Generazione streaming: sui comportamenti culturali dei giovani
Dipartimento di Lettere e culture moderne, Sapienza Università di Roma; giovanni.solimine@uniroma1.it
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 30 settembre 2019.
Abstract
L’articolo intende definire l’identità culturale delle generazioni che si sono succedute nell’arco di quasi un secolo di storia italiana, utilizzando a questo scopo atteggiamenti e pratiche collettive che ne costituivano un tratto distintivo.
Per la “generazione delle reti” (nati 1996-2015) questa analisi risulta più difficile, perché essa è caratterizzata non tanto da “cosa” fa, ma da “come” lo fa. Non ha neppure senso considerare distintamente le varie attività culturali, perché è sempre più evidente la mescolanza delle diverse forme di espressione e ricezione. L’ipotesi dell’autore è che il denominatore comune sia oggi costituito dal fatto di essere perennemente connessi e dalla insofferenza verso qualsiasi mediazione e verso i canoni dell’offerta.
English abstract
The article aims to define the cultural identity of the generations that had succeeded one another over almost a century of Italian history, using for this purpose collective attitudes and practices that constituted a distinctive feature.
Considering the “Net Generation” (people born between 1996 and 2015), this type of analysis is more difficult, because this generation is characterized mainly by “what” it does rather than “how” it does it. Furthermore, there is little point in considering the various cultural activities separately, because the mixture of the different forms of expression and reception is becoming increasingly evident.
Author’s hypothesis is that today the common denominator is the permanent connection and the intolerance towards any mediation and towards the traditional cultural activities.
Stereotipi e luoghi comuni: i “giovani d’oggi” sono sempre esistiti
Il presente contributo si interroga sulla identità culturale giovanile e si propone di farlo attraverso una galoppata che ripercorre i comportamenti culturali delle generazioni di giovani che si sono succedute nell’arco di poco meno di un secolo.
Cercheremo in questo modo di ricostruire – se esiste – la loro identità collettiva e per farlo useremo i comportamenti culturali come fattore identitario: il livello d’istruzione e le esperienze formative, le forme di intrattenimento preferite nel tempo libero, gli strumenti utilizzati per comunicare e, più in generale, i consumi culturali, ci sembrano infatti elementi fondanti dei connotati di una “generazione”, intendendo con questo un gruppo di persone che non solo ha la stessa età ma che è passato attraverso le medesime esperienze: «ogni generazione porta con sé un insieme di tratti che accomuna i suoi membri (l’ambiente in cui sono cresciuti, le scuole che hanno frequentato, la musica che hanno ascoltato, i film e i programmi televisivi che hanno visto, le esperienze lavorative che hanno vissuto…) e ne condiziona in modo persistente i comportamenti e gli atteggiamenti».
Solitamente, quando si parla degli appartenenti a una “giovane generazione”, si tende a enfatizzare gli elementi di novità che essi portano con sé e ciò che li contrappone alle generazioni precedenti, ma – come ha scritto Paolo Di Paolo – i “giovani d’oggi” ci sono sempre stati: «ogni epoca ha avuto i suoi; ogni epoca li ha incoraggiati, redarguiti, blanditi, invidiati, condannati».
Le etichettature sui giovani raramente sfuggono a stereotipi e luoghi comuni. Tanti opinionisti − mi rifaccio a loro perché, più della letteratura scientifica, è con i loro scritti che si alimenta il sentire comune − si sono cimentati col tema. Cominciò Alessandro Baricco parecchi anni fa, con alcuni articoli apparsi su «la Repubblica», divenuti poi un volume uscito nel 2006. Erano scritti allarmati per ciò che stava accadendo, per l’aria da apocalisse imminente che si respirava, dove però la preoccupazione maggiore riguardava la nostra inadeguatezza a capire cosa stesse accadendo: «Professori capaci, dalle loro cattedre, misurano nei silenzi dei loro allievi le rovine che si è lasciato dietro il passaggio di un’orda che, in effetti, nessuno però è riuscito a vedere. E intorno a quel che si scrive o si immagina aleggia lo sguardo smarrito di esegeti che, sgomenti, raccontano una terra saccheggiata da predatori senza cultura né storia». L’autore è tornato recentemente sulle mutazioni in atto, facendo il tentativo di dar vita a un nuovo umanesimo digitale, abbandonando l’idea di poter opporre resistenza al web.
Frattanto sono usciti tanti volumi, ma davvero tanti, quasi a formare un nuovo genere letterario: si tratta di libri in cui intellettuali o giornalisti spesso descrivono la loro personale esperienza di genitore alle prese con figli “geneticamente modificati” da internet. Il filone – probabilmente innescato dal successo riscosso da un libro di Michele Serra – tenta una mappatura dell’universo giovanile e del complesso rapporto fra generazioni.
Aldo Cazzullo, uno dei più noti giornalisti italiani, si è rivolto ai figli Rossana e Francesco, invitandoli a non farsi inghiottire completamente dagli apparati elettronici, a non confondere i social network con le relazioni umane e le chat con le conversazioni. La replica dei due ragazzi sottolinea che il rapporto con la rete consente di vivere una vita più ricca, di conoscere persone nuove, di unificare di fatto una generazione, e così via. Non mancano riferimenti al cyberbullismo, a nuove forme di idolatria e ai tanti pericoli presenti sul web.
Possiamo continuare, ricordando i libri di altri due giornalisti molto noti, Antonio Polito e Pierluigi Battista, che – muovendosi fra saggistica, testimonianza e letteratura – mettono a fuoco rispettivamente la difficoltà a trasmettere valori, riducendo i genitori in uno stato di “impotenza educativa”, e l’urgenza di capire quanto sia profondo il solco che si è aperto fra un padre sessantenne e una figlia venticinquenne: «Che libri leggi? Che film hai visto? Che musica ascolti? Quali oggetti acquisti, e di quali senti di non poter fare a meno? Cosa mangi, e che rapporti hai con la medicina, con la scienza? Quali vestiti indossi? E che mi dici della politica? Credi in Dio? Ti soddisfa il mondo così com’è, o vorresti cambiarlo? E hai fiducia che possa essere cambiato?».
