Dialogando sui modelli
Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”; anna.galluzzi@gmail.com
Dipartimento di Discipline umanistiche, sociali e delle imprese culturali, Università di Parma; alberto.salarelli@unipr.it
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 3 maggio 2018.
Abstract
Anna Galluzzi e Alberto Salarelli, che hanno scritto sia di modelli di biblioteca sia delle loro potenzialità e dei loro limiti, in questo dialogo si interrogano su quello che è successo – in particolare in Italia – negli ultimi dieci anni. In particolare cercano di analizzare se – e in quale misura – sia cambiato questo settore di indagine dopo la crisi economica iniziata nel 2008 e la rivoluzione tecnologica di Internet 2.0. I due autori interpretano il continuo cambiamento dei modelli biblioteconomici come il faticoso tentativo di dare risposte alla complessità del mondo attuale delle biblioteche e di garantirne la sopravvivenza e il finanziamento pubblico. Viene proposta un’analisi delle biblioteche partecipative e sociali e vengono evidenziati i rischi di un loro utilizzo semplificato. In conclusione, i modelli sono considerati uno strumento necessario per comprendere la realtà, a condizione che siano utilizzati e applicati in modo flessibile e plurale.
English abstract
Anna Galluzzi and Alberto Salarelli, who have both written about library models, as well as their potentials and limits, in this dialogue wonder about what happened – particularly in Italy – in the last ten years. Specifically they aim to analyze whether and how much has changed in this field after the economic crisis started in 2008 and the technological revolution of the Internet 2.0. The two authors interpret the continuous change of library models as the strenuous attempt to give answers to the complexity of the current library world and to guarantee the survival and the public funding of libraries. An analysis of the participative and social libraries is proposed and the risks of a simplified use of them are highlighted. In the end, models are deemed to be a necessary tool to understand reality, provided that they are used and applied in a flexible and plural manner.
Anna Galluzzi
Circa dieci anni fa, all’esito della mia ricerca di dottorato, pubblicavo un libro dal titolo Biblioteche per la città: nuove prospettive di un servizio pubblico. Gli anni Duemila erano stati per le biblioteche in tutto il mondo occidentale – e non solo – una fase di ricerca e costruzione attiva della propria identità in risposta ai cambiamenti nella società, anche attraverso la realizzazione di nuove biblioteche e il ripensamento di quelle esistenti. Di questo processo davo conto nel volume.
In particolare, attraverso l’approfondimento di un certo numero di casi di studio – biblioteche realizzate ex novo e inaugurate all’inizio degli anni Duemila in Europa e in America settentrionale – la ricerca si proponeva di far emergere delle linee di tendenza riconoscibili a livello internazionale, che sintetizzai in cinque modelli biblioteconomici: la biblioteca esperienziale, la biblioteca-spazio urbano, la reference library, la biblioteca-libreria e la biblioteca di nicchia. A ciascuno di questi modelli feci risalire una o più delle biblioteche-casi di studio che avevo preso in considerazione.
Lo studio si concludeva con l’individuazione di un percorso di sviluppo – non lo consideravo propriamente un modello, bensì un superamento dei modelli descritti e delle loro rigidità – che tenesse conto della crescente complessità di scenario in cui le biblioteche erano chiamate a operare. Usai l’espressione multipurpose library per fare riferimento a questa proposta di biblioteca capace di rispondere alle esigenze varie e contraddittorie della contemporaneità e di far convivere bisogni, pubblici e servizi diversi.
In quegli stessi anni usciva anche un volume di Antonella Agnoli – destinato a un grande successo – che si confrontava col medesimo mutamento di scenario e ipotizzava un futuro per le biblioteche come piazze del sapere. Il modello della “piazza del sapere” ha poi persino travalicato i confini della letteratura biblioteconomica invadendo il linguaggio politico e giornalistico.
In questo ultimo decennio, per effetto della pesante crisi economica che a partire dal 2008 ha colpito le economie occidentali e in conseguenza dell’ulteriore evoluzione di Internet e delle nuove tecnologie, la spinta propulsiva alla costruzione di nuove biblioteche si è in buona parte esaurita, mentre certamente non si è esaurita la necessità di elaborare modelli interpretativi atti a districarsi nella complessità del reale e a indicare possibili strade da percorrere.
