Utopie, biblioteche, nuove utopie: lo spazio della biblioteca in una prospettiva circolare
Dipartimento di Studi storici, Università degli studi di Torino maurizio.vivarelli@unito.it
Abstract
L’obiettivo di questo contributo è quello di discutere le relazioni tra alcuni recenti progetti di biblioteche pubbliche e i contenuti e i valori riconducibili al concetto di ‘utopia’, nella sua articolata polisemia. Il ragionamento proposto si svilupperà secondo i seguenti passi. In primo luogo verrà effettuata una rapida esplorazione del significato della parola ‘utopia’, differenziandolo da quello di altre parole o espressioni ad essa strettamente collegate (‘utopia concreta’, ‘distopia’, ‘estropia’, ‘eterotopia’, ‘ucronia’). Successivamente verranno descritti e valutati, da questo punto di vista, alcuni progetti di biblioteche pubbliche in cui il programma utopico pare particolarmente evidente (Seattle Central Library; Tianjin Library; Helsinki Central Library Oodi), collegandone il profilo ed elementi rilevanti nella definizione dell’identità della biblioteca pubblica contemporanea (ordine/disordine, visività, ‘pubblicità’ e socialità). Infine, ispirandosi alla riflessione del filosofo francese Paul Ricoeur, si discuterà un metodo per valutare le relazioni esistenti tra contenuti simbolici ideali e concreti, per cercare di mostrarne l’intima e circolare connessione, esemplificata attraverso l’apparente contrapposizione tra biblioteche reali e biblioteche immaginarie.
English abstract
The article aims to discuss the relationships between some recent public library projects and the contents and values that can be traced back to the concept of ‘utopia’, in its articulated polysemy. The proposed reasoning will develop according to the following steps. First of all, a rapid exploration of the meaning of the word ‘utopia’ will be carried out, differentiating it from that of other words or expressions closely related (‘concrete utopia’, ‘dystopia’, ‘estropia’, ‘heterotopia’, ‘ucronia’). Subsequently the article describes and evaluates from this point of view some projects of public libraries in which the utopian program seems particularly evident (Seattle Central Library; Tianjin Library; Helsinki Central Library Oodi), linking their profile and relevant elements in the definition of identity. of the contemporary public library (order / disorder, visibility, ‘public’ and ‘social’ model). Finally, inspired by the reflection of the French philosopher Paul Ricoeur, we will discuss a method for evaluating the relationships between ideal and concrete symbolic contents, trying to show their intimate and circular connection, exemplified through the apparent contrast between real and imaginary libraries.
Una biblioteca di nome Utopia
Nel 2018 ad Aalst, in Belgio, è stata inaugurata Utopia. Library and Academy for Performings Arts, su progetto del gruppo olandese KAAN Architecten. La biblioteca prende nome dal celebre libro di Thomas More, stampato nel 1516, con il quale la parola ‘utopia’, e l’immagine dell’isola che ne rappresenta i confini, fa il suo debutto nel lessico e nell’immaginario intellettuale europeo (Figura 1). Tipografo ne era stato Thierry (in fiammingo Dierck) Martens, che proprio ad Aalst era nato nel 1450, e a cui si deve l’introduzione della stampa in Belgio [More, 1516].
La biblioteca, che si sviluppa su circa 8.000 m2, è integrata a un edificio costruito intorno al 1880, destinato a scuola per bambini e militari, sul quale sono state innestate le parti di nuova costruzione, anch’esse in mattoni rossi (red brick) come quelli preesistenti. All’interno sono localizzati gli spazi e i servizi dedicati a un’accademia musicale, alla biblioteca, alle attività convegnistiche, al punto di ristoro (Figura 2).
Al di là di questa pur rilevante contingenza storica, le qualità della struttura (in senso lato correlabili alla sua dimensione ideale e utopica, anche solo secondo il senso comune) possono essere rintracciate nell’affermazione dei progettisti secondo cui l’obiettivo di Utopia è quello di garantire anzitutto «a sense a spatial freedom» e, nello stesso tempo, l’integrazione armonica degli edifici nel tessuto urbano della città, dando origine a un «referent point in the city centre, a new cultural landmark in the everyday life of the citizens of Aalst».
Per quanto il dato storico della origine del tipografo favorisca la percezione di una relazione tra la sfera semantica del concetto di ‘utopia’ e l’edificio concreto di Utopia, la finalizzazione senza mezze parole delle funzioni complessive della biblioteca al conseguimento della spatial freedom, nella sua non definita dimensione ideale, ci conduce sulla soglia di un argomento più ampio e complesso, che con questo contributo si intende affrontare.
