Memoria e narrazioni: una conversazione con Alessandro Portelli sulle fonti orali
Dipartimento di Lettere e culture moderne Sapienza Università di Roma paola.castellucci@uniroma1.it
Abstract
Intervista di Paola Castellucci ad Alessandro Portelli
English abstract
Paola Castellucci interviews Alessandro Portelli
Alessandro Portelli (1942), uno dei fondatori e dei principali teorici della storia orale, è stato professore di Letteratura angloamericana presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. L’intervista è stata raccolta il 29 marzo 2021.
Come ribadisce sempre Sandro Portelli, occorre avere qualche dato rispetto al contesto. Una volta, invitato nel momento in cui la ex Scuola speciale per archivisti e bibliotecari della Sapienza stava ridefinendo corsi, nome (doveva essere, credo, il 2009) iniziò dicendo: «it takes two to tango». Un’intervista vede due protagonisti, l’intervistato e l’intervistatore. Si guardano, e devono potersi fidare l’uno dell’altro. Certo, uno guida e l’altro segue. E a maggior ragione è così in questo caso: non solo per l’autorevolezza di Portelli (uno dei maggiori studiosi di fonti orali in Italia); ma anche perché nei suoi confronti ho da 40 anni una posizione silenziosa e appartata, dal momento che me lo ricordo come studentessa. Nel frattempo è anche capitato di seguire due tesi insieme, in Documentazione, e quindi in una materia dalla decisa anima politica e che sin dalla fine dell’Ottocento ha consapevolmente cercato di legittimare anche “altre” tipologie di fonti, dal microfilm alle registrazioni sonore, fino alla rete, possibilmente open. Ma, trattandosi di un numero monografico di Biblioteche oggi Trends sul tema della memoria, è forse opportuno che si percepisca “Sandro Portelli” anche attraverso una memoria personale del “Prof. Alessandro Portelli”, esperto di letteratura afroamericana, Native American, letteratura del Settecento e nascita dell’identità americana, di Black Panthers e poeti del Novecento, e ancora, di blues e di musica popolare americana, di Woody Guthrie cantore dell’America dei poveri bianchi della grande depressione, e ancora, di generi della letteratura popolare, della fantascienza politica, e molto altro. Era il 1985. Proprio in quegli anni si stava consolidando anche in Italia il mito della poetessa di Amherst: ma Portelli aveva da raccontare un’“altra” Emily Dickinson, grande, eccezionale, unica voce, ma anche erede del modo collettivo di vivere (o di rifiutare) la fede propria dei congregazionalisti. Portelli a lezione evidenziava come Emily Dickinson parlasse di quella cultura, e perfino di quel che sembrava omettere (la Guerra di secessione) e si inserisse nel solco della grande tradizione degli inni. In definitiva, anche Emily Dickinson cantava. Ancora non era uscito il libro da lui curato su un’“altra” America, quella povera, poverissima, ma consapevole e impegnata politicamente, della regione mineraria degli Appalachi, West Virginia. E ancora, non era il tempo dei suoi corsi su Toni Morrison e della traduzione delle ballad di Bruce Springsteen dedicate a New York, my city of ruins. E ancora non erano usciti molti dei suoi libri su Terni, o sui Castelli romani, e non era uscito il libro che raccoglie le interviste sulle Ardeatine (1999) e che segnerà il riconoscimento internazionale di Portelli. Per fatalità, la conversazione con Portelli (un’intera mattinata, su Google meet) è avvenuta proprio nella settimana delle rievocazioni delle Ardeatine: «…anche tre al giorno, su webinar», mi dice…
Come avvengono le rievocazioni delle Fosse Ardeatine in webinar? Che effetto ti fa?
… riluttantemente… ma mi sto abituando. Infatti credo che dopo Pasqua, potendo, comincerò a fare anche interviste di storia orale così. L’unica cosa, inizierò da persone che già conosco, perché diventa più difficile stabilire una relazione che non sia proprio superficiale. Però, con l’andare del tempo, come ci siamo abituati al registratore e alla telecamera, magari ci abitueremo anche alle interviste via web. Qualcosa perdiamo, qualcosa acquistiamo.
Hai sempre sottolineato questo aspetto: potersi fidare di chi ti intervista. Prima eri tu che andavi a casa loro, adesso anche loro “entrano” a casa tua…
In condizioni normali io vado a casa loro. Adesso invece loro vedono casa mia. Mi vedono seduto alla mia scrivania, con i libri dietro. Questo comporta che il tipo di aspettativa nei miei confronti è meno individuale: la percezione non è Sandro Portelli che è venuto a farmi un’intervista, sono più il “prof.” Portelli. Ed è anche un’immagine televisiva. Si attiva un’altra grammatica. Prima c’erano dei rituali: prendere il caffè, ad esempio (e magari aggiungevano due cucchiaini di zucchero, quando io lo prendo amaro). Il messaggio in effetti era: qui ci sono le regole di casa mia. La dimensione formale era molto mediata da una relazione sociale. Mi verrebbe da dirti, prendiamoci un caffè insieme, ora, tu a casa tua e io casa mia
Ma lo sai? Lo hanno già organizzato: corsi informali di lingua, anzi, conversazioni, tra studenti Erasmus, online, come se si trovassero davanti alla macchinetta del caffè, in corridoio. L’ho visto qualche giorno fa sul sito Sapienza… Come hai detto, ci siamo abituati all’“elogio del magnetofono”, prima ancora ci eravamo abituati all’epoca della riproducibilità dell’opera d’arte, e non solo dell’opera d’arte. In questo mix inaspettato tra pubblico e privato, globale e locale, durante la pandemia, tutto diventa un evento televisivo. Prima forse ci chiedevamo “quale vestito metto?”; ora invece ci chiediamo: “che sfondo metto?”, ossia, in che sfondo, in che contesto, mi metto? Forse ancora non abbiamo il distacco per capire. Avremo tanto da studiare…
Vedi… l’intervista è “comunque” una mediazione tra pubblico e privato. Io penso sempre a quella famosa frase di Benjamin Franklin: «non ti vesti per una conversazione privata come ti vestiresti per un ballo in pubblico». In effetti, quando facciamo un’intervista, incentiviamo le persone che intervistiamo a vestirsi e a comportarsi come se si trattasse di una conversazione privata, ma poi… la mettiamo in pubblico. È paradossale! Quindi, questo aspetto di dove avviene l’intervista è importante, e la scelta appartiene a loro, a chi viene intervistato. Dove facciamo l’intervista? In cucina? In salotto? Giulia Spizzichino, ad esempio, l’ho intervistata in cucina, al tavolo. Un esempio che mi viene in mente è un operaio ternano, assessore al bilancio (quella era un’epoca preistorica, sembra incredibile, ma erano tempi in cui un operaio poteva essere assessore al bilancio): prima lo intervisto in casa, in tuta, con la moglie e la figlia. Poi, quando gli sembra che la trascrizione del suo parlato quotidiano entrasse in contraddizione con il suo ruolo pubblico, vuole essere nuovamente intervistato, ma questa volta nel suo ufficio, alla scrivania, e dice «io sono una persona pubblica». Adesso, ho l’impressione che online le persone siano molto più consapevoli della dimensione pubblica (la scelta dello sfondo, accettare il link ecc.). Ricordo che una collega americana – Ken Lacy Rogers – che aveva fatto interviste sulla memoria dei linciaggi nel Sud degli Stati Uniti, diceva che in molti casi le persone non volevano interviste in video perché non volevano che si vedessero le condizioni di vita, le case poverissime. E in America se sei povero… Non ho mai fatto interviste video. Devo rifletterci.