L’elaborazione di modelli biblioteconomici non è però un fenomeno che riguarda solo questi ultimi decenni; si può dire piuttosto che tali modelli siano stati, nel tempo, la risposta delle biblioteche all’aumentare della complessità del reale e al diversificarsi delle aspettative e della composizione delle comunità di riferimento.
È però indubbiamente vero – come qualcuno non ha mancato di mettere in evidenza – che il recente alternarsi sempre più frenetico di nuovi modelli abbia finito per assomigliare più al rincorrersi delle mode che a un reale tentativo di analizzare criticamente la realtà. Probabilmente, i modelli via via elaborati fanno fatica a stare dietro a una realtà che cambia molto in fretta e facilmente risultano insoddisfacenti nella misura in cui non riescono a dare conto della molteplicità di funzioni e ruoli che caratterizza oggi le biblioteche.
Alberto Salarelli
Anch’io sono convinto che stiamo vivendo una fase di affannosa ricerca di risposte in grado di confortare una lettura sempre più ardua della complessità del mondo bibliotecario contemporaneo. Si tratta di una situazione che ormai perdura da qualche tempo e che, credo, non sia destinata a esaurirsi in breve.
Paolo Traniello, introducendo la recente raccolta di scritti di Mauro Guerrini, ha scritto che ai giorni nostri non è agevole capire cosa debba fare un bibliotecario «tenendo conto che la fisionomia degli istituti, i loro compiti e le relative competenze si pongono oggi in un quadro tipologico talmente vario da legittimare la domanda se possa esistere veramente una sola istituzione sociale denominata biblioteca». Quindi, se siamo giunti al punto da non essere nemmeno più certi del fatto che un nome possa essere identificativo di una specifica realtà istituzionale (intendendo per “istituti” i luoghi ove si erogano servizi che, al di là delle singole declinazioni, consentono agli stessi di mantenere un’identità di funzioni riconoscibile e riconducibile a un’unica denominazione), hai voglia a cercare di elaborare modelli che abbiano poi una certa efficacia. Del resto Traniello vede giusto: come potrebbero non essere diverse fra loro le biblioteche viste le molteplici variabili in gioco? Se anche volessimo limitarci al loro obiettivo principe, il ranganathiano «books are for use», ebbene dovremmo considerare come l’informazione, cioè il bene che le biblioteche gestiscono attraverso i documenti, non è una commodity, cioè una merce senza qualità ma, al contrario, un qualcosa che acquisisce valore in relazione al contesto comunicativo e cognitivo nel quale tale bene si trova a essere gestito. I bibliotecari, gli utenti, le comunità, la storia dei luoghi, la forma degli edifici fanno sì che le 13.000 biblioteche italiane siano l’una diversa dall’altra mentre, ad esempio, i 13.000 uffici postali, pur mediando anch’essi informazioni, siano più o meno tutti uguali, soprattutto dopo le operazioni di branding portate avanti da Poste italiane negli ultimi anni. Sto semplificando, certo. Ma quello che voglio sottolineare è il ruolo fondamentale dei contesti: è la loro diversità che segna i panorami differenti che caratterizzano il mondo delle biblioteche. Attenzione però: la varietà non è sempre un pregio. Voglio dire che non c’è sempre e comunque da guadagnarci a non avere una storia di sistema, al non aver adottato un modello, seppur lasco, a livello nazionale. Se noi che ci occupiamo di biblioteche non perdiamo occasione per biasimare la perdurante mancanza di una visione sistemica delle biblioteche italiane, cioè il mai realizzato sistema bibliotecario nazionale, è perché esso avrebbe potuto (anche) fungere da strumento di compensazione per limare diversità eccessive, talora inaccettabili. Chissà, magari una visione d’insieme, una legge sulle biblioteche in grado di proporre un modello di biblioteca pubblica con indicati alcuni requisiti minimi nell’erogazione dei servizi e nella consistenza delle collezioni avrebbe limitato il divario tra realtà profondamente differenti in relazione all’impatto degli istituti sulle rispettive popolazioni. Invece, se questa tensione verso un’uniformità delle caratteristiche degli istituti bibliotecari si è verificata, lo si deve, com’è noto, alle legislazioni regionali emanate dopo la devoluzione dei poteri in materia di biblioteche da parte dello Stato.