L’obiettivo è dunque quello di discutere le relazioni tra alcuni recenti progetti di biblioteche pubbliche e i contenuti e i valori riconducibili al concetto di ‘utopia’, nella sua articolata polisemia. Il ragionamento proposto si svilupperà secondo i seguenti passi. In primo luogo verrà effettuata una rapida esplorazione del significato della parola ‘utopia’, differenziandolo da quello di altre parole o espressioni a essa strettamente collegate (‘utopia concreta’, ‘distopia’, ‘estropia’, ‘eterotopia’, ‘ucronia’). Successivamente verranno descritti e valutati, da questo punto di vista, alcuni recenti progetti di biblioteche pubbliche in cui il programma utopico pare particolarmente evidente (Seattle Central Library; Tianjin Library; Helsinki Central Library Oodi), collegandone il profilo ed elementi rilevanti nella definizione dell’identità della biblioteca pubblica contemporanea (ordine/disordine, visività, ‘pubblicità’ e socialità). Infine, ispirandosi alla riflessione del filosofo francese Paul Ricoeur, si discuterà un metodo per valutare le relazioni esistenti tra contenuti simbolici ideali e concreti, per cercare di mostrarne l’intima e circolare connessione, esemplificata attraverso l’apparente contrapposizione tra biblioteche reali e biblioteche immaginarie.
Si precisa in apertura che l’oggetto specifico di questo contributo riguarda le modalità secondo cui, in contesti storici e progettuali diversi, le parole e le immagini del pensiero utopico abbiano agito, cercando in primo luogo di chiarire l’ambiguità di fondo che, come si vedrà nel paragrafo successivo, caratterizza fin dal suo conio linguistico il significato opaco di ‘utopia’.
Le parole di Utopia
Il Vocabolario Treccani propone due significati per il sostantivo ‘utopia’, che è senz’altro utile iniziare a esplorare:
utopìa s. f. [dal nome fittizio di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia (1516), con le voci greche οὐ «non» e τόπος «luogo»; quindi «luogo che non esiste»]. – 1. Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia). 2. estens. Ideale, speranza, progetto, aspirazione che non può avere attuazione: la perfetta uguaglianza fra gli uomini è un’u.; la pace universale è sempre stata considerata un’u.; queste sono utopie!.
Nel primo caso nel ‘non-luogo’ di ‘utopia’ viene disposto ‘qualcosa’ di organicamente strutturato, che si oppone programmaticamente a quanto avviene nella realtà, e che assume le qualità di un modello ideale verso cui tendere. Nel secondo caso viene mantenuta questa tensione tra idealità e realtà, correlata però a un singolo tema o concetto, che è ritenuto desiderabile, e che si ritiene non possa concretamente o compiutamente realizzarsi. Da questo campo semantico traggono origine il sostantivo ‘utopista’, e gli aggettivo ‘utopistico’ e ‘utopico’.
Nel neologismo originario di Thomas More il lemma è ottenuto con l’utilizzo dell’avverbio ‘οὐ’, ‘non’, e del sostantivo ‘τόπος’, ‘luogo’. Nel termine è inoltre presente un’ulteriore marcatura di significato, fondata sul fatto che, in inglese, la parola ‘utopia’ è omofona a ‘eutopia’, in cui è presente l’avverbio ‘εὖ’ (‘buono’ o ‘bene’). L’‘eu-topia’, dunque, è il ‘buon-luogo’ e l’‘u-topia’ il ‘non-luogo’ in cui il ‘buon-luogo’ può realizzarsi. Il ‘non-luogo’ di ‘u-topia’ e il ‘buon-luogo’ di ‘eu-topia’, dunque, possono arrivare a significare sostanzialmente la stessa cosa.
Al primo significato si riferiscono le grandi narrazioni utopiche sedimentate nella nostra tradizione culturale e letteraria, dalla Repubblica di Platone (IV sec. a.C.) alla Città del sole di Tommaso Campanella (1623), dalla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1627) al socialismo utopico del conte di Saint-Simon, di Charles Fourier e di Robert Owen (secoli XVIII-XIX), fino a tutte quelle codificate in una imponente tradizione filosofica, letteraria e visiva, dai Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1726) a L’anno 2440 di Louis-Sébestien Mercier (1771), da Un’utopia moderna di Herbert George Wells (1905) al Mondo nuovo di Aldous Huxley (1932). A questo significato ci riferiremo in seguito con l’espressione ‘utopia 1’.
In senso estensivo il termine, come si è detto, delimita un ambito di riferimento meno organico e strutturato, per quanto molto ampio, come ad esempio il concetto di pace universale o di uguaglianza tra gli uomini o, ai nostri giorni, la connessione universale di tutti i contenuti digitali nella rete del web, oppure ancora la promozione dell’attuazione di un modello socioeconomico di sviluppo sostenibile. Per questo secondo significato utilizzeremo l’espressione ‘utopia 2’.