Hai sempre sottolineato questo aspetto. Motivo per cui ho escluso l’ipotesi di registrare il video di questa conversazione…
Diciamo questo: non siamo in grado di fare una lettura analitica del linguaggio del corpo, delle espressioni del viso. Diciamo “sembrava triste...”. Ma che vuol dire? In base a che cosa decidi che sembra triste? Sono letture impressionistiche (e sono molto interessanti su questo le cose che dice Giovanni Contini). L’altro elemento da considerare è la dimensione unidirezionale del video: viene deciso cosa inquadrare. E poi non sono capace, non sono formato per il video, non ho gli strumenti adatti. E se adesso l’intrusività del video è percepita sempre meno, tuttavia esiste. Inoltre, un buon uso del video comporta la presenza di una terza persona, che inquadra sia l’intervistato che l’intervistatore. E già la presenza di una terza persona modifica la conversazione. Almeno un pochino. Comunque, non ne farei un tabù. Infine, anche le migliori interviste video, perfino quelle della Shoah Foundation, sembrano un monologo, non un dialogo.
Anche nelle rievocazioni delle Fosse Ardeatine cerchi quindi di evitare l’effetto monologo? Ad esempio, l’ultima che hai fatto, come mi dicevi, per il Liceo “Pilo Albertelli”? Come fare per attivare un dialogo anche se si è su piattaforma web?
Io ero a casa mia, e alcuni erano a scuola, altri a casa. Vedevo solo l’amministratrice del sito. Non vedevo gli ascoltatori, o almeno solo se facevano una domanda. Vedevo anche Davide Conti, lo storico, ma lo vedevo malissimo, proprio perché la sua telecamera non funzionava bene. Nel caso di gruppi più piccoli, riuscivo a vedere una ventina di facce. Una cosa che guadagni è la dimensione spaziale: sono tutti lì. Mi viene in mente una delle prime cose che ho fatto in questi giorni per le Ardeatine, rivolta alla Cattedra Calvino in Cile: erano collegati anche dal Messico, Venezuela, Brasile, Argentina. Il web ha allargato il contesto a una dimensione mondiale, eppure la tipologia dell’iniziativa era simile a quella fatta per una scuola di Civitavecchia: alla fine erano tutte sullo stesso piano. Quindi, questa è una cosa che guadagni da una dimensione online: allarghi lo spazio. Ma “il segno meno” (fammelo formulare perché lo sto pensando adesso) riguarda altri aspetti: fai più fatica ad accorgerti se “li stai perdendo”. Sì, è vero, c’è un gesto specifico che devono fare: collegarsi, accettare il link. Ma poi? Magari leggi “Mario Rossi ha lasciato il video”, ma se spengono la telecamera e fanno i fatti loro non lo sai. Dal vivo vedi qualcuno nelle ultime file che inizia a chiacchierare, a distrarsi; e allora rimoduli, per cercare di raggiungerli o per lo meno per cercare di tutelare chi invece vuole seguire. Qui non disturbano. Ognuno è separato, sta per conto suo. Non ti accorgi quando li stai perdendo. E poi è proprio un tipo assolutamente diverso di attenzione. Alcuni magari simpatizzano per tutt’altro...ma sono lì, obbligati dalla scuola, a seguire un’iniziativa sulle Ardeatine.
…sembra un mix tra il Panopticon e Bartleby: un po’ sei obbligato e un po’ puoi dire di no…
La loro forma di resistenza non è prendere la parola e contestarti. La resistenza è proprio nella disattenzione. Spengono la telecamera.
Ritornando alla mediazione, allo strumento. Mi ha sempre molto colpito quando racconti delle primissime registrazioni, nel 1969. Leggevo un giallo di Simenon, Maigret e l’omicida di rue Popincourt, pubblicato proprio nel 1969 e ti ho pensato: un ragazzo della buona società parigina, iscritto ad antropologia alla Sorbona. Va in giro a registrare “documenti umani”. Alcuni non hanno nemmeno mai visto un registratore, non sanno cos’è. Alcuni sono spaventati, o comunque insospettiti. Mi è venuto subito in mente dei tuoi racconti delle registrazioni ai Castelli, fatti pochi giorni dopo Piazza Fontana… anche tu arrivavi con uno strano “ordigno”. Che ricordo hai di quel momento?