In ogni caso è bene chiarire il fatto che, per quanto ne so, tale strategia di applicazione diffusa di un modello bibliotecario standard non ha mai funzionato più di tanto nemmeno in altre parti del mondo. Anche le celeberrime biblioteche Carnegie, come ricorda John Palfrey, sono presenti in meno di 1.500 comunità USA e, quindi, «sembra che, in fatto di biblioteche, sia di norma la varietà, non l’uniformità».
A. G.
Paradossalmente, proprio mentre i modelli biblioteconomici mostrano più apertamente i propri limiti, i bibliotecari sembrano averne sempre più bisogno tanto da attribuire loro delle funzioni ch’essi non hanno per loro stessa natura, ad esempio quella di strumenti predittivi rispetto al futuro delle biblioteche, ovvero di strumenti operativi immediatamente applicabili alla realtà.
E così, più i modelli si rivelano incapaci di stare al passo della complessità del reale, più si assiste alla produzione di nuovi modelli e a un loro repentino tramonto.
A. S.
Concordo in pieno. A mio avviso questo fatto è legato a un problema di sopravvivenza. Proviamo a scorrere l’ultimo rapporto Istat sui consumi culturali degli italiani: ebbene possiamo osservare come le biblioteche non brillino per presenze rispetto, che so, ai musei o al cinema. Evidentemente gli italiani soddisfano le loro esigenze di lettura (si consideri tale termine in senso ampio: lettura per studio, svago, formazione; e si prendano naturalmente in considerazione tutti i media che è dato ritrovare in biblioteca) in altro modo; o forse tali esigenze non sono percepite in maniera così impellente da gran parte dei cittadini che preferiscono impiegare il loro tempo in altre attività. I dati sulla lettura farebbero propendere per questa ultima ipotesi (in tal caso, evidentemente, le biblioteche non possono risolvere nulla senza una visione più generale in grado di coinvolgere tutti i soggetti che partecipano alla filiera del libro). È interessante osservare come la percentuale dei lettori forti sia pari, all’incirca, a quella dei cittadini frequentatori delle biblioteche: anzi, per meglio dire, come notava Giovanni Solimine, «la biblioteca è intensamente utilizzata da parte dei lettori forti». Questo significa che ci troviamo di fronte a uno zoccolo duro di utenti che innanzitutto bisogna cercare di non disperdere, prima ancora del tentativo di ampliarlo in modo talora – diciamo – un po’ disinvolto. Ecco uno dei motivi per cui non mi convincono, in linea generale, le biblioteche che organizzano attività molto distanti dalla già citata prima legge di Ranganathan. Non mi convincono ma le comprendo proprio in una logica di sopravvivenza, di mantenimento delle biblioteche nel novero dei beni meritori, quindi di allargamento della base di consenso all’interno delle comunità. E torniamo ai modelli. In specifico: qual è il modello che mi garantisce la moltiplicazione del numero di visitatori? Ammettiamone l’esistenza: sarebbe senz’altro quello più adottato, a qualsiasi costo, temo.
A. G.
Il tuo richiamo alle biblioteche come beni meritori mi pare particolarmente appropriato, perché porta all’evidenza una contraddizione che è insita nella condizione stessa delle biblioteche: in quanto beni meritori, l’uso delle biblioteche è volontario, ossia lasciato alla libera scelta e iniziativa delle singole persone; però, al contempo, il servizio bibliotecario è a carico della fiscalità pubblica e dunque sostenuto dalla collettività nel suo complesso.
Poiché la biblioteca e tutto quello che essa può offrire costituiscono un bisogno “secondario”, il cui emergere discende da altri fattori culturali e sociali che non dipendono esclusivamente da essa, si produce una inevitabile autoselezione del pubblico, in buona parte a vantaggio delle fasce culturalmente più attive della popolazione e delle classi medie.
Come già si osservava nelle ricerche condotte nell’America del dopoguerra, l’universalità è un obiettivo praticamente impossibile da raggiungere per le biblioteche, per quanto aggressive ed efficaci possano essere le loro politiche di promozione dei servizi. Le biblioteche sono continuamente alla ricerca di un equilibrio dinamico tra la necessità di rispondere alle richieste e agli interessi degli utenti “contemporanei” – per non dover rischiare l’irrilevanza sociale e il progressivo disinteresse delle comunità locali a investire nelle biblioteche – e il mantenimento di un alto profilo educativo e culturale con un orizzonte temporale più esteso, che legittimi il loro inserimento nei servizi finanziati pubblicamente.