All’interno del termine e del concetto di ‘utopia’ si nascondono dunque tensioni e polarità che caratterizzano profondamente la tradizione culturale dell’Occidente europeo, e che a un livello ancora più generale e astratto si esprimono nella disgiunzione dualistica tra la ‘realtà’ («la qualità e la condizione di ciò che è reale, che esiste in sé e per sé o effettivamente e concretamente») e la ‘fantasia’ («Facoltà della mente umana di creare immagini, di rappresentarsi cose e fatti corrispondenti o no a una realtà»). Nella parola ‘fantasia’ va messo per ora in evidenza (ma ci torneremo successivamente) che il risultato della sua attività generativa, le immagini, possono riferirsi o meno alla realtà, e dunque possono essere utilizzate nell’uno e nell’altro dei territori linguistici di ‘utopia’, talvolta in modo indistinguibile, come ad esempio nel caso dei replicanti di Blade runner. Nel campo semantico di ‘utopia’ troviamo dunque oscillazioni e incertezze epistemologiche fondative, che necessariamente si riflettono nelle diverse tipologie di atti linguistici (o progettuali) con i quali il ‘non-luogo’ di utopia passa dal mondo della fantasia a quello della realtà.
Utopia e i suoi doppi
L’utopia si colloca dunque metaforicamente nel ‘non-luogo’ di un mondo possibile, alternativo a quello reale di cui spesso è il doppio critico o satirico. Questo mondo possibile, in tutte le sue articolate implicazioni, talvolta è puramente ideale e fantastico, e talvolta invece può concretizzarsi in un ‘buon-luogo’ concreto. L’incertezza sulla precisazione della differenza tra due mondi è testimoniata anche, con un ulteriore esempio, dall’infinito dibattito che ha riguardato una delle utopie centrali della tradizione religiosa, quella della Gerusalemme celeste descritta nella Apocalisse di Giovanni, che è contestualmente visione ultraterrena (e dunque ben più che fantastica) ed è rappresentata tuttavia molto realisticamente: «le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose» (Apocalisse 22,15).
Il doppio negativo dell’utopia è la ‘distopia’, in cui il prefisso peggiorativo ‘δυσ’ distorce e rovescia l’Eden linguistico del ‘non-luogo/buon-luogo’ originario. La sua origine, attribuita dall’Oxford English dictionary a John Stuart-Mill, viene fatta risalire a una sua comunicazione del 1868 al Parlamento inglese, che formula diversamente il significato del termine ‘cacotopia’, coniato a inizio Ottocento da Jeremy Bentham.
L’espressione ‘utopia concreta’ è riconducibile in particolare all’opera del filosofo marxista tedesco Ernst Bloch, che ad essa fa riferimento nella sua opera principale, Il principio speranza, in cui vengono fortemente valorizzati gli aspetti messianici ed escatologici del pensiero di Marx, individuandovi le fondamenta di una prospettica teologia della speranza, concretamente proiettata nella concretezza della storia e dell’agire umano [Bloch, 1959]. L’utopia è anticipata dalla speranza e Bloch auspica che possa infine compiutamente realizzarsi nel mondo della storia. La prospettiva di una ‘concreta utopia’ è riemersa con Adriano Olivetti anche nel secondo dopoguerra italiano, e in particolare nel Movimento Comunità fondato a Torino nel 1948 [Ferrarotti, 2001a; Ferrarotti, 2001b; Ferrarotti, 2013; Ferrarotti, 2016].
Il concetto di utopia è stato anche approfonditamente trattato da Michel Foucault, che lo elabora con l’ulteriore neologismo ‘eterotopia’ [Foucault, 2006]. Il filosofo francese, in primo luogo, descrive l’ambito di ciò che è denotato con il termine ‘utopia’:
Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. Probabilmente queste città, questi continenti, questi pianeti sono nati, come si suol dire, nella testa degli uomini o, a dire il vero, negli interstizi delle loro parole, nello spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni, nel vuoto dei loro cuori; insomma è la dolcezza delle utopie [Foucault, 2006, p. 11].