“Il mito delle origini”: io ho in spalla una valigetta nera…e quattro giorni prima una valigetta nera aveva fatto quello che aveva fatto. Per giunta è evidente che io non sono uno di loro. Non vivo lì, non mi hanno mai visto in osteria. Io registro loro che suonano e cantano. Poi mi chiedono cosa faccio. Sono curiosi. E quando scoprono cos’è si divertono a risentirsi. La paura è durata poco, poi è prevalsa la curiosità. Il registratore era ancora un oggetto raro, riascoltare la propria voce è un’esperienza insolita. Io fin da ragazzo avevo in casa il Gelosino, lo avevano regalato a mio padre, chissà perché, perciò non ho mai avuto remore a registrare (ovviamente chiedendo il permesso); invece fare una fotografia, lo sento ancora come più intrusivo…
Lo comprendo perfettamente. Sono più disposta a farmi registrare, anche a lezione. Farsi fotografare, non so, implica mettersi in posa, e questo crea distanza. Invece la voce è un flusso…
Sì. Ma, vedi, è anche semplicemente solo un modo di percepire le cose. Ad esempio, considera un grandissimo libro: Sia lode ora a uomini di fama, di James Agee e Walker Evans. Un libro degli anni Trenta (anche se esce nel 1941). Gli autori vivono per un certo periodo con una famiglia di braccianti poverissimi in Alabama, e fanno foto. Il libro è straordinario perché non comincia con un testo, ma con fotografie. Venti pagine di foto, senza didascalie. E la cosa appunto che viene fuori è che sono tutte foto in cui si mettono in posa. Sono foto in cui le persone si “autorappresentano”. Ci sto pensando ora, mentre te lo dico: la foto è comunque istantanea, è uno scatto. Anche con la registrazione, in fondo, ti metti comunque in posa, ma dura nel tempo. Dici quello che vuoi dire, cerchi di apparire, ti poni il problema di come vuoi essere visto. Però, sì, è un flusso. Nella foto, invece, ti congeli.
Ma, ripeto, sono scelte. Prendi ad esempio Ansano Giannarelli (che certo con la macchina da presa ci sa fare!). Quando va a intervistare le stesse persone che avevo intervistato a Terni, ottiene un ritratto assolutamente diverso. Le persone sono completamente diverse nel suo video. Prendi il mio amico Amerigo Matteucci, sindaco, bracciante agricolo (perché, pensa un po’, all’epoca, un bracciante agricolo poteva essere sindaco!). È stato sindaco per 43 anni, comunista, in un posto che poi alle politiche votava democristiano… ma lui era una figura carismatica. Ebbene, lui è lì, al suo tavolo di sindaco, in giacca e cravatta, con dietro la bandiera nazionale. E io, invece, lo avevo registrato mentre cantava stornelli in osteria. Nel video, invece, è assolutamente ingessato nella gestualità. Ma quale gestualità? La gestualità di chi sa di stare in video. Ti dicono (e, per carità, hanno ragione) il video ti aiuta perché mostra la gestualità. Sì, ma: fermi un attimo! Mentre tutti imparano dalla televisione come ci si comporta in video, non c’è una grammatica di come ti racconti in audio. Quindi, leviamoci dalla testa che con l’audio, col video, abbiamo accesso a una qualche forma di “autenticità”. Abbiamo sempre accesso a una qualche forma di “rappresentazione”. Ecco la mia perplessità rispetto al video: se non hai gli strumenti per decodificare la rappresentazione, corri il rischio di prenderla alla lettera. Non penso che l’audio sia “meglio” del video: per alcune cose è meglio il video, e viceversa. Ma, è importante, sull’audio abbiamo delle categorie interpretative basate sul linguaggio, sulla parola. Abbiamo la retorica. Sulla gestualità, invece, mancano anche i termini per descrivere i gesti. Dobbiamo poter nominare il gesto. Ma non conosciamo i nomi dei gesti, e le loro funzioni. Uno dei pochi nomi di gesti che conosco è questo: la “bacchetta” [fa il gesto], e ha funzione assertiva. Ho alcuni libri di disegni e foto di gestualità napoletana. Li decodificano, hanno gli strumenti idonei per farlo (come faceva Diego Carpitella nei suoi documentari sulla “cinesica”). Ma a questo punto non siamo più dentro la storia orale ma dentro un’altra forma di documentazione storica. La storia orale, secondo me, ha al centro la parola, il linguaggio. Con il video, anche se lo usi bene, sei comunque dentro un altro tipo di documentazione.
Hai nominato Diego Carpitella. Il coro Sapienza è dedicato a lui, ed è questo un modo per farlo rimanere nella nostra memoria. Ti sei laureato con lui e Agostino Lombardo, vero? Quando hai iniziato, nel 1969, eri nel gruppo di ricerca di Carpitella? Intendo dire: quando fai le interviste, ora, arriva Sandro Portelli, sei immediatamente riconoscibile. Ma allora andava un ragazzo a fare le interviste…
Andavo con la massima ingenuità possibile. E andavo a titolo personale. Sì, Carpitella mi ha fatto da correlatore alla tesi, su Woody Guthrie. Ma non lavoravo nel suo gruppo. Avevo nei confronti di Carpitella una forma di soggezione, ovviamente (e poi… non è che lui fosse un carattere facilissimo). Sono sempre stato un paio di passi indietro rispetto a lui. E questo, devo dire, ha fatto sì che i rapporti fossero sempre abbastanza buoni. Non mi sono mai preso familiarità, ecco. E poi, allora ero del tutto ingenuo. Nel mio precedente soggiorno americano mi ero appassionato alla musica popolare e ai suoi i rapporti con i movimenti di protesta, per i diritti civili, o contro la guerra. Ma quando torno, scopro che c’era anche in Italia (lo scopro tramite Gianni Bosio). Cosa facevo? Qualcosa che adesso non si può fare più. Ad esempio, arrivavo a Labro, sopra Piediluco, e chiedevo: “ma c’è qualcuno che suona, che canta, qui?”. “Sì – mi rispondevano – Trento Pitotti, seconda strada giù in discesa, terza casa”. Piglio: stessa domanda, seguo le indicazioni e mi ritrovo in una delle più belle scene mai viste. Sembrava finto, un film: uno accanto al focolare, a suonare l’organetto. Adesso non accade più perché la consapevolezza del fatto che esista il “folk” fa sì che la gente ti percepisca come interno a un universo di spettacolo.