L’imperativo della moltiplicazione del numero dei visitatori insito in alcuni modelli è perciò il risultato in parte di un’“ignoranza” sulle caratteristiche proprie delle biblioteche, in parte di un approccio managerialista di basso profilo che punta ad aumentare i numeri a qualunque costo, persino snaturando l’istituzione e puntando su servizi a più alta attrattività, ma poco coerenti con le sue funzioni.
In questo senso i rischi dell’utilizzo dei modelli in biblioteconomia da cui tu avevi messo in guardia bibliotecari e biblioteconomi nel tuo articolo del 2015, ossia l’erronea attribuzione di predittività ai modelli idiografici (come sono quelli biblioteconomici) e il loro uso ideologico, non solo sono sempre attuali, ma richiedono probabilmente oggi un’attenzione persino maggiore che in passato.
L’uso dei modelli in funzione ideologica è particolarmente pericoloso nella misura in cui ciò che nasce per comprendere la realtà finisce invece per piegarla in direzioni talvolta lontane dalla vocazione e dalla natura intrinseca delle biblioteche.
È quanto – secondo me – sta parzialmente accadendo in questi ultimi anni intorno ai modelli della “biblioteca partecipativa” e della “biblioteca sociale”. In essi i bibliotecari hanno visto una possibile risposta alla crisi economica e ai pesanti tagli alla spesa pubblica che in questi anni hanno colpito fortemente le biblioteche, inevitabilmente sotto i riflettori anche per effetto della sfida del digitale.
All’interno di questo scenario il modello della “biblioteca partecipativa” nasce in particolare dal tentativo di estendere anche alle biblioteche una più generale sollecitazione a un maggiore coinvolgimento – anche nella fase di progettazione e gestione – di quelli che erano un tempo soltanto fruitori di servizi, mentre ora diventano partner attivi capaci di contribuire – a vario titolo e in vari modi – alla vita della biblioteca.
Dall’altro lato, il modello della “biblioteca sociale” propugna una funzione della biblioteca come spazio fisico di aggregazione e un ruolo dei bibliotecari a sostegno dei bisogni sociali (e non solo informativi e culturali) della comunità, bisogni evidentemente più acuti proprio nei periodi di crisi economica.
Si tratta, per la verità, di due modelli di biblioteca pubblica che hanno delle radici comuni, in quanto sono entrambi focalizzati sul rapporto della biblioteca con le persone che compongono le comunità di riferimento.
Il successo di questi modelli va certamente sottoposto alla verifica di una possibile deriva ideologica, che per i bibliotecari, soprattutto quelli pubblici, è sempre dietro l’angolo. Considerando che le biblioteche – in modo particolare nei momenti di crisi e di messa in discussione del loro ruolo – hanno spesso fatto appello, nella loro storia, alla cosiddetta library faith, ossia un insieme di convincimenti di natura prettamente ideologica riguardanti la loro funzione nella società, la possibilità che anche i modelli della “biblioteca partecipativa” e della “biblioteca sociale” siano il risultato di una strategia politica piuttosto che di un’analisi della realtà appare molto forte.
In questo caso, dunque, i modelli diventano più uno strumento a servizio delle strategie di advocacy delle biblioteche, una specie di “slogan” o di vessillo da utilizzare per stimolare un riconoscimento pubblico delle biblioteche, piuttosto che uno strumento a supporto dell’interpretazione e della progettazione.