A questi luoghi senza luogo se ne possono aggiungere altri, profondamente diversi, le eterotopie:
Ora, fra tutti questi luoghi che si distinguono gli uni dagli altri, ce ne sono alcuni che sono in qualche modo assolutamente differenti; luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli. Si tratta in qualche modo di contro-spazi. I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori […] Questi contro-spazi non sono, in verità, soltanto l’invenzione dei bambini […] La società adulta ha organizzato anch’essa, e ben prima dei bambini, i suoi contro-spazi, le sue utopie situate, i suoi luoghi reali fuori da tutti i luoghi. Ci sono i giardini, i cimiteri, i manicomi, le case chiuse, le prigioni, i villaggi del club Méditerranee e molti altri. Sì, sogno una scienza – dico proprio una scienza – che abbia come oggetto questi spazi diversi, questi altri luoghi, queste contestazioni mitiche e reali dello spazio in cui viviamo. Questa scienza non avrebbe il compito di studiare le utopie, perché bisogna riservare questo nome a ciò che veramente non ha nessun luogo, ma le etero-topie, gli spazi assolutamente altri; la scienza in questione dovrebbe necessariamente chiamarsi, anzi si chiamerà, sia chiama già, etero-topologia [Foucault, 2006, p. 12-14].
Tra questi spazi altri ci sono anche particolari tipologie di eterotopie che sono connesse intimamente al tempo, e dunque alle cosiddette ‘eterocronie’:
In generale si può dire che in una società come la nostra ci sono delle eterotopie che sono le eterotopie del tempo che si accumula all’infinito: i musei, le biblioteche, per esempio. Nel XVII e XVIII secolo i musei e le biblioteche erano istituzioni singolari, espressione del gusto di ciascuno. Invece l’idea di accumulare tutto, l’idea di fermare in qualche modo il tempo o, piuttosto, di farlo depositare all’infinito in un certo spazio privilegiato, l’idea di costituire l’archivio generale di una cultura, la volontà di rinchiudere in un luogo ogni tempo, ogni epoca, ogni forma e ogni gusto, l’idea di costituire uno spazio per ogni tempo, come se questo spazio potesse essere definitivamente fuori del tempo, questa è un’idea tutta moderna: il museo e la biblioteca sono delle eterotopie proprie della nostra cultura [Foucault, 2006, p. 20-21].
Le caratteristiche essenziali delle eterotopie consistono dunque nel fatto che esse si riferiscono a tutti gli altri spazi attraverso una ‘contestazione’ che si può esercitare in due modi. Il primo si aggancia a una delle moltissime forme della utopia («creando un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un’illusione»); il secondo punta invece verso il profilo della utopia concreta («creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico») [Foucault, 2006, p. 25].
Lo stesso Foucault ha utilizzato anche, insieme a ‘eterocronia’, il termine ‘ucronia’, coniato nel 1857 dal filosofo francese Charles Renouvier, in un saggio intitolato Uchronie, ampliato nel 1876 [Renouvier, 1876], che può essere definito come «sostituzione di avvenimenti immaginarî a quelli reali di un determinato periodo o fatto storico, con il quale dunque la polarità ideale/reale viene trasferite dalla dimensione spaziale a quella temporale».
Censiamo infine la parola ‘estropia’, collocandoci in un orizzonte culturale e linguistico radicalmente diverso, quello della corrente di pensiero transumanista. La parola è stata utilizzata dal futurologo inglese Max More e codificata in The Extropist Manifesto [More, 2003; Tomasson - Pellisier, 2010]. ‘Estropia’ è un antonimo, cioè una parola di senso opposto, rispetto a ‘entropia’, con il quale in termodinamica si indica la irreversibile diminuzione di energia di un sistema, che si conclude con la cessazione dello sviluppo del sistema stesso, e in tal senso è stato utilizzato in ambito scientifico fin dalla metà degli anni Sessanta del Novecento. Le parole chiave si cui si basa la sincretica prospettiva transumanista sono indicate, nel Manifesto, con i termini fortemente utopici di endless extension, trascending restriction, overcaming propriety, intelligence, smart machine, in un coacervo linguistico che, sintetizzando e semplificando, può essere descritto come la variante new age del postumanesimo, orientato a discutere il variare delle relazioni negli attuali scenari antropici e tecnologici.
Biblioteche nei territori di Utopia
La Seattle Public Library, con la sua inconfondibile silhouette, è stata progettata da Rem Koolhaas e dallo studio di architettura olandese OMA, e inaugurata nel 2004, al termine di un percorso di progettazione ampiamente documentato [Seattle. Office for Metropolitan Architecture - LMN Architect - Rem Koolhaas, 1999; Seattle. Office for Metropolitan Architecture - LMN Architect, 2005]. L’elemento che a me pare più decisamente utopico (nel senso di ‘utopia 2’) riguarda uno degli elementi cardine dell’identità di qualunque biblioteca: l’ordine dei libri. In aree dello spazio della biblioteca localizzate al primo e al terzo piano, come si può vedere con la Figura 3 e con le due immagini della Figura 4 [Zook - Bafna, 2012], gli scaffali sono disposti in modo deliberatamente disordinato, secondo linee né parallele né perpendicolari, irregolari e oblique.