L’altra cosa che allora mi distingueva era che – proprio come diceva Bosio – non spegnevo mai il registratore. Effettivamente sono sempre stato più vicino a Bosio che a Carpitella. Gli etnomusicologi erano interessati a ottenere la migliore registrazione possibile. La grande differenza è che per, mettiamo, Roberto De Simone, occorreva prendere atto che i cantori di Montevergine, ad esempio, sono degli artisti, e dunque occorre documentarli al meglio, portarli in studio, ottimizzare la qualità del suono. Nel caso di Bosio non è questo il punto. Sì, certo, riconosce la valenza artistica e preferisce una registrazione ben fatta, ma più che a un gesto artistico pensa a un evento sociale. Ti faccio un esempio: un magnifico disco di Erasmo Treglia (collaboratore di Ambrogio Sparagna), il Miserere di Sessa Aurunca. Il Miserere di Sessa Aurunca è una polifonia popolare splendida. L’acustica del disco è buona, ottima; sono state utilizzate le migliori attrezzature. Il disco è una meraviglia. L’ascoltavo un giorno a casa, con mia moglie Mariella e le chiedo: in che cosa sarebbe diverso se lo avessimo fatto noi? Lei risponde: “Si sentirebbe lo scalpiccio della gente in processione”. Sì. Il gesto artistico è dentro l’evento sociale. In questo continuum tra artistico e sociale, pendiamo di più verso il contesto sociale. Se nella registrazione di qualcuno che canta “Ci alziamo la mattina” nell’osteria di Rocca di Papa, si sente sullo sfondo la gente che gioca a morra, questo non è un fastidio ma un dato storico e sociale. Anche noi cerchiamo le belle voci, cerchiamo di registrare al meglio possibile, però… io penso che Diego Carpitella avrebbe detto “per favore fate silenzio che registro”. E non si sarebbero offesi. Forse.
Come diceva la grande Emily… il significato è nelle differenze. Mi è molto chiara la differenza tra De Simone e Gianni Bosio. Risentendolo recentemente, ho fatto caso che De Simone diceva che voleva i mezzi migliori, o registrava proprio in studio, per far prevalere l’artista. Tu invece, cerchi i mezzi meno intrusivi per far sentire l’impasto sonoro, il contesto. L’hai reso benissimo, grazie. Sempre restando sulle “differenze”, sui diversi approcci metodologici, e perfino emotivi: spesso si sente dire “anch’io lavoro con le fonti orali”. Ma poi, vai a vedere, e fanno giornalismo, o sondaggi d’opinione. Dov’è, secondo te, la “differenza”?
Mah, guarda, voglio dire, intanto distinguiamo fonti orali e storia orale. E anche tra fonti e storia. Nel senso che il giornalismo ha una sua funzione, e il sondaggio d’opinione pure, e servono a delle cose. Poi molto dipende da come lo fai. C’è giornalismo di alto livello (García Márquez), e c’è giornalismo volgare (vedi tanti intervistatori televisivi); o ancora, c’è giornalismo che si presenta come d’alto livello ed è invece una violazione intrusiva (Oriana Fallaci). La differenza di fondo direi che sta nello spazio che dai alle fonti.
Pensiamo al sondaggio d’opinione. Intanto, per ottime ragioni statistiche, limita il campo delle cose che puoi dire: puoi rispondere sì/no, oppure dare un valore numerico a qualche opzione. Ad esempio: “sei favorevole o contrario alla pena di morte?” Ma ci sono 100.000 gradazioni tra il sì e il no! Poi, l’intervista giornalistica è legata al tema corrente, al tema discusso. Anche se, devo dire, vedo spesso nei supplementi culturali delle lunghe interviste che sono vicine a una dimensione “storia di vita”. Ci sono gradazioni di ogni genere.
Però, diciamo, una normale intervista di storia orale, invece, sostanzialmente parte con: “dimmi quello che ti pare”. E il lavoro della storia orale è meno direttamente orientato a un prodotto immediato ed è più di lungo periodo. L’articolo giornalistico deve uscire il giorno dopo (più o meno). Il sondaggio d’opinione, pure. Il lavoro dello storico, invece, ha i suoi tempi. Anche qui: ci sono delle interviste che possono aspettare e delle ricerche storiche che hanno un’urgenza. Bisogna considerare le gradazioni.
In secondo luogo, diciamo che c’è un altro continuum, ed è tra pubblico e privato. In un’intervista giornalistica normalmente ci si rivolge a personaggi pubblici. Le domande per chi non è un personaggio pubblico sono più rare. La tipica domanda a un personaggio non pubblico è “lei perdona?” Oppure: “come ci si sente…?”. L’intervista di storia orale privilegia invece sin dall’inizio le persone che non hanno già una dimensione pubblica (il tema che abbiamo trattato l’altra volta). E poi c’è una questione di flessibilità: se intervisti l’uomo politico su una crisi di attualità e quello si mette a parlare d’altro, non è che tu lo accompagni, semmai lo fermi. Anche nelle interviste di storie orali cerchi di fare così ma poi, alla fine, spesso, ti lasci andare.
E ancora, un altro elemento importante: quando parliamo di storia orale, sostanzialmente parliamo di rapporto con il passato, mentre tendenzialmente il giornalismo si occupa del presente, e decisamente si occupa del presente il sondaggio d’opinione.