Tutti questi contributi ci restituiscono frammenti di verità, ne contengono una parte e fanno luce su situazioni reali e importanti, ma non bisogna pretendere che la descrizione di casi isolati possa essere sufficiente alla comprensione di fenomeni molto più vasti e variegati.
Un altro tipo di analisi è stata tentata da Umberto Galimberti: l’autore − che racchiude in sé le competenze del filosofo, dell’antropologo, dello psicologo e dello psicoanalista − riprende e rivede una riflessione avviata dieci anni prima e delinea il profilo di una generazione di giovani non rassegnati, tutt’altro che “sdraiati”, che non intende rinunciare ai propri sogni, pur non nascondendosi le difficoltà dell’esistenza che gli è toccato vivere. In un precedente volume Galimberti prendeva atto di un disagio giovanile che nasceva da una crisi culturale e di valori, che rendeva incerta qualsiasi prospettiva futura: l’etichetta utilizzata per descrivere questo atteggiamento era quella del “nichilismo passivo”. Pur confermando questa cifra nichilista, il nuovo libro – che nasce dalla corrispondenza che l’autore intrattiene con i giovani sulle colonne di un settimanale – avverte nei giovani una determinazione di tipo nuovo, che consente loro di affrontare i problemi e di provare a costruire una soluzione. Le lettere e le risposte di Galimberti toccano tutti i temi che stanno a cuore a questa gioventù “cancellata per errore”: la ricerca dell’identità, le relazioni familiari, il faticoso percorso di crescita e conquista dell’autonomia, la ricerca di Dio e l’idea dell’aldilà, l’amore e la sessualità, la dipendenza da tecnologie e social network, la demotivazione verso la scuola, il rapporto degradante con un lavoro sottopagato, e altro ancora. Al nichilismo passivo della rassegnazione – sostiene Galimberti – non sono pochi i giovani che sostituiscono il nichilismo attivo di chi, prendendo le mosse proprio da quel desolante scenario, e non da consolanti speranze o inutili attese, inventa il proprio futuro.
I giovani di ieri
Andiamo ora alla ricerca di dati e indicatori che descrivano il rapporto tra i giovani e la cultura e, prima di parlare dei giovani d’oggi, parliamo di quelli di ieri. Per osservare da vicino le generazioni precedenti e per individuare gli elementi che ne costituivano il denominatore comune possiamo ricorrere alla statistica ufficiale: l’Istat, fondato nel 1926, accompagna da quasi un secolo le trasformazioni della società italiana.
Nel già citato volume di Alleva e Barbieri le generazioni che hanno attraversato le vicende dell’Italia repubblicana vengono etichettate in questo modo (nella colonna di destra rispettivi anni di nascita):
Generazione della ricostruzione 1926-1945
Generazione dell’impegno 1946-1955
Generazione dell’identità 1956-1965
Generazione di transizione 1966-1980
Generazione del millennio 1981-1995
Generazione delle reti 1996-2015
Questa classificazione (ma in altre fonti ne vengono proposte di diverse) consente di mettere a fuoco alcuni passaggi epocali e alcune esperienze che hanno profondamente segnato alcune di queste generazioni. Per esempio, i nati nei primi anni della “generazione dell’impegno” avevano poco più di vent’anni quando il mondo intero è stato attraversato dalla ventata del Sessantotto, la “generazione dell’identità” ha vissuto il riflusso degli anni Ottanta al momento del passaggio cruciale dai venti ai trent’anni d’età, la “generazione delle reti” prende il nome dal boom tecnologico degli ultimi due decenni.
Un quadro riassuntivo di queste generazioni e degli appuntamenti cui esse sono state – o sono – chiamate è il seguente (Fig. 1).
Generazioni |
Nati nel periodo di riferimento |
Anni di nascita |
20 anni |
30 anni |
50 anni |
65 anni |
Ricostruzione |
19.574.000 |
1926-1945 |
1946-1965 |
1956-1975 |
1976-1995 |
1991-2010 |
Impegno |
9.280.000 |
1946-1955 |
1966-1975 |
1976-1985 |
1996-2005 |
2011-2020 |
Identità |
9.385.000 |
1956-1965 |
1976-1985 |
1986-1995 |
2006-2015 |
2021-2030 |
Transizione |
12.817.000 |
1966-1980 |
1986-2000 |
1996-2010 |
2016-2030 |
2031-2045 |
Millennio |
8.658.000 |
1981-1995 |
2001-2015 |
2011-2025 |
2031-2045 |
2046-2060 |
Reti |
10.353.000 |
1996-2015 |
2016-2035 |
2026-2045 |
2046-2065 |
2061-2080 |
Fig. 1: Quadro riassuntivo delle generazioni individuate dall’Istat
Fonte: Istat, Rapporto annuale 2016
Nei rapporti dell’Istituto Toniolo si adotta invece una periodizzazione diversa e si parla di quattro generazioni. Quella che comprende i nati fra il 1946 e il 1964 (corrispondenti, grosso modo, al secondo e al terzo gruppo considerato dall’Istat) risulta fortemente orientata al lavoro ed è caratterizzata da un forte senso del dovere; la generazione successiva, che include i nati fra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta, comincia a essere più permeabile all’evoluzione tecnologica e al cambiamento, ed è meno ossessionata dal lavoro, il suo motto potrebbe essere “Lavorare per vivere e non vivere per lavorare”; i nati fra il 1980 e il 2000 sono liberali, tolleranti, un po’ narcisi, realisti, flessibili, adattabili e hanno dovuto imparare a fare i conti con la precarietà; la quarta e ultima generazione presa in considerazione è formata dai nati nel nuovo millennio e comprende giovani “iperconnessi”, svegli e creativi, tendenti alla rapidità più che all’accuratezza, che desiderano cogliere le opportunità, ma mostrano fragilità di fronte alle sfide della complessità. Interessanti alcune distinzioni interne alle generazioni più giovani, i millennial divenuti maggiorenni in questo nuovo secolo e la “Generazione Z”, che nel nuovo secolo sono nati: i primi sono stati descritti come una gioventù cresciuta «in una società sempre più multiculturale