamente le cose rappresentate».
Conclusioni
Da questo primo assaggio, “reference” per il mondo fuori dai confini della comunità scientifica nella quale ci riconosciamo pare essere una parola senza immagine. Forse è anche per questo che non occupa nell’immaginario delle persone (anche degli utenti reali) il ruolo centrale che invece ha nell’organizzazione delle biblioteche, da quando nel 1876 Samuel S. Green ne riconobbe l’urgenza tra i servizi bibliotecari e ne individuò con estrema efficacia tutti gli aspetti essenziali e pochi anni dopo presso la Boston Public Library fu istituito un posto a tempo pieno di reference librarian. La specificità del servizio bibliotecario nel nostro paese sembrerebbe essere invisibile. Questa è la conclusione a cui porta questo breve viaggio attraverso le tracce della fotografia sociale. La risposta che nel nostro paese è stata data alle evoluzioni socio-culturali che hanno dato impulso alla nascita del reference service altrove è piuttosto lontana dalle metafore della torre e del cerchio disegnate da Ranganathan. Le immagini fotografiche assenti nelle fonti consultate lo dimostrano.
Le immagini presenti invece – quelle riportate in questo articolo sono solo un esempio – ci offrono l’opportunità di individuare alcuni tipi ideali che meritano di essere approfonditi. Le fotografie sono preziose occasioni per raccontare storie: storie di eventi importanti che hanno coinvolto le biblioteche, fatti che sono accaduti all’interno delle biblioteche, anche tracce di un modo di essere percepite e di auto-rappresentarsi che influisce profondamente sulla costruzione dell’identità e dell’immaginario condiviso. Questo merita sicuramente di essere meglio indagato, in maniera più approfondita di quanto sia stato fatto in queste pagine, sospendendo il giudizio e provando a costruire un modello di biblioteca a partire dai fenomeni di cui la fotografia è manifestazione.