Possiamo dire questo a partire dalle nostre cose degli anni Settanta. E poi c’è una diversa attenzione alla qualità linguistica, all’uso del linguaggio. Ad esempio: per molti anni ho pubblicato il 24 marzo, per il Manifesto, un’intervista fatta sulle Ardeatine. Intanto facevo una grossa forzatura rispetto al linguaggio giornalistico abituale perché mantenevo molto l’oralità (anacoluti, modi di dire, ripetizioni). Però lo correggevo, lo normalizzavo, per il giornale, molto di più di quanto faccio per pubblicare la stessa intervista su libro e, a sua volta, questo livello di normalizzazione è molto di più di quanto faccio per mettere l’intervista in archivio. Devi fare i conti con chi stai parlando. E se il pubblico è quello di un giornale, allora il grado di leggibilità immediata deve essere un pochino più facilitato, rispetto a quello che fai quando scrivi un libro. Quindi hai tutto questo tipo di gradazioni. La differenza fondamentale è il diverso grado di libertà che tu offri all’intervistato, secondo me. Quindi il diverso grado di flessibilità del tuo ascolto. È sempre questione di gradazioni.
E l’ascolto nei tuoi confronti, in quanto intervistatore? Tornando al “mito delle origini”: quando tu arrivi lì ai Castelli romani, l’hai detto, eri ingenuo, eri un ragazzo, non eri ancora “Sandro Portelli”. Come catturi il loro ascolto? In quel momento che stavi facendo? Lavoravi? Avevi bisogno di qualcuno che finanziasse le tue ricerche?
Mi ero laureato nel 1966 in Giurisprudenza, e dal 1962 ero impiegato al CNR. Mi era venuto gradualmente crescendo negli anni Sessanta un interesse politico che non avevo per tradizione familiare. E quindi a un certo momento prendo questa decisione: l’orario dell’impiegato era 8.30-14.00, e poi in effetti diventava 9.00-13.30; dopodiché integravi lo stipendio con due ore di straordinario, nel pomeriggio; ma siccome vivevo ancora in famiglia, quindi non avevo grandi problemi per mantenermi, presi la decisione di non fare più le ore di straordinario e dedicare i miei pomeriggi a questo progetto. Per cui io uscivo dall’ufficio e partivo con la macchina. Quindi non mi finanziava nessuno. Fin da allora, sostanzialmente, ho sempre lavorato autofinanziandomi, grazie al fatto di avere uno stipendio, prima come impiegato e dopo come professore. Quindi ho iniziato così, con delle grandi ingenuità. Per esempio, quella storia che racconto sempre, di Trento Pitotti, a Labro: io vado lì e non gli spiego che cosa stavo facendo, “perché” lo sto facendo, chi sono. Risultato: mi cantò quelle due famose canzoni fasciste… peraltro molto interessanti, sul fascismo e il calcio, e io sono stato sempre tifoso. Tutto sommato si impara attraverso gli errori, le ingenuità. Quello che dunque era sempre chiaro era che questo io lo stavo facendo a titolo personale. Non era per fare una tesi, non era per fare un libro. Non sapevo bene io stesso cosa farne. E siccome musicalmente stavo a zero, l’unica cosa che potevo fare era far sentire questi nastri a Giovanna Marini, a Francesco Giannattasio e poi loro ci facevano quello che ne hanno fatto: cantarli, costruire un archivio, ragionarci sopra.
Anche in questo c’è una differenza di gradazione con Carpitella. Ma la rottura della barriera fra etnologia e storia, fra folklore e storia, proposta da Gianni Bosio, faceva sì che la musica popolare era percepita come fonte storica molto di più di quanto non lo fosse nella tradizione etnomusicologica dello stesso Carpitella, anche se poi lui, come Alan Lomax, sapeva benissimo chi fossero, dove e come vivevano, le persone che andava a registrare. Ma il contesto istituzionale, disciplinare, era più separato. Io avevo più libertà.
Io poi ero spinto dal desiderio di conoscenza. Tu sei di famiglia borghese, impiegato statale, che tra il 1967 e il 1968 decide che è diventato comunista e che sta dalla parte della classe operaia… che però non ha mai visto in faccia! E allora questo per me era anche un cercare di capire che cos’era questa famosa classe operaia, questa famosa cultura popolare. Mi ricordo che quando tornai con le prime registrazioni di canzoni popolari, comuniste, socialiste e le feci sentire a Bruno Morandi (uno dei protagonisti della fondazione del Manifesto) lui disse: “ma questo è un contributo militante altissimo!” [sorride]. Io avevo in mente questo, dare un contributo militante alla storia della classe operaia. Ed era, appunto, militante, nel senso di “a mie spese”, nel mio tempo, per le mie motivazioni, e che si agganciavano a quelle di un movimento. E, appunto, con un’ignoranza crassa…
…no, questo, certo no, forse semmai con l’occhio “antropologico” di chi vuole conoscere una comunità e allo stesso tempo vorrebbe essere incluso?
Dunque, diciamo… Intanto, fino al momento in cui non scatta quel momento così importante con la Valnerina e con Terni, io non ho in mente “comunità”. Forse è un limite dei miei lavori, ma ho semmai un’idea piuttosto estensiva, cioè di coprire più persone e più territorio possibile. E quindi, in qualche modo, meno approfondimento e più ampiezza. E va anche bene, perché eravamo all’inizio, non lo aveva mai fatto nessuno. Quindi, poco lavoro di comunità. E, aggiungerei, se volevo essere incluso in una comunità, si trattava della più vasta comunità del Movimento, non certamente delle realtà locali in cui passavo, raccoglievo e non tornavo più. E magari facendo un’operazione che è di mettere in relazione una comunità con le altre, e costruire un discorso che andasse oltre i confini delle singole comunità. Poi con Terni e con il Kentucky le cose son cambiate, nel senso che ho continuato a tornare, ho lavorato con un gruppo di persone. E poi perché era la città dove ero cresciuto, anche se non avevo capito niente. Ma poi, in qualche modo, tutto si è riconnesso. Mi stava venendo in mente una cosa molto importante sulle mie inadeguatezze… però adesso me la sono scordata. Vabbè, pazienza, dopo mi verrà in mente… Ho perso il filo.