A. S.
Però, cara Anna, io vorrei capire a cosa ti riferisci quando parli del “successo” dei modelli bibliotecari sociali o partecipativi. È un successo perché se ne parla nella letteratura biblioteconomica? O è un successo perché c’è una reale diffusione dei medesimi al di là di qualche singolo caso di interesse? Personalmente penso che la situazione vada osservata in un’ottica più ampia: al di là del fatto che ci si possa considerare più o meno fuori dalla crisi economica, siamo invece nel pieno di una enorme crisi politica. È in discussione il fatto che possa continuare a esistere uno stato sociale così come lo abbiamo inteso fino a oggi, uno stato nel quale si conciliavano le esigenze di apertura tipiche della modernità e le altrettanto tipiche tutele maturate nel seno delle società democratiche. Pensare che in una tale bufera le biblioteche possano essere viste come punti di riferimento, come entità in grado di intercettare e di lenire i molteplici e variegati bisogni sociali dei cittadini mi pare uno sforzo inane, per quanto concerne le possibilità delle biblioteche, e inopportuno, per quanto concerne l’epistemologia biblioteconomica. Per certi versi un vero suicidio. Se la politica vorrà eliminare o trasformare le biblioteche in qualcosa d’altro, lasciamo che sia lei a prendersi la responsabilità di farlo. Ma non facciamo sì che i bibliotecari si mettano la casacca di assistenti sociali pur di sopravvivere. Se si deve soccombere, che almeno si soccomba con l’onore delle armi, cioè con la dignità del proprio ruolo. Altrimenti qualcuno mi sa spiegare a cosa sarebbe servita tutta la sacrosanta battaglia per il riconoscimento della professione? Circa un anno fa su AIB-CUR si innescò una discussione attorno alla presenza degli homeless in biblioteca, cioè delle biblioteche come luogo di riparo dei senzatetto. Al di là del fatto – abbastanza interessante, a mio avviso – che l’accusa rivolta alle biblioteche pubbliche di essere solo un posto per consentire alla gente di trascorrere un po’ di tempo al caldo ricorre periodicamente a partire dall’Ottocento, ebbene – dicevo – Giovanni Solimine rispose sulla mailing list che se non si aggiungeva all’accoglienza anche un’attività specifica di integrazione attivata attraverso la partecipazione culturale, allora si era imboccata la strada sbagliata: «in assenza di una specifica iniziativa delle biblioteche rivolte agli homeless come utenti potenziali (ma da discutere e progettare seriamente), vedo solo aspetti negativi in questa pur nobile aspirazione. Mi sembrerebbe solo uno slogan». Appunto: uno slogan. Un pericoloso slogan. Ora, lo so bene che il modello di biblioteca sociale non può essere ricondotto solo a situazioni limite come questa, tuttavia il rischio che esso agevoli l’imbocco di una deriva progettuale che di biblioteconomico non ha nulla è, a mio avviso, molto marcato. Lo dico in modo ancora più chiaro: non possono essere i cittadini a decidere cosa vogliono che sia una biblioteca e cosa sia lecito fare tra le sue mura. Si prenda invece esempio da ciò che accade in architettura nella progettazione partecipativa: si ascoltano i cittadini poi però sono altri, gli esperti, a decidere (e naturalmente a prendersi la responsabilità delle decisioni). La lezione di Giancarlo De Carlo, in questo senso, è stata esemplare: egli affermava che le risposte di un bravo architetto alla partecipazione dovevano essere, senza ombra di dubbio, di tipo personale. Così, credo, dovrebbe avvenire anche per le biblioteche. Purtroppo però, come ha scritto nel suo recente saggio Tom Nichols, viviamo nel pieno di un’era dell’incompetenza, con tutte le conseguenze sulla vita dei regimi democratici che derivano dalle decisioni prese da non esperti. E se addirittura ci si spinge, in modo inverecondo, a sostenere la parità di valore tra le opinioni di esperti e non in tema di vaccinazioni, figuriamoci cosa dobbiamo attenderci quando il tema della discussione andrà a toccare le specifiche funzioni di un istituto culturale.
A. G.
Quando parlo di successo dei modelli bibliotecari sociali e partecipativi mi riferisco a quanto se ne discute nella letteratura biblioteconomica e negli incontri professionali tra bibliotecari, anche se poi sono abbastanza convinta del fatto che l’impatto reale di questi modelli nella realtà bibliotecaria sia piuttosto limitata, a parte poche eccezioni. La mia percezione è che – nonostante il gran parlare che si fa di modelli biblioteconomici – la forza inerziale prevalga e le biblioteche – in particolare quelle italiane – tendano a rimanere sostanzialmente uguali a se stesse, contribuendo semmai a rafforzare un immaginario collettivo ancora esemplato sulle biblioteche ottocentesche. D’altronde, la fascinazione che i modelli esercitano sui bibliotecari rischia di orientare l’azione in direzioni discutibili e velleitarie, in modalità del tutto discrasiche rispetto ai contesti reali.