e sensibile ai temi dell’ambiente e del consumo responsabile. Vissuti in condizioni di maggior benessere rispetto ai propri nonni e genitori, con più opzioni nei tempi e modi di costruzione del proprio percorso di transizione alla vita adulta, ma anche con più difficoltà a realizzare i propri desiderati obiettivi di autonomia e formazione di una propria famiglia». Non è andata meglio a chi è nato dopo il 2000: «Gli Zeta sembrano essere più disillusi, rispetto ai Millennials, sulla possibilità di cambiare il mondo a proprio piacimento. Da un lato, sono però favoriti dal fatto che vivranno la fase centrale della transizione alla vita adulta nella fase di ripresa dalla crisi economica; potrebbero quindi, se le condizioni dovessero evolversi positivamente, diventare il motore di una nuova fase di crescita, che però richiede un nuovo modello sociale e di sviluppo (che dovranno contribuire a definire e a costruire). […] Nessuno ha ben chiaro come sarà il mondo quando la Generazione Z sarà pianamente entrata nella vita adulta. Lo stesso impatto, molto presente nel dibattito pubblico, di Industria 4.0 è controverso, con posizioni che delineano scenari di aumento di disoccupazione e diseguaglianze, e altri che enfatizzano le opportunità di poter fare di più e meglio grazie ai processi di automazione».
Può essere utile vedere per prima cosa quanti sono, e quanti sono stati nei decenni passati, i giovani in Italia rispetto al totale della popolazione. Questo dato, infatti, non è ininfluente a determinare il peso che i giovani occupano per connotare un’epoca. In base ai dati riscontrabili dall’anagrafe e dai censimenti, i giovani di età compresa fra i 10 e 29 anni assommano attualmente al 20% circa della popolazione (9,5% nella fascia d’età 10-19 e 10,3% nella fascia 20-29), mentre in occasione del censimento effettuato nel 1951, il primo del dopoguerra, erano quasi il 35% degli italiani (oltre il 17% per ognuno dei due gruppi).
Spulciando all’interno della grande quantità di dati che le fonti mettono a disposizione, emergono chiaramente le profonde trasformazioni che hanno contrassegnato il nostro Paese nel periodo considerato e quindi anche quanto diversa sia stata la “condizione giovanile” nel tempo.
Possiamo iniziare la nostra carrellata dagli anni del Fascismo – durante i quali nascono gli italiani che andranno a formare quella che è stata definita come la “generazione della ricostruzione” – e vediamo così che in quegli anni si passa dalla legge Orlando, che dal 1904 fissava sulla carta l’obbligo scolastico ai dodici anni (obbligo spesso non rispettato tra i ceti più deboli della popolazione), alla riforma Gentile del 1923 che porta l’obbligo a quattordici anni e che prevede quattro percorsi dopo i cinque anni della scuola elementare: il ginnasio-liceo per chi voleva poi proseguire gli studi all’università, l’istituto magistrale per la preparazione dei maestri elementari (anzi, delle maestre elementari), l’istituto tecnico e infine la scuola di avviamento professionale (che verrà istituita nel 1928) per chi era predestinato a lavori non intellettuali. Si tratta di una canalizzazione orientata a perpetuare le condizioni economiche e culturali di partenza e che quindi non è finalizzata a creare mobilità sociale, anche perché la piaga dell’evasione rimane molto diffusa, e non contrastata, nelle campagne e tra i meno abbienti. Dieci anni dopo la riforma Gentile, gli iscritti all’università nell’anno accademico 1932-1933 sono 54.000, di cui il 12,5% di sesso femminile. In quell’anno si supera il traguardo delle 10.000 lauree. I consumi culturali sono coerenti con questo quadro generale: nel 1926 si producevano 1,6 volumi ogni 10.000 abitanti, l’indice arriva quasi a raddoppiarsi nel 1932 arrivando al valore 2, e comincia poi a declinare nuovamente attestandosi a 2,4 al momento dell’entrata in guerra, toccando poi il livello più basso nel 1944 con 0,5.
Uscita dalla dittatura e dalla Seconda guerra mondiale, questa generazione prende su di sé il compito di ricostruire le istituzioni, l’economia, le relazioni sociali. Il desiderio di partecipazione è molto forte (la percentuale dei votanti alle elezioni politiche sarà superiore al 90% dal 1948 fino al 1979), ma non possiamo parlare di partecipazione culturale senza prendere atto del quadro complessivo. Può dirsi raggiunto un livello minimo di alfabetizzazione: se prendiamo come indicatore la capacità di fare la propria firma, vediamo che solo il 3% degli sposi e il 4% delle spose non è in grado di sottoscrivere l’atto di matrimonio, rispetto a valori che 25 anni prima erano rispettivamente del 10 e del 17%. Ma il tasso di analfabetismo è ancora piuttosto elevato: il censimento generale della popolazione del 1951 registra un 10,5% di analfabeti tra gli uomini e un 15,2% tra le donne, ma nel Mezzogiorno la percentuale è pari al doppio della media nazionale. In quell’anno si entra nel mondo del lavoro intorno ai 13 anni e solo un ragazzo su nove prosegue gli studi dopo quella età, mentre circa il 18% delle persone con più di 6 anni non era in possesso di alcun titolo di studio. Le difficoltà sono enormi: l’Inchiesta sulla miseria in Italia del 1954 classifica come “medio” il tenore di vita del 65,7% delle famiglie italiane, come “elevato” quello dell’11%, mentre l’11,6% viene ritenuto “disagiato” e l’11,8% “misero”. In valori assoluti, quasi tre milioni di famiglie, pari a un quarto del totale, vive in condizioni di povertà. Strettamente collegato a questa situazione è il fenomeno migratorio, che riprende in quegli anni e che riguarda direttamente anche le giovani generazioni: tra il 1945 e il 1970 ben sette milioni di italiani lasciano il Paese per cercare lavoro all’estero.
Col 1958, anno in cui gli occupati nell’industria superano il numero degli addetti all’agricoltura, inizia il cosiddetto “boom”, che durerà fino al 1973. Un aspetto importante di questo processo riguarda proprio i giovani: molti operai sono giovani o giovanissimi; fino al 1948 solo il 21% degli operai aveva meno di trent’anni, mentre nel 1965 la percentuale sale al 34%; nello stesso periodo si raddoppia la quota delle operaie con età compresa fra i 21 e i 30 anni, che passano dal 14% al 28%. Sono anni in cui l’emigrazione cambia direzione: due milioni e mezzo di meridionali e quasi un milione di persone provenienti dal Nord-Est si sposta verso il “triangolo industriale”, soprattutto verso le grandi città (tra il censimento del 1951 e quello del 1971 Torino passa da 700.000 abitanti a 1.200.000). I protagonisti del miracolo economico italiano sono i giovani operai della catena di montaggio, spesso immigrati, senza qualificazione e al primo lavoro nell’industria. Si abbassa anche l’età media del matrimonio e quella in cui i giovani escono di casa, per effetto del matrimonio o dell’emigrazione.
Sul piano dell’accesso all’informazione e alla cultura, un evento che caratterizza questo periodo è sicuramente l’arrivo della televisione, che inizia le trasmissioni nel 1954 e che è destinata ad avere un grosso impatto sociale. Fino a quel momento la radio era stata il principale mezzo di informazione e di intrattenimento. La diffusione della tv è graduale: nel 1956 gli abbonamenti sono 8 ogni mille abitanti e bisognerà aspettare però gli anni Sessanta, quando il numero di famiglie abbonate alla tv superò la quota del 70%, per l’arrivo degli apparecchi televisivi in quasi tutte le case. Il cinema ne paga pesantemente le conseguenze: dal dopoguerra fino alla metà degli anni Sessanta si sono venduti oltre seicento milioni biglietti all’anno (nel 1955 si toccò la cifra più elevata, con oltre 819 milioni di ingressi alle sale cinematografiche); questi numeri non sono stati mai più raggiunti, fino ad arrivare a meno di cento milioni di biglietti staccati negli anni Novanta.
Ma gli effetti dell’azione dei governi riformatori dei primi anni Sessanta (nel 1962 Fanfani costituisce un governo monocolore DC, appoggiato dal PSDI e dal PRI e con l’astensione del PSI; l’anno successivo, Moro forma il primo governo “organico” di centro-sinistra, in cui entrano anche i socialisti) si fanno sentire anche nel campo dell’istruzione: ci si avvia verso la scuola di massa e si prolunga la permanenza dei ragazzi nel sistema scolastico. Nel 1962 viene istituita la scuola media unificata e si posticipa, quindi, il momento in cui scegliere se e in che direzione proseguire gli studi, scelta che quindi non sarà più affidata ai soli genitori e determinata dalle condizioni socio-economiche della famiglia; nel 1969 si liberalizzano gli accessi all’università, rendendoli indipendenti dal tipo di scuola secondaria superiore frequentata. Gli effetti di questi provvedimenti sulla popolazione studentesca non sono solo quantitativi (nell’anno accademico 1969-1970 gli iscritti all’università superano per la prima volta quota 600.000, più del doppio di dieci anni prima, quando non raggiungevano ancora i 250.000) ma anche di ordine qualitativo: si innesca un processo di mobilità sociale e di contaminazione interclassista, si utilizza l’istruzione come leva per il superamento delle disuguaglianze e per evitare che esse si trasmettano di padre in figlio. La scuola diventa un luogo di aggregazione, in cui i giovani si formano non solo dal punto di vista culturale. Tra il 1961 e il 1981 la percentuale dei laureati si raddoppierà e quella dei diplomati arriverà quasi a triplicarsi.
Prende corpo la “generazione dell’impegno”, che è anche figlia dei provvedimenti appena ricordati. Alla vigilia del mitico Sessantotto, 6 milioni di giovani nati fra il 1946 e il 1952, e che ormai hanno un’età compresa rispettivamente fra i 21 e i 15 anni, sono entrati nell’università o nella scuola superiore: «Le ragazze e i ragazzi di allora sono alla ricerca di un’identità generazionale, che sarebbe ridicolo far passare soltanto per la lunghezza dei capelli e delle gonne (lunghi i primi, corte le seconde). Sono in conflitto con i genitori su molte cose, ma condividono con la generazione che li ha preceduti (la “generazione della ricostruzione”) la consapevolezza che l’istruzione ha in sé una promessa di riscatto sociale, allontana dalla tragedia della guerra e dalla miseria del dopoguerra, è parte di uno sviluppo economico e di un progresso sociale che appaiono senza limiti. Con il miracolo economico e l’espansione dei consumi arrivano anche l’insoddisfazione, l’alienazione, l’incomunicabilità e infine la stagione delle lotte». In molti casi si trattava di studenti universitari di “prima generazione” e, con loro, intere famiglie si affacciavano per la prima volta al mondo della conoscenza. Forse anche per questo, in Italia si realizza, più forte che in altri paesi, una saldatura fra agitazioni studentesche e lotte operaie (il 1969 ebbe un “autunno caldo”, legato al rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro di numerose categorie dell’industria), perché le rivendicazioni sindacali non riguardavano solo le retribuzioni e gli orari di lavoro, ma i diritti democratici e portarono nel 1970 all’approvazione della Legge 300, il cosiddetto Statuto dei lavoratori. L’articolo 10 di quella norma prevedeva anche che i lavoratori dipendenti, sia privati che pubblici, potessero usufruire di 150 ore di permessi retribuiti o di particolari agevolazioni per la realizzazione del diritto allo studio, allo scopo di elevare la propria cultura e di sviluppare le proprie capacità professionali.
Un’intensa partecipazione sociale e politica caratterizza i giovani. Li accomuna ai genitori, che hanno vissuto gli anni del Fascismo e della guerra, una fiducia nel futuro e nella possibilità di cambiamento, mentre li contrappone ad essi una insofferenza contro tutto ciò che sa di establishment: vengono messi in discussione i principi di autorità all’interno della famiglia, nei rapporti fra classi sociali, nei rapporti fra i sessi, sui luoghi di lavoro e di studio, e in ogni campo della vita privata e pubblica. I giovani si ribellano con forza a tutto ciò in cui non si riconoscono e scardinano idee e comportamenti consolidati e comunemente accettati fino a quel momento. La conflittualità contro il “sistema” è molto acuta ed estesa.
La voglia di guardarsi intorno e di “leggere il mondo” è molto forte. Lo provano alcuni dati sulla produzione e lettura di libri, influenzati anche dalla crescita del livello di istruzione: fino al 1966 si producevano 1,7 volumi ogni 10.000 abitanti, ma dal 1974 in poi il valore sarà sempre superiore a 3; nel 1965 solo il 16,6% degli italiani leggeva almeno un libro all’anno e nel 1973 la quota sarà del 25%; nel 1965 il 35% circa delle famiglie aveva libri in casa e nel 1973 la percentuale si avvicinava al 60%.
Questa è anche una generazione, forse la prima, ad avere gusti e tendenze “globali”, veicolati dai nuovi mezzi di comunicazione: i ragazzi italiani sono aperti agli stimoli che vengono dal resto d’Europa e dagli Stati Uniti, sono sensibili a ciò che avviene a livello politico e sociale in altri continenti (la guerra in Vietnam, la battaglia per i diritti civili dei neri d’America, la rivoluzione culturale in Cina, il mito di Che Guevara e i movimenti di liberazione terzomondisti, la Primavera di Praga). Si estendono a macchia d’olio le influenze della beat generation, il movimento giovanile che fin dagli anni Cinquanta si era sviluppato negli USA in campo artistico e letterario.
Le influenze culturali sono molto forti nel campo musicale e pervadono i comportamenti individuali. Per gran parte dei giovani di questa generazione, lo stile di vita acquisito durante quella stagione non verrà più abbandonato: l’impegno politico e nel volontariato proseguirà anche nell’età adulta.
Il brusco risveglio cominciò con la crisi petrolifera del 1973 e l’austerità che ne conseguì nei paesi occidentali (blocco al traffico automobilistico domenicale, riduzione dell’illuminazione stradale, chiusura anticipata dei locali pubblici ecc.): viene messo in discussione un modello di sviluppo e forse l’idea stessa di progresso, un progresso che sembrava inarrestabile, illimitato e destinato a continuare in eterno. I conflitti sociali prendono una piega diversa: in Germania e in Italia iniziano gli “anni di piombo”.
Ma sul terreno delle conquiste sociali i cittadini italiani continuano a compiere significativi passi avanti: nel 1970 viene approvata la legge sul divorzio e nel 1974 viene respinto il referendum che intendeva abrogarla; nel 1975 viene riformato il diritto di famiglia e si stabilisce l’uguaglianza giuridica tra i coniugi; nel 1978 è la volta della “legge Basaglia”, che abolisce i manicomi, e della riforma sanitaria; dello stesso anno è anche la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. Sono cambiamenti che in gran parte modificano la condizione delle donne e che si accompagnano a una crescita costante del loro livello di istruzione: nel corso degli Settanta le ragazze colmano il gap che le divideva dai coetanei nelle scuole secondarie superiori e riducono fortemente quello relativo all’università; il sorpasso nei tassi di scolarità si completerà nel decennio successivo. Di conseguenza l’arrivo delle donne sul mercato del lavoro e la loro uscita dalla famiglia di origine subiscono un rinvio.
Cresce la spesa delle famiglie per istruzione, tempo libero e cultura: nel corso degli anni Settanta la percentuale dedicata a questo tipo di consumi oscilla fra l’8 e il 10% (è molto più elevata al Centro e in alcune aree del Nord, mentre si mantiene più bassa al Sud). Gli effetti del forte incremento della scolarizzazione femminile si fanno sentire anche in questo campo: fino al 1973, per esempio, i maschi leggevano più delle donne, meno istruite, ma da quel momento in poi non sarà più così.
Tornando all’atteggiamento di quella generazione di giovani nei confronti della fruizione culturale, possiamo individuare il biennio 1976-1977 come anni che marcano una svolta. Dal 26 al 30 giugno 1977 si tiene al Parco Lambro di Milano il “Festival del proletariato giovanile”: l’evento musicale in stile Woodstock fu accompagnato da esibizioni di nudismo, espropri proletari e dosi massicce di eroina. Comincia a prendere corpo il “movimento del Settantasette”, in cui confluisce una radicale contrapposizione a tutte le forme di rappresentanza, che travolge rabbiosamente anche le formazioni sindacali e politiche di sinistra. I giovani si sentono estranei a tutte le istituzioni e percepiscono la propria condizione come contrassegnata dalla precarietà e dall’assenza di garanzie. Nelle piazze di Bologna, Roma e Torino si vive uno scontro frontale dei giovani nei confronti dello Stato e della stessa sinistra storica. Gruppi “autonomi”, più o meno organizzati in un’area politica antagonista, saranno il terreno di coltura delle frange che sceglieranno poi la lotta armata e che a cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni del decennio successivo raggiunsero la punta più elevata della propria attività terroristica.
Il riflusso degli anni Ottanta si incarna in una generalizzata tendenza all’individualismo. L’andamento dell’economia ha ovvie ripercussioni sul piano del costume e degli stili di vita: si studia per più anni e, anche per effetto della crescita della disoccupazione, si nota una tendenza dei giovani a restare più a lungo in casa con i genitori. Sono gli anni della “Milano da bere” e dello yuppismo imperante, immagini e sintesi che i mass media e in particolare la tv rendono icastiche, quasi legittimandole quando non esaltandole. E sono sempre televisione e cinema a rafforzare alcuni stereotipi dell’adolescente e del giovane di quegli anni – ma che in molti casi corrispondono alla realtà –, come il “paninaro”, che indossa solo capi d’abbigliamento firmati e spende tutta la sua paghetta nei fast food.
A cavallo tra il secondo e il terzo millennio l’assetto della società italiana risulta sempre meno favorevole ai giovani – che, tra l’altro, diminuiscono sempre più, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione (la quota di persone con età inferiore ai 24 anni si è praticamente dimezzata nell’arco di tempo preso in considerazione per questa carrellata: erano il 49% degli italiani nel 1926 e sono diventati il 23% nel 2016). Sono proprio i giovani a pagare le conseguenze della crisi: dal 2005 in poi si registra un calo degli occupati nella fascia d’età al di sotto dei 39 anni. Nel corso degli anni Novanta si assiste anche a un incremento notevole della criminalità minorile: il numero di minorenni denunciati, che fino a quel momento si aggirava sui ventimila all’anno, tra il 1990 e il 2005 sarà quasi sempre superiore ai quarantamila.
A mano a mano che procediamo in questo excursus cominciano a manifestarsi fenomeni presenti ancora oggi e, quindi, si inizia a parlare anche della attuale generazione di giovani.
Dai primi anni Novanta in poi il numero di studentesse universitarie cresce costantemente e distanzia sempre più quello dei coetanei maschi. Attualmente gli studenti universitari di sesso maschile sono circa 750.000, quasi duecentomila in meno delle studentesse.
Il numero dei laureati annui supera per la prima volta quota centomila nel 1994 e quota duecentomila nel 2003.
Per effetto della crisi economica e delle politiche di disinvestimento nel sistema universitario, nell’ultimo quindicennio sono diminuite le iscrizioni alle università: il numero più alto di immatricolati è stato raggiunto nell’anno accademico 2003-2004 con oltre 350.000 studenti e da quell’anno è calato fino ad arrivare a circa 270.000. Questo calo ha colpito prevalentemente i ceti sociali più deboli, se è vero che 8 matricole su 10 provengono dai licei, anche perché solo il 9% degli studenti riceve una borsa di studio.
Non è questo l’unico segnale di arretramento. Diminuisce la quota di consumi destinati a istruzione, tempo libero e cultura, che non raggiungerà mai più le percentuali degli anni Settanta: nel nuovo millennio a questo genere di spese verrà destinato il 6-7% del bilancio familiare.
Con l’arrivo degli anni Duemila cambia il senso della parola “partecipazione”. Alle elezioni politiche del 2008 per la prima volta la percentuale dei votanti scende sotto l’80%; parimenti cala il numero di persone che frequenta associazioni professionali o sindacali, che si attesta intorno al 10%; la sfiducia nelle organizzazioni politiche o di categoria spinge altrove il desiderio di impegnarsi nel sociale e, infatti, contemporaneamente cresce il numero di persone di entrambi i sessi che svolgano attività nel campo dell’associazionismo e del volontariato (dal 2003 in poi la percentuale supera il 9% nel caso dei maschi e l’8,5% tra le femmine: i settori di più forte impegno sono quello delle associazioni ecologiste, pacifiste, per i diritti civili e di tipo ricreativo culturale, con percentuali superiori al 10%; quasi il 40% delle donne e il 25% degli uomini frequenta luoghi di culto).
Un altro aspetto da sottolineare riguarda la dimensione della internazionalizzazione. Chi ha compiuto vent’anni in questo periodo appartiene a una generazione di “cittadini europei”, il cui orizzonte di vita spesso va oltre i confini della nazione di nascita.
Un insieme di fattori ha determinato questa condizione. L’Interrail è sempre stato una delle forme preferite dai giovani per spostarsi – ora parzialmente soppiantata dai voli aerei delle compagnie low cost e dalle imprevedibili destinazioni last minute – e rimane un mezzo molto utilizzato: nell’ultimo decennio il numero di pass venduti è cresciuto da 100.000 a oltre 250.000 all’anno. Un’altra possibilità riservata ai giovani è la mobilità studentesca prevista dal programma Erasmus dell’Unione europea, avviato nel 1987 e che prevede la possibilità di frequentare un segmento del proprio percorso di studi universitari in un altro paese dell’Unione: quasi tre milioni di studenti europei ne hanno usufruito, oltre 25.000 studenti italiani nello scorso anno. Tra il 1985 e il 1996 molti paesi hanno aderito alla convenzione di Schengen, che consente di spostarsi liberamente, senza visti e senza passaporti; l’adozione dell’Euro, a partire dal 1 gennaio 2002, ha eliminato anche il bisogno di dover cambiare moneta. Tutti questi sono fattori che hanno determinato, insieme a una più diffusa conoscenza – per quanto ancora insufficiente tra gli italiani – di almeno una lingua straniera, la creazione di uno “spazio europeo” in cui realizzare il proprio futuro. Il 42,6% dei giovani dichiara che “da grande” vorrebbe vivere all’estero. È ripreso un fenomeno migratorio di italiani che vanno a cercare lavoro all’estero, che in 6 casi su 10 riguarda i giovani. Il 73% dei giovani di età compresa fra i 25 e i 34 anni ha risposto a un sondaggio Demos che l’unica speranza se si vuole far carriera è andare all’estero; oltre il 61% dichiara di essere disponibile a trasferirsi all’estero per lavoro, con una percentuale più elevata che in altri Paesi dell’Unione.
L’altra faccia della medaglia, infatti, è costituita dalla cosiddetta “fuga dei cervelli”: si stima che quasi mezzo milione di laureati abbia lasciato il nostro Paese negli ultimi anni (le destinazioni preferite sono il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, la Francia, gli Stati Uniti e la Spagna). Un dato significativo, se si pensa che a fine anni Novanta erano in media poco più di tremila all’anno gli italiani qualificati che decidevano di lasciare la penisola. La contraddizione evidenziata da questo fenomeno dovrebbe far riflettere: pur avendo una percentuale di laureati e di diplomati tra le più basse d’Europa (i giovani di 30-34 anni in possesso di un titolo di studio post-secondario sono da noi il 23,9%, rispetto al 30% della media dei Paesi OCSE e al 37,9% del 28 Stati dell’Unione europea), l’Italia esporta personale qualificato. Il fatto che questi giovani non trovino lavoro nella propria nazione di origine, che ha investito ingenti risorse per formarli, non è dovuto alla scarsa qualità delle loro competenze (se così fosse, importeremmo laureati più bravi dall’estero), ma al fatto che il nostro sistema produttivo è poco attento all’innovazione e alla ricerca e non è in grado di assorbire giovani con elevata qualificazione. La quota di occupati con livello di qualificazione medio-alta è in Italia nettamente inferiore alla media europea, con un distacco crescente dalle economie-guida dell’Unione, e risulta superiore solo a quella di Croazia, Cipro, Ungheria, Spagna, Bulgaria, Slovacchia, Grecia, Romania.
Nel prossimo futuro rischiamo di pagare duramente le conseguenze di queste scelte miopi della nostra classe dirigente, governanti e imprenditori.
Contraltare dell’emigrazione è l’immigrazione. Al melting pot di nazionalità, etnie e lingue contribuisce ormai in misura considerevole anche il numero di adolescenti e giovani di origine straniera che vive in Italia. Ogni anno il 15% dei nati è figlio di stranieri; l’8,4% dei ragazzi fra i 16 e i 20 anni ha un background migratorio. La presenza di questi ragazzi nelle scuole è ormai evidente e tra poco, se e quando miglioreranno le condizioni economiche delle loro famiglie, la avvertiremo anche nelle università. Al di là della formale acquisizione della cittadinanza, questa e le future generazioni di giovani italiani avranno una forte caratterizzazione multietnica.
L’offerta di cultura e di intrattenimento non potrà ignorare la composizione di questo bacino di utenza.
Esiste ancora un’identità culturale dei giovani?
Siamo arrivati così a parlare dei giovani d’oggi. Ma prima di provare a descriverne i comportamenti culturali e a pensare di poterli assumere come tratto identitario, dovremmo provare a ricavare qualche considerazione riassuntiva da ciò che si è appena detto.
I connotati distintivi, che forse in modo semplicistico abbiamo utilizzato per marcare le diverse generazioni passate, possono essere considerati come elementi davvero caratterizzanti? Sono soltanto stereotipi o possono essere correttamente presi a riferimento per delineare il profilo collettivo di una generazione, valido almeno per una parte di essa, la quota che emergeva in modo più visibile e che finiva col diventare la bandiera che accomunava anche chi non si sarebbe riconosciuto fino in fondo in questo identikit? Le minoranze che avevano dato luogo a etichettature come “i sessantottini” erano comunque rappresentative degli umori di masse più numerose che, tutto sommato, almeno in parte condividevano con loro una sensibilità simile? Personalmente ritengo che, anche se non tutti portavano i capelli lunghi e suonavano la chitarra o partecipavano a manifestazioni di piazza, coloro che non avevano quegli atteggiamenti potevano forse riconoscersi in quell’avanguardia, perché esisteva un comune sentire che andava oltre le punte estreme di quella “minoranza rumorosa”.
La produzione letteraria e cinematografica è stata spesso utile per immortalare cosa accade nei momenti di svolta: libri e film cult sono restati nella memoria più che per la loro qualità intrinseca, per la loro capacità di sintetizzare atteggiamenti diffusi nell’universo degli adolescenti e dei giovani.
Limitatamente al panorama italiano, possiamo ricordare un libro scritto sotto pseudonimo da due autori molto giovani, Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera: è il diario di due liceali sedicenni alla ricerca di una felicità assolutamente privata, in cui l’impegno politico che aveva contrassegnato la generazione immediatamente precedente non costituisce più la cifra totalizzante della condizione giovanile. Il libro, e il film che ne fu ricavato, descrivono bene il clima che anticipò e accompagnò il “movimento del Settantasette”, cui già si è fatto cenno, e il vuoto politico di quegli anni.
Torniamo su quella fase della storia italiana, perché rappresenta uno spartiacque nel rapporto fra i giovani e la politica, ma anche fra i giovani e l’establishment, in termini più generali e quindi anche nei confronti dell’offerta culturale. Proprio per il rifiuto di tutto ciò che era “costituito”, le formazioni politiche della sinistra tradizionale furono i principali bersagli di quella contestazione, più o meno spontanea, e Bologna, roccaforte della sinistra storica, fu l’epicentro di quel movimento. Al di là del dato politico, quel movimento portò con sé una ventata di “controcultura” e “controinformazione”: le radio libere, una creatività trasgressiva e irridente, una certa intransigenza ebbero però come contraltare alcune forme di lotta politica violenta, che sfociò nell’Autonomia operaia ed ebbe un tragico epilogo nel terrorismo politico.