Questa disposizione altera una tradizione posizionale plurisecolare degli scaffali e dei libri in essi contenuti, secondo la quale i supporti materiali dei libri erano vincolati a rigide geometrie, concretizzando in tal modo l’ordine concettuale che alla conoscenza impressa nei libri veniva contestualmente attribuito [Burke, 2002, p. 109 e seguenti]. L’irregolarità delle linee di forza di Seattle legittima, dunque, spazialmente una delle istanze tipiche della postmodernità, la fine delle grandi narrazioni sistematicamente e ordinatamente effettuate, e legittima visivamente le possibilità estetiche e cognitive di un disordine generativo e creativo, in grado di sollecitare, serendipicamente, la creazione di nuova conoscenza [Weinberger, 2010]. L’alterazione dell’ordine degli scaffali e delle sue implicazioni è tuttavia compensata dalla geometria regolare di altri scaffali, in cui i criteri utilizzati per la classificazione dei libri sono impressi direttamente sul pavimento dell’edificio (Figura 5).
La biblioteca di Tinajin, una delle municipalità più popolate della Cina, soprannominata ‘L’occhio’, inserita nel centro culturale di Binhai, è stata realizzata su progetto del gruppo di architetti olandesi MVRDV ed è stata inaugurata nel 2017. L’utopia che aleggia in questo stupefacente edificio è quella della visività. La sua forma, in particolare nell’organizzazione spaziale della amplissima area di ingresso, attualizza la memoria dei grandi vasi librari delle biblioteche barocche europee del XVII e XVIII secolo, che dovevano essere percepite, interpretate e infine utilizzate a partire dagli sguardi che ad esse erano rivolti [Garberson, 2019]; la biblioteca, dunque, in larga misura coincide con lo spazio che ne materializza l’identità. La forma dello spazio della biblioteca di Tianjin si richiama, alterandolo con linee fluide e sinuose, all’enfatico vaso librario della Bibliothéque du Roi immaginata da Étienne-Louis Boullée nel 1785, che incorpora al suo interno il sogno spiccatamente utopico, e ricorrente nella storia delle biblioteche, di poter radunare in un luogo tutto il sapere del mondo, e consentirne l’utilizzo certamente non a tutti, ma in primo luogo ai membri scelti della Repubblica delle lettere. A Tianjin affiora con evidenza una marcata aspirazione neo-universalista, enunciata spazialmente ed evocata, più che concretamente e bibliograficamente realizzata, attraverso le ondeggianti scaffalature in cui coesistono libri fisici, libri digitali, libri immaginari dipinti, in una inestricabile intreccio di tradizione e di innovazione, di fisico e di digitale, di vero e di falso (Figura 6).
In più, al centro dell’area di ingresso, la metafora del potere estetico e cognitivo dello sguardo è rafforzata dalla rappresentazione simbolica dell’occhio che caratterizza il nome della biblioteca, con una struttura sferica all’interno della quale è localizzata una mediateca, i cui contenuti rimandano anch’essi alla sfera della visività. L’utopia che a Tianjin si realizza, quella di accedere alla conoscenza attraverso lo sguardo, ne cerca le radici in un passato mitico in buona misura decontestualizzato, e innestato in una tradizione culturale completamente diversa da quella europea. Quella di Tianjin è dunque una utopia concreta con evidenti tracce distopiche, in cui lo sguardo è privato di un contesto estetico e cognitivo del quale le biblioteche barocche potevano avvalersi, e che si fondava sulla infrastruttura, condivisa tra le élite intellettuali della Repubblica delle lettere, alimentati dall’ermetismo postrinascimentale, dal pensiero di Raimondo Lullo e soprattutto dal versante esoterico, alchemico e cabalistico delle arti della memoria, che perseguivano l’utopia decisamente non materializzabile di stabilire una biunivoca identità tra il contenuto della mente del fruitore dei Theatri della memoria e i contenuti della conoscenza che nei Theatri stessi venivano organizzati, disposti, resi visibili.
La Helsinki Central Library Oodi, progettata dal gruppo finlandese di ALA Architects, localizzata nel quartiere Töölönlahti, è stata inaugurata nel 2018 e in essa possiamo vedere realizzata l’utopia congiunta della ‘pubblicità’ benefica della public library e della socialità, che è descritta così nel sito web dei progettisti: «The starting point was that the building should be a public, open to everyone, safe, and free of charge space in the hearth of the city» (Figura 7).