Un altro possibile rischio connesso all’utilizzo dei modelli, in particolare in un’Italia notoriamente alquanto esterofila, riguarda poi la tendenza a una loro importazione dall’estero senza un livello sufficiente di mediazione e di valutazione del contesto. Accade spesso infatti che modelli elaborati in contesti geografici e culturali altri vengano fatti propri dai bibliotecari italiani senza una adeguata riflessione e una piena consapevolezza dell’applicabilità effettiva a una realtà – come quella italiana – che deve fare i conti con eredità storiche importanti e ingombranti e che presenta differenze interne molto accentuate, quindi richiederebbe probabilmente approcci diversificati.
Se a questo si associa la tendenza a un “uso” mutualmente esclusivo dei modelli quasi sempre a vantaggio di quello più recente, di solito considerato migliore dei precedenti, il rischio di produrre storture modificando forzatamente la fisionomia delle biblioteche – con gli stessi effetti di un intervento di chirurgia estetica mal riuscita – diventa davvero molto alto. Non v’è dubbio che i modelli siano essi stessi un prodotto del contesto e dunque evolvano parallelamente ai cambiamenti di tipo socio-economico e tecnologico del mondo circostante. Per questo – come si è detto – man mano che la realtà cambia e lo fa sempre più velocemente nuovi modelli sostituiscono – e talvolta si sommano – ai precedenti. D’altra parte, ogni biblioteca reale viaggia alla propria velocità, sulla base delle condizioni di partenza e di quelle che via via si definiscono, e dunque un adeguamento al modello biblioteconomico più recente può trasformarsi in un inseguimento fallimentare.
A. S.
Se è vero che non può esistere una spiegazione di ciò che ci circonda in grado di prescindere dai modelli, è altresì fuori discussione il fatto che essi evolvono nel corso del tempo. Di fatto, per il ragionamento che stiamo facendo, l’elemento che realmente caratterizza la contemporaneità è proprio la velocità di “consumazione” di questi modelli così come di tutto il resto, peraltro. Per questo, di fronte a una società che vive una crisi epocale di forme di autorappresentazione e che tende ad avere una memoria corta, sono portato a pensare che un possibile ruolo delle biblioteche debba consistere nella tutela delle prerogative della memoria lunga e nel tentativo di mostrare come sia possibile configurare un rapporto tra cittadini e informazione diverso rispetto alle prevalenti forme di fruizione, cioè di rapido consumo, caratteristiche del contesto commerciale.
Quindi a mio avviso, oggi, una gestione realmente consapevole – anche in ambito biblioteconomico, ovviamente – è una gestione conscia di questa situazione di incertezza, complessità e mutevolezza che segna il nostro quotidiano. E in un tale contesto non si può operare con criteri rigidi ma con una cultura di governo che tenga nel giusto conto la realtà specifica ove ci si trova a operare. Esiste una teoria del management che fa tesoro di questo: è la cosiddetta contingency theory secondo la quale l’approccio corretto nella ricerca di soluzioni efficaci si basa non su modelli rigidamente predittivi ma su una valutazione complessiva di tutti i fattori in gioco, compresi quelli ideologici. Perciò “it depends” è sempre il punto di partenza corretto perché assicura la necessaria elasticità di visione in un mondo in continuo cambiamento e l’opportuna cautela di fronte a decisioni dettate da mode, tendenze, emotività.
A. G.
Inoltre, poiché ciascun modello rappresenta una angolazione possibile di lettura della realtà che non ne esclude altre, integrative e complementari, spesso rappresentate da modelli coevi, sta alla capacità e alla consapevolezza del bibliotecario comporre un mosaico coerente da utilizzare come strumento di progettazione della singola realtà bibliotecaria. Ciascun modello può dunque rappresentare una fonte di ispirazione e un’occasione di riflessione, ma non potrà mai essere l’unica fonte per la costruzione dell’identità di una biblioteca reale, che inevitabilmente dovrà confrontarsi con la propria storia, il contesto di riferimento, i processi in corso, nonché con eventuali altri modelli possibili di riferimento.