Nella Bologna dei primi anni Novanta è ambientato un altro romanzo di taglio giovanilista, opera prima di Enrico Brizzi, da cui pure è stato tratto un film: il protagonista è Alex, un diciassettenne, apparentemente del tutto integrato negli schemi sociali della borghesia medio-piccola cui appartiene, che conduce una vita «inutile e triste come la birra senz’alcool», che gli sembra appartenere a qualcun altro e da cui non sa uscire, malgrado una vocazione anarchica che non riesce ad assecondare. «Posso sopravvivere, col pilota automatico, ma vivere è un’altra cosa», dice Alex.
Questi esempi – assolutamente arbitrari e a-scientifici, eppure non del tutto campati in aria, a nostro avviso – ci hanno aiutato a descrivere il clima, esistenziale ma anche culturale, in cui sono cresciute le giovani generazioni dei decenni passati.
Questa riflessione propedeutica è necessaria per comprendere se possiamo applicare un’etichetta banalizzante anche alla generazione dei giovani d’oggi, per esempio quella di “sdraiati”, per mantenere l’aggancio alle fonti letterarie e giornalistiche, e se possiamo adottare i comportamenti culturali come marcatore.
Dico subito che, a mio avviso, la risposta è no. L’identità collettiva mi sembra meno facilmente definibile sulla base di “cosa” fanno i giovani e di “quanto” lo fanno, mentre invece mi sembra più utile andare a vedere “come” e “dove” lo fanno, perché in questo forse possiamo individuare gli elementi unificanti e identitari di chi appartiene alle fasce d’età 15-17, 18-19 e 20-24, secondo la classificazione adottata dall’Istat.
Non riporterò qui i dati sulla lettura, sull’ascolto della musica o della radio, sulle visite a musei o ad altri luoghi della cultura, sul rapporto con la televisione o con lo spettacolo dal vivo, e così via: potremmo dire qualcosa sul calo della lettura di libri e giornali ma dovremmo parlare anche dell’aumento di altre forme di lettura e scrittura, forse di testi frammentati, di cui sappiamo molto poco; dovremmo parlare del costante calo del consumo televisivo ma anche del successo che le serie tv e il video on demand hanno fra i giovani; non potremmo ignorare la numerosità delle community di videogiocatori online. Finiremmo col perderci.
Non ha neppure senso analizzare distintamente questi diversi canali di fruizione culturale, perché è sempre più evidente la mescolanza delle diverse forme di espressione e ricezione, favorita dal comune ambiente digitale in cui esse si realizzano e dalla connessione in mobilità che ci accompagna sempre e ovunque.
La profilazione dei consumi culturali giovanili offre davvero pochi spunti che possano essere assunti per una generalizzazione che abbia un senso. Si pensi, per fare soltanto un esempio, alla frammentazione dei gusti musicali in generi e sottogeneri e al loro rapidissimo mutamento.
L’ipotesi interpretativa che vorremmo avanzare è che i giovani sfuggono ormai a qualsiasi incasellamento e che neppure gli stereotipi sono sufficienti a descriverli.
Neppure il web, che sembra coprire tutto l’universo giovanile, può essere adottato come etichetta, se non si ricorre almeno a qualche distinguo. L’assunto di fondo, infatti, è che il “mondo globale” può uniformare gusti e comportamenti, ma al tempo stesso, favorisce la nascita di tante piccole e meno piccole comunità di interessi, ognuna con i suoi tratti identitari. La rete, che dovrebbe essere il tessuto connettivo di un mondo omogeneizzato, finisce invece per attenuare il denominatore comune applicabile a una generazione intera. Sembra condivisibile l’interpretazione di Frédéric Martel, secondo il quale il tempo di un’internet globalizzata è già alle nostre spalle: il sociologo francese ha sposato l’idea di una dimensione “territorializzata” della rete, in cui le specificità culturali e linguistiche riescono a sopravvivere e a resistere all’egemonia di un World Wide Web dove tutto è equidistante, al mainstream che pretenderebbe di dilagare oltre ogni confine: «Internet non uniforma le differenze: le consacra. Infatti, non è globale, non annienta le identità: le valorizza. Le nostre conversazioni sono e rimarranno territorializzate. Il contesto è fondamentale. La geografia conta».
Il rapporto con la rete ci sembra essere comunque il principale elemento distintivo per giovani e giovanissimi e ciò conferma la validità della definizione di “generazione delle reti” utilizzata da Alleva e Barbieri per etichettare i nati negli ultimi due decenni. Il dato è al tempo stesso generazionale e ambientale. La rete rappresenta il contesto in cui questa generazione sta crescendo e si sta formando, il canale attraverso il quale ci si informa e si comunica con gli altri, e diviene per forza di cose anche l’ambiente culturale dei giovani.
La rete caratterizza anche l’approccio alla partecipazione culturale e lo stile con cui essa viene improntata. La dimensione “orizzontale” delle relazioni ha radicalmente trasformato le modalità di produzione e di fruizione della cultura. I dispositivi mobili vengono usati per liberarsi da ogni schiavitù di luogo e di tempo: essere “sempre connessi” consente di dare sfogo all’insofferenza verso qualsiasi mediazione e verso i canoni dell’offerta, di non dover andare al cinema per guardare un film, di non dover sottostare alle scelte dei palinsesti delle emittenti televisive o degli editori discografici. Nel campo dell’editoria cominciano a diffondersi modelli di business basati sul pay per view e non più sull’acquisto. Anche per i contenuti formativi si utilizza il sistema fa-da-te e si studia assemblando moduli didattici o video presenti in rete.
Lo streaming diventa la “forma” che emblematicamente rappresenta la fruizione culturale dei giovani d’oggi.