Si tratta di valori identitari evidentemente centrali nella storia di questa particolare tipologia bibliotecaria, che sono il risultato di una complessa rete di fattori storici, culturali, sociali, economici, antropologici e organizzativi, ai quali sono dedicati come è noto una quantità imponenti di studi, ricerche, riflessioni. Il valore utopico centrale di Oodi, condiviso con numerosi altri progetti recenti, consiste nella stretta connessione istituita tra ‘pubblicità’ e socialità, e ne individua il centro nella volontà di far convergere in uno spazio aperto, e lì integrare, persone, storie, conoscenza, come si legge nel sito web della biblioteca: «Oodi provides its users with knowledge, new skills and stories, and is an easy place to access for learning, story immersion, work and relaxation. It is a library of a new era, a living and functional meeting place open for all». Ai contenuti indicati con le parole chiave ‘pubblicità’ e ‘socialità’ si possono inoltre associare numerosi simboli e concetti, tutti caratterizzati da una marcata energia utopica, come ‘comunità’, ‘partecipazione’, ‘inclusione’, con il rischio, spesso sottolineato, che un orientamento troppo spiccato in questa direzione possa implicare il contestuale sottodimensionamento dei valori creativi e generativi, anch’essi peraltro in buona misura utopici, riconducibili ai campi metaforici e pragmatici del libro e della lettura. L’utopia pubblica e sociale di Oodi costituisce evidentemente una delle linee di tendenza più spiccate della riflessione biblioteconomica contemporanea, testimoniate sia dalla estesa diffusione delle opere di David Lankes, sia da numerosi altri progetti, all’estero (come ad esempio Idea Store a Londra, DOKK1 ad Aahrus, Birmingham Public Library) e italiani (tra cui San Giovanni a Pesaro, Centro culturale e biblioteca Il Pertini a Cinisello Balsamo, Meda Teca a Meda). L’esito concretizzato di questa rinnovata utopia comunitaria risultano dunque essere gli auspicati benefici derivanti dalla interazione tra le persone in questi spazi resi aperti, entro i quali agiscono bibliotecarie e bibliotecari destinati a ‘facilitare’ i benefici che in questi ‘buoni-luoghi’ si verificano.
L'utopia in biblioteca tra idealità e realtà
Fin qui abbiamo esaminato alcune delle possibili connessioni tra identità della biblioteca e pensiero utopico, riferite in particolare a una selezione minima di recenti progetti di biblioteche pubbliche. Tuttavia, al di là del nome attribuito alla Utopia di Aalst, non risulta facilmente individuabile un programma utopico forte, di tipo 1, in ambito biblioteconomico e bibliotecario, caratterizzato da quella integrazione organica di idealità prefigurata e di positività dei valori che contraddistinguono il campo della utopia nella sua concreta determinazione storica. Nei casi esaminati, e presumibilmente nella maggior parte dei casi, alle biblioteche sono associabili elementi utopici (e dunque utopie di tipo 2), che sono parte di una visione del mondo più ampia, come ad esempio il cartismo in relazione alla nascita della public library, o l’idea di biblioteca immaginata e realizzata da Adriano Olivetti nel contesto del suo Movimento Comunità. Il caso in cui il programma forte risulta più evidente mi pare quello esemplificato con l’esperienza di Oodi, la sottotraccia del quale è collegabile al modello lankesiano di una moderna biblioteconomia che «travalichi i confini», che è «grande in sé» e la cui dimensione concretamente utopica è dichiarata già con il titolo enfatico del primo capitolo di una sua recente opera: La primavera araba: esigiamo l’eccezionale [Lankes, 2020], non distante dai contenuti di utopici slogan che hanno caratterizzato i movimenti di protesta giovanili degli anni Sessanta del Novecento, come ‘L’immaginazione al potere’, ‘Mettete dei fiori nei vostri cannoni’, ‘Siamo realisti, pretendiamo l’impossibile’. Nella riflessione italiana recente evidenti affinità – con tutti i necessari distinguo – sono individuabili con La biblioteca che verrà di Luca Ferrieri, e nella sua tensione verso l’apertura militante della biblioteca pubblica, confermata icasticamente nelle tre righe conclusive: «Vista da questa prospettiva, la biblioteca non è altro che l’ipotesi politica di una nuova città, che risponde alla domanda se sarà possibile abitare insieme la terra» [Ferrieri, 2020, p. 265]. È in questo ambito, insomma, che troviamo i maggiori addensamenti di pensiero utopico, senza naturalmente entrare nel merito della discussione dei modelli biblioteconomici e bibliotecari prefigurati.
In questa sede, tuttavia, vorrei dedicare queste poche righe conclusive a un altro aspetto, che mi pare di grande interesse, per cercare di capire meglio ‘dove’ siano i collocati i contenuti con i quali il programma utopico viene presentato: nella mente dei progettisti? In quella dei membri della comunità di riferimento? Nella materialità degli edifici nei quali quel programma si concretizza?
Il problema non è banale, evidentemente, in primo luogo per il fatto che la consistenza concreta delle qualità di un programma utopico è negata già nel nome del ‘non-luogo/buon-luogo’ della utopia classica; questo è il motivo per cui, quando si è avvertita l’esigenza di orientare verso il mondo della storia i contenuti di utopia si è reso necessario aggiungere un aggettivo al sostantivo, per definire il campo della localizzata utopia concreta. Qual è, insomma, il ‘luogo/non-luogo’ in cui utopia si trova?
Questo tentativo di analisi, per quanto ampiamente replicabile, verrà applicato esclusivamente alle diverse fasi di un percorso di progettazione architettonica, che risulta utile proprio perché, nel suo ciclo di vita, assistiamo al trasferimento dei contenuti tra i due mondi, quello ‘ideale’ e quello ‘reale’. La guida per questa analisi è costituita dal punto di vista e dal lessico di Paul Ricoeur, utilizzato in Leggere la città [Ricoeur, 2008].
Iniziamo la nostra traiettoria (che, anticipiamo, avrà un andamento circolare), con la fase iniziale della progettazione, quando il modello architettonico e biblioteconomico si forma e progressivamente si definisce nella mente dei progettisti, dei diversi stakeholder, dei membri delle comunità partecipative eventualmente coinvolte. Possiamo definire questa fase ‘prefigurazione’, e in essa la futura dimensione spaziale del progetto viene associata alla sua scansione narrativa. A questo punto i contenuti del progetto sono in uno stato sia ‘u-topico’ che ‘u-cronico’.
La fase successiva è quella della ‘configurazione’, e in essa vengono definite le diverse articolazioni del racconto del progetto: messa-in-intrigo o intreccio, intelligibilità, intertestualità:
La «configurazione» del tempo attraverso il racconto letterario è una buona guida per interpretare la «configurazione» dello spazio attraverso il progetto architettonico [Ricoeur, 2008, p. 64].
In questo modo le funzioni abitative prefigurate, ancora u-topiche ma non più u-croniche, vengono inscritte nella «plastica del progetto architettonico» [Ricoeur, 2008, p. 65].
L’ultima fase è quella della ‘rifigurazione’, che corrisponde a quella della lettura nel caso del racconto testuale. I contenuti prima ‘u-topici’ e ‘u-cronici’ si sono gradualmente concretizzati nello spazio della biblioteca, che viene ‘visto/usato’, e dunque in senso generale ‘letto’, dai suoi fruitori. La biblioteca si è radicata nello spazio-tempo della realtà costruita, quella che viene abitata dalle persone.
L’abitare, tuttavia, non va inteso come il punto di arrivo sequenziale, lineare e finale di un processo. Seguendo la traccia di Costruire, abitare, pensare, celebre saggio di Martin Heidegger, possiamo affermare che l’abitare precede il costruire; la causa finale diviene causa efficiente; il contenuto utopico è presente, ma in stati diversi, sia all’inizio (nella fase ‘u-topica’ e ‘u-cronica’) che alla fine del percorso (nella fase della concretezza spazializzata) [Heidegger, 1976, p. 96-108]. Il termine ‘abitare’, per mantenere esplicita la relazione con il campo dei contenuti utopici, va inteso come l’insieme dei contenuti prefiguranti, di qualunque natura essi siano. Tra questi eterogenei contenuti (immagini e concetti delle più diverse tipologie) un ruolo centrale va attribuito alle immagini, la cui presenza è evidente nel termine ‘figura’, al centro del lessico di Ricoeur, che significa proprio concretizzare il modello ideale, plasmarlo. I contenuti utopici, dunque, abbandonano il ‘non-luogo’, e si calano incarnati in una ‘forma’ nella realtà.
Questi contenuti spazializzati, a loro volta, avvalendosi e utilizzando immagini, innescano e danno l’avvio, circolarmente, a ulteriori cicli di prefigurazione/configurazione/rifigurazione, destinati questa volta ad accadere nell’esperienza percettiva dei fruitori di quegli spazi, in una oscillazione continua tra ‘luoghi’ e ‘non-luoghi’, tra orizzonte dell’utopia e orizzonte dell’utopia concreta.
In questo consiste la circolarità continua e incessante tra il mondo di utopia e il mondo della realtà, che solo in apparenza sono dunque attribuibili a due sfere tra loro rigidamente contrapposte, quelle della idealità e della fantasia e quelle della realtà e della comprensione razionale. Le immagini, solo in apparenza fragili e delicate, insomma, sono il solido ponte che consente a Utopia, e alle utopie locali, di concretizzarsi nel mondo della realtà e della storia.
Mi auguro che questa piccola analitica del pensiero utopico, e delle sue relazioni con le biblioteche, sia stata di una qualche utilità per i suoi lettori, per comprendere meglio ciò che avviene sia nelle diverse fasi della progettazione di una biblioteca, sia in tutte le occasioni in cui assistiamo alla apparente trasformazione della idealità immaginaria e fantastica dei contenuti utopici in quella delle concrete forme in cui essi si materializzano.
La parola ‘biblioteca’, accogliendo questa ipotesi di lavoro, nel ciclo di vita di un progetto, e all’interno delle sue diverse modalità d’uso, si riferisce sia ai contenuti ‘ideali’ prefigurati che a quelli ‘reali’ configurati. Ogni biblioteca, dunque, è sia ‘immaginaria’ che ‘reale’.
Biblioteche immaginarie e biblioteche reali
Anche in altre occasioni ho richiamato il manifestarsi di questa polarità tra immaginario e reale nella esperienza e nella riflessione di Giuseppe Fumagalli, una delle figure più autorevoli della storia della cultura bibliografica italiana a cavallo tra Ottocento e Novecento. Fumagalli nel 1890 pubblicò uno dei suoi libri più noti, Della collocazione dei libri nelle biblioteche pubbliche, che si occupa del metodo necessario per trattare gli aspetti materiali e concettuali dell’ordinamento dei libri in biblioteca [Fumagalli, 1890]. Due anni dopo la pubblicazione di quest’opera, convintamente collocata entro i confini della bibliografia e della biblioteconomia ‘reale’, lo stesso Fumagalli diede alle stampe un volumetto in cui decide che sia utile occuparsi, oltreché di libri ‘reali’, anche di ‘immaginari’. Ciò accade in un momento importante della sua vita, in occasione delle nozze con Angela Sajni, celebrate a Cremona il 18 aprile del 1892; e proprio alla futura moglie che il libro è dedicato:
Mia carissima,
Tu hai avuto la melanconica idea di sposare un bibliotecario; e la chiamo melanconica, perché i bibliotecari non hanno voce di essere le più allegre persone del mondo. Vero è che oggi è quasi scomparso il vecchio tipo dei bibliotecari, tagliati all’antica, sempre sepolti tra le carte coperte di polvere, dotta sì, ma poco pulita, con la barba lunga ed incolta […] Come può far lieta compagnia ai vivi uno che sta sei ore al giorno con i morti? [...] Per punirti dunque di questo tuo ghiribizzo ho inventato un nuovo supplizio, quello cioè di allestirti un poco di bibliografia nel giorno stesso del nostro matrimonio, a te che provvidenzialmente hai un sacro terrore delle schede, dei cataloghi, di tutto l’armamentario bibliografico. Eppure ti conviene armarti di pazienza, e sorbirti la mia cicalata; ma poiché tu nutri un così mediocre interesse per le biblioteche vere, io ti parlerò oggi delle biblioteche immaginarie e dei libri che non esistono, e forse l’argomento potrà piegare ad un sorriso le labbra tue e di coloro che mi leggeranno, e sarà quindi più confacente a un giorno di festa quale oggi [Fumagalli, 2007, p. 35-37].
Fumagalli desidera far comprendere alla persona che ama il valore delle biblioteche alla luce del loro doppio fantastico, e per questo sceglie di avventurarsi in un territorio ‘altro’ rispetto a quello arcigno e malinconico della cultura bibliografica di cui lui stesso era autorevole esponente, governato dalla leggerezza di un sorriso indispensabile in un giorno di festa molto speciale.
Ecco allora che, in conclusione di questo ormai lungo percorso, vorrei proporre alcuni elementi di un possibile campo utopico (nel senso che abbiamo discusso), che attraverso le immagini, prefigurate e rifigurate, alimenta da millenni la storia delle relazioni tra le biblioteche e le persone; un campo in cui sono presenti elementi ‘ideali’ e ‘reali’, tutti prelevati dal misterioso «pozzo aniconico» che tutti noi condividiamo, elementi archetipici e funzionali, utopici e concreti, unificati tutti, incessantemente e circolarmente, dalla trama visiva delle immagini [Ferraris, 1996, p. 17]. Questi contenuti possono orientare verso il futuro l’avventura storica delle biblioteche, sia di quelle ‘immaginarie’ che di quelle ‘reali’, mantenendole sempre radicate nella rete delle invarianti profonde che ne contraddistinguono l’identità, e aprendola a nuovi cicli, creativi di nuove utopie, sospese nei territori incerti dei ‘non-luoghi’ e nello stesso tempo generatrici di ‘buoni-luoghi’, nelle loro concrete determinazioni storiche e tuttavia unificati anche grazie alla forza aggregante e coesiva delle immagini.