Ad esempio, quando a suo tempo nello scrivere del modello della “biblioteca-libreria” avevo utilizzato il caso di studio degli Idea Store realizzati nel quartiere Tower Hamlets di Londra ero perfettamente consapevole del fatto che l’identità di tali biblioteche non potesse essere rappresentata integralmente da questo modello, in quanto essa attinge creativamente – come è giusto che sia – a modelli diversi.
In conclusione, pur concordando con le considerazioni finali esposte nel tuo saggio precedentemente citato, secondo cui un modello oggi deve provare «a rispondere in modo adeguato alle esigenze di complessità del mondo contemporaneo evitando soluzioni preconfezionate in termini di organizzazione di spazi, servizi e funzioni e, allo stesso tempo, riduzionistiche sul piano della dialettica fra tradizione e cambiamento», devo aggiungere che a mio modo di vedere la complessità di un modello non può crescere all’infinito, salvo negare il concetto stesso di modello che è sempre il risultato di un processo riduzionistico. Se il modello non spogliasse la realtà della sua varietà e non ne facesse emergere l’essenzialità finirebbe per diventare una copia carbone della realtà. Non a caso quando a suo tempo avevo parlato di multipurpose library vi avevo fatto riferimento non come a un modello ma come al superamento dei modelli, e il motivo stava proprio nella sua tendenza alla onnicomprensività: la multipurpose library nell’incarnare anime opposte e persino contraddittorie, nel poter prevedere soluzioni diverse e persino antitetiche, suggeriva ai bibliotecari che la biblioteca contemporanea è il risultato di un mix, i cui ingredienti e le cui dosi solo un bibliotecario consapevole e competente è in grado di definire.
Probabilmente oggi la realtà delle biblioteche è così articolata e complessa, e per certi versi anche sfuggente, che nessun modello da solo è in grado di rappresentarla. Non potendo rinunciare ai modelli tout court la cui forza sintetica e interpretativa è tanto più necessaria oggi, la strada è probabilmente quella della convivenza e della non esclusività di modelli diversi che possano essere utilizzati variamente combinati anche in riferimento alla medesima biblioteca.
L’alternativa è arrendersi definitivamente alla mutevolezza e alla varietà del reale.
A. S.
Personalmente credo che il valore principale dei modelli consista proprio nella loro valenza cognitiva. Mi spiego: un modello è innanzitutto valido perché ti obbliga a ragionare per interpretare la complessità del reale prima ancora di proporti una soluzione atta a ricondurre tale mutevolezza e varietà a una certa forma di ordine, necessariamente più semplice del mondo che hai di fronte. Uno dei miei maestri è stato il contemporaneista Giuseppe Papagno che ha lungamente riflettuto sul ruolo dei modelli in ambito storiografico. Alla fine era giunto alla conclusione che essi devono essere visti come griglie il cui scopo consiste nel «desumere, applicare e trasmettere forme di conoscenza derivate dall’osservazione della realtà storica, umana e naturale». Questo è il punto: pensare per modelli significa che, indipendentemente da come essi sono costruiti, si dovrà provare a ricondurre la mutevolezza del reale a una forma di ordine mettendo in pratica un esercizio di simulazione in grado di prefigurare gli effetti dell’applicazione dei modelli stessi. Si otterranno scenari verosimili o no? Ripeto: a mio avviso la questione passa in secondo piano rispetto alla capacità di affinare il senso di osservazione della realtà e l’abilità di proporre soluzioni non univoche, non scontate. Se ci pensi, il vero limite epistemologico della evidence-based librarianship consiste proprio in questo, ossia nella convinzione che la soluzione dei problemi emerga, quasi magicamente, dall’esito di una procedura di decision-making basata sui dati empirici, mostrando cioè un atteggiamento del tutto fideistico nei confronti di una teoria del management ferma all’approccio di Frederick Taylor. Mentre io credo che essi, cioè i dati, rappresentino solo uno degli ingredienti di una riflessione che deve comprendere anche il quadro concettuale. Una riflessione che spieghi come i dati sono stati raccolti, come vengono letti e quali sono le peculiarità specifiche sul piano storico e sociale del contesto a cui si riferiscono. E allora sì, convengo con te che la pluralità dei modelli, il loro gioco – come lo chiamava Papagno – sarà il modo più efficace per saper interpretare la vita delle biblioteche accompagnandone al contempo la loro crescita.