Essenzialmente c’era questa idea che forse più che di comunità si parlava di individui. Io questo non l’avevo pensato, non l’avevo veramente pensato. Ma se appunto penso a Trento Pitotti, a Giuseppina Romano, quindi se penso a queste grandi voci – e anche alle altre – non penso: Trento Pitotti, quindi la cultura popolare di Labro (a parte il fatto che lui era di Terni, e a Labro ci stava solo perché non poteva permettersi di affittare casa a Terni), o la cultura popolare di Isola Liri (Giuseppina Romano). No: semmai Trento Pitotti, Giuseppina Romano. Questo è interessante perché alla fine… Vabbè, racconto questa storia, mi sa che l’ho raccontata già cento volte… La prima volta che mi invitano in Brasile, è un evento che ha una struttura molto divertente: invitano quattro persone da diversi Paesi e a ognuna lasciano un’intera mattinata (un po’ come sta succedendo adesso). Per cui io faccio tutto il mio intervento insistendo sul fatto che la storia orale è un’arte dell’individuo. Nel senso che, secondo me, la memoria collettiva non esiste. Nel momento in cui c’è una narrazione che non è fatta da individui, questa non si chiama più memoria ma storia, “uso pubblico della storia”, no? O si chiama “storia”. La memoria è una cosa personale, individuale. E, dunque faccio tutto questo ragionamento sull’importanza degli individui ecc. Tutti d’accordo. Il giorno dopo arriva Mary Marshall Clarck, direttrice del Centro di Storia orale della Columbia University, ed esordisce dicendo: il bello della storia orale è che è un’arte del collettivo. Grande risata. Lei rimane esterrefatta, e chiede perché: ieri Portelli ha detto il contrario! Ne parliamo. Secondo me hai ragione tu, dico io. Secondo me hai ragione tu, dice lei… Qual è il senso? Il senso è che io vengo (venivo) da una cultura che allora (stiamo parlando del 1994 o giù di lì) aveva due pilastri: il Socialismo e il Cattolicesimo. Cosa avevano in comune? il senso di solidarietà e comunità. E quindi, parlare di individuo significava un po’ andare contro questa “grana” che privilegiava il collettivo. Riconoscere che la classe operaia era fatta di individui. Lei invece veniva da una cultura in cui l’individuo era al centro. Nel mio primo anno di scuola negli Stati Uniti mi hanno subito insegnato: America stands for the individual (l’America rappresenta l’individuo). E allora, parlare di collettività, per lei, era andare contro la “grana”. Cioè, la cosa che ci accomunava era che stavamo andando entrambi contro il senso comune delle nostre rispettive culture.
Bellissima storia. Interessantissima…
Oggi devo dire che sia il Cattolicesimo che il Socialismo si sono un po’ indeboliti e di conseguenza anche il senso di comunità e solidarietà, nel nostro Paese, si è un po’ indebolito, spesso sostituito da “surrogati etnici” del tipo “prima gli italiani”… e così via. Però in quel momento significava questo. Io ho sempre avuto molto chiara questa dimensione e cioè che la storia che ti raccontano è personale. Sono delle narrazioni, sono delle autobiografie. E le persone che ti parlano non sono dei “testimoni”, sono dei narratori e sono degli autori di narrazioni. Ah… ecco la cosa che mi ero dimenticata prima… Allora, agli inizi, ero talmente ignorante che non avendo le categorie (e i pregiudizi) che derivavano da categorie precostituite, ho potuto permettermi di fare delle cose che i professionisti non facevano. Tipo, appunto, dire: a me della storia che stanno raccontando interessa proprio quando si sbagliano. Questo l’ho potuto fare precisamente perché venivo da fuori. No?
Sì, assolutamente…
…ero ignorante ma un po’ di cultura ce l’avevo… [ride]. Qualcosa sapevo fare… Tipo, mi stavo formando come professore di letteratura, quindi mi interessavano i racconti in quanto tali, il loro significato.
Senti… tra le interessantissime, emozionanti, profonde cose che hai detto l’altro giorno al Seminario sulle fonti orali per il nostro dottorato hai sottolineato proprio questo: se dal punto di vista dello storico l’errore (ad esempio, nel ricordare una data) è uno sbaglio, e dunque un elemento di inaffidabilità, per la ricostruzione dei fatti, diventa invece un elemento di grande potenza dalla prospettiva delle fonti orali. L’errore diventa un momento rivelatore nella percezione dell’evento?
Intanto una cosa: ho sempre detto che quello che ho fatto io, lo stavano facendo anche altri negli Stati Uniti, e qui in Italia ovviamente Luisa Passerini. L’errore, dunque. L’errore rivela l’individualità.
Riprendevo la battuta di Fidel Castro, quando il grande balzo in avanti nella raccolta per la produzione dello zucchero andò male, disse: Trasformiamo la derrota in vittoria. Trasformiamo la sconfitta in vittoria. Nel mio ragionamento la cosa era: prendo tutte le cose che sono state dette contro le fonti orali e dimostro che sono la loro forza. Allora, appunto, gli errori introducono la dimensione della soggettività, e del desiderio. Consideriamo ad esempio la cosiddetta “interferenza” del ricercatore rispetto alla purezza della fonte. Primo: la fonte, cioè il racconto, non esisterebbe se non ci fosse il ricercatore. Secondo: grazie a questa presenza diventa un interessante dialogo tra diversi. La purezza delle fonti non esiste. Anche per questo a me non è mai interessato il fatto di essere incluso nella comunità perché la differenza facilita l’interpretazione.
Un’altra delle osservazioni che venivano fatte nei confronti delle fonti orali era: le fonti d’archivio sono coeve, le fonti orali no. Allora, primo: non è affatto detto che tu nell’immediato capisca esattamente cosa è successo. E sicuramente non è detto che tu nell’immediato capisca cosa “significa” quel che è successo; sicuramente non puoi sapere quali sono le conseguenze. Quindi, diciamo che le fonti orali hanno il vantaggio di aver avuto il tempo di ragionarci sopra. Ma soprattutto, le fonti orali non sono un documento del passato ma “sul” passato. Sul “rapporto” tra il presente e il passato, sul lavoro creativo di interpretazione, di ricostruzione del senso.
La stessa cosa è avvenuta per le Fosse Ardeatine. Una delle ragioni da cui è nata la leggenda per cui i nazisti avrebbero chiamato i partigiani ha a che fare con il fatto che un evento avvenuto durante la guerra, e dunque un evento militare, viene ricordato in tempo di pace come se fosse un evento giuridico. Quindi proprio la discrepanza del tempo ti fa capire qual era la natura di quell’evento, allora.
…l’errore diventa un momento rivelatore nella percezione dell’evento. E assume perfino una valenza simbolica… Penso alla tua lettura dell’uccisione di George Floyd nel tuo ultimo lavoro, come mette subito in evidenza il titolo: Il ginocchio sul collo è quello di San Giorgio che uccide il drago...
Lì, ovviamente, la lettura simbolica è la mia. Non è che il poliziotto pensa di essere San Giorgio…
Certo, sì…
…però sicuramente è una lettura che mi permette di dire che quello che ha permesso a questo signore di fare questo gesto è l’esser parte di una cultura in cui tu calpesti la bestia. No? La mia, come si dice in antropologia, è una lettura “etica”, cioè dal punto di vista dell’osservatore, non “emica”, cioè dall’interno del soggetto.
Il ginocchio sul collo è l’ultima cosa che hai pubblicato. Che stai facendo ora?
Avevo ricominciato a lavorare su Terni, per aggiornare la storia agli eventi attuali, ma ho dovuto interrompere a causa del Covid e spero di riprendere al più presto. Come dicevo prima, forse qualche intervista online potrò provare a farla dopo Pasqua. Sto ragionando sul fatto che il mio lavoro, in più di mezzo secolo di lavoro, ad esempio su Terni, è diventato una menzogna, nel senso che la mia era la storia di come si è formata una città rossa e operaia. Invece, alle ultime europee, Terni ha dato il 57% dei voti così: 46% alla Lega, 11% ai Cinque stelle; e ha un’amministrazione di estrema destra. E la domanda è: e com’è? E che è successo? E, fra l’altro, come mai questa cosa succede dopo dieci anni di gloriose lotte operaie? A Terni, nel 2014, gli operai fanno il più lungo sciopero mai avvenuto in Italia. E due anni dopo… E qui il problema non è solo capire cosa è cambiato nella composizione della classe operaia. Sì, certo, è importante capire cosa è cambiato nel rapporto fra peso demografico, lavoratori nella fabbrica e la città. Ma qualcosa di più profondo è cambiato nelle coscienze, evidentemente. Da un tempo in cui, se eri operaio, al 70% automaticamente votavi a Sinistra, a un tempo in cui questo non è più vero. E allora in che modo le persone percepiscono il loro essere operai? E in che modo la città di Terni percepisce sé stessa? Un po’ di cose le ho buttate giù, le ho scritte. Anche lì c’è, in un certo senso, una battaglia tra narrazioni. Parte di questa trasformazione della città è legata all’emergere di un piccolo ceto intellettuale non particolarmente qualificato (e, tra l’altro, se la prendono con me perché avrei creato il mito della classe operaia). Intanto io mi chiedo il “mito”? La classe operaia “c’era”. E poi mi sono accorto che a Terni c’è sempre stato un mito alternativo, il mito di una città che non vuole gli operai. Quando a Terni arriva l’acciaieria, le piccole élite locali si inventano il mito di Cornelio Tacito: il liceo dove io mi sono diplomato si chiama Cornelio Tacito; la via principale di Terni è Corso Cornelio Tacito. Ma con Terni Cornelio Tacito non ha mai avuto niente a che fare. L’errore di lettura di alcuni cocci romani trovati per caso ha creato questa mitologia di Cornelio Tacito. Il mito di Cornelio Tacito è il mito della borghesia ternana che rifiuta di riconoscere la presenza egemonica della classe operaia. In parte, questo si aggancia ad altri due miti. Innanzitutto il mito di Cantamaggio, ossia il mito delle origini rurali di Terni. E quindi, con l’arrivo della fabbrica si re-inventa il Cantamaggio che è il mito della questua rurale, ma che viene anche riassorbito nella cultura operaia, e quindi, così, viene riattualizzato. E poi, a partire dagli anni Ottanta, si riscopre il mito di San Valentino. Ora, San Valentino effettivamente ha avuto a che fare con Terni, ed è il patrono. Allora, questa è l’ipotesi della ricerca, poi dovrò andare a riguardarla bene: Terni Cantamaggio, Terni San Valentino, Terni Cornelio Tacito, compongono una sindrome di narrazioni mitiche alternative alla “storia” della classe operaia.
E su questo si innesta tutta la dimensione anti-immigranti, la sicurezza e così via. Fra l’altro, c’è una mia giovane amica, film maker, ternana, bravissima, Greca Campus, che ha documentato tutte queste ultime lotte, e ha fatto una tesi di laurea dove fa notare come certi elementi della cultura di Destra fossero già presenti nella vecchia cultura comunista. Ad esempio il maschilismo, l’autoritarismo. Quello però che il partito faceva era di ricordare che non erano giusti e, in qualche modo, li frenava, anche se non li aboliva. Finita la didattica delle forze politiche della Sinistra, queste potenzialità, appunto già presenti, si sono scatenate. Cioè: il razzismo in Italia c’è sempre stato, ma ora non è più una cosa di cui vergognarsi. Anzi, se dici qualcosa, tu sei “politically correct”.
Anche nell’intervista che ti ha fatto recentemente Giuseppe Laterza, insieme a Paolo Naso, per il suo libro su Martin Luther King, accenni a questo. Il politically correct non va minimizzato, come se si trattasse solo di una moda. Ha anche insegnato, ha affermato che alcune cose non solo non andavano dette ma pensate. Vorrei che tu tornassi su questo punto proprio perché fa parte di una serie di pensieri, di ipotesi di ricerca, su cui ti stai interrogando adesso.
Io penso questo: da una parte ci sono delle stupidaggini. Questa storia che per tradurre Amanda Gorman, (che non è mica Ungaretti) sia assolutamente necessaria una traduttrice di un certo tipo, una donna nera…
…un atteggiamento essenzialista vecchia maniera…
…e pure una stupidaggine commerciale. Ma, d’altra parte, consideriamo bene: a uno dei più grandi filosofi viventi degli Stati Uniti, Cornel West, non è stata rinnovata la tenure dall’Università di Harvard perché è nero, è radicale, è filopalestinese. Cioè, negli Stati Uniti può capitare che non ti invitino a fare una conferenza, o che ti contestino, se sei di destra. Ma ti cacciano e ti licenziano se sei filopalestinese. O non ti assumono. Altro che politically correct. L’estrema destra controlla negli Stati Uniti le facoltà di economia e di giurisprudenza. Il mio buon amico Samuel Bowles è un altro a cui non hanno rinnovato la tenure a Harvard. Perché? Perché marxista. Il politically correct ti dice che certe cose non vanno bene (e qualche volta si esagera). Ma se io posso scrivere su Toni Morrison, e se Toni Morrison dice, be’, tutto sommato mica c’hai torto, e se Cornel West, nero, può scrivere su Gramsci, allora Amanda Gorman, insomma, la può tradurre qualunque buon traduttore. Ma la discriminazione politica è una questione diversa: se sei nero è più difficile trovare lavoro. Il dominio dei miliardari di estrema destra sulle facoltà che poi decidono gli orientamenti del Governo, e dunque le leggi, l’economia… questo non è politically correct, questo è dominio, come giustamente dice il libro di Marco D’Eramo.
Terni ha lasciato prevalere il mito alternativo, dunque? E anche nel tuo libro sulle ricerche nei Castelli romani sia tu stesso nell’introduzione, sia gli intervistati, mettete in evidenza il cambiamento, l’abbandono della cultura popolare e della Sinistra. Penso poi al West Virginia, uno degli Stati decisamente per Trump nel 2016. Certo, ora Trump ha perso, ma nella tua prossima ricerca, oltre che su Terni ritornerai anche a considerare i Castelli romani e gli Appalachi? Ossia tornerai anche sugli altri luoghi della classe operaia che hai studiato per sentire i racconti di ora e per cercare di capire cosa è successo?
Allora, intanto, appunto, ricordiamoci che Trump le elezioni le ha perse. Però nel 2016, a seguito di quel distorto meccanismo antipopolare che fa sì che chi ha avuto 3 milioni di voti in meno vince, ecco che Trump aveva vinto. Perché? Il suo appello dava delle illusioni a chi non si sentiva nemmeno visto. Una delle cose che rendono diversa la ricerca etnografica negli Stati Uniti dalla nostra è che da loro il movimento operaio non ha mai avuto una identificazione politica. Biden ha fatto una cosa meravigliosa: ha detto che vuole che si rafforzino i sindacati. Ed è la prima volta dopo 50 anni. Sono 50 anni che il Partito democratico sistematicamente demolisce i sindacati. E certo, non è che il Partito repubblicano li favorisca. Ma fra due parti, fra una che fa finta di vederti, e una che ti dà delle illusioni che l’altra non ti dà… Penso che questo ci sia entrato nella vittoria di Trump. Poi ci sono ovviamente altre ragioni, e anche ragioni storiche (il West Virginia nasce dalla scissione della Virginia all’epoca della Guerra civile, a favore di Lincoln; come il Kentucky, è una parte di Sud che si è schierata con il Nord), e Lincoln era repubblicano. Ma, essenzialmente, c’entra questa dimensione: tra due che ti fregano, uno che ti ignora e uno che fa finta di rispettarti, alla fine, visto che fregato comunque sei, ti fai fregare da chi ti illude. Biden sta facendo anche delle cose che non mi piacciono, ma la cosa veramente molto importante è che sta cogliendo il problema della rappresentanza del lavoro. La politica ha bloccato, ha distrutto, la rappresentanza. Solo il 10% dei lavoratori negli Stati Uniti è iscritto al sindacato. Perché? Non è perché il restante 90% non voglia. Ma perché gli ostacoli e i disincentivi sono tali che alla fine non “possono”. Da noi, invece c’era questa saldatura storica. Una relazione si sta forse ricostruendo in America. E, paradossalmente, invece, si sta perdendo, in Italia. Viviamo tempi interessanti, diceva Mao Tse-tung. E lo diceva come una dannazione...
Nella tua prossima ricerca, allora, ci racconterai queste storie? Le aspettiamo. E, immagino, continuerai ad andare in biblioteca e negli archivi. E userai anche la rete?
Quando ho fatto il libro su Terni non ho fatto, ovviamente, solo lavoro di interviste. Sono andato in biblioteca e mi sono guardato cento anni di stampa locale e di cronaca di Terni su Il Messaggero e L’Unità. Nel momento in cui fai una ricerca devi arrivare con tutte le fonti possibili. Una delle obiezioni che si fa alla storia orale è che non si fa storia solo con le fonti orali. Certo che no. Come non si fa storia solo con le fonti scritte. Bisogna anche conoscere il punto di vista della borghesia, o dei media, o il punto di vista più istituzionale, e pertanto mi sono visto faldoni su faldoni di cento anni di Archivio di Stato. Si fa storia con “tutte” le fonti.
Prima del Covid avevo ricominciato a fare ricerca in archivio e in biblioteca a Terni. Voglio consultare le fonti dal 2015 in poi. E voglio consultare anche archivi locali. Cosa molto faticosa. Sospetto di aver scoperto che molto è online. Questo facilita molto la faccenda, però, devo ammettere, sono ancora della generazione cartacea. So che ci sono delle meraviglie online, ma è difficile per chi, come me, non ha questa mentalità. Ho l’impressione che avere una mappa in scala 1/1 (come le carte dell’imperatore…) è come “non” avere una mappa.
Sandro, che dire, ti ringrazio tantissimo. Grazie per il tuo tempo. Spero proprio che avremo modo di tornare a parlarne, e magari a parlare proprio di rete, ma incontrandoci. Grazie, sono sicura che come sempre, avrai offerto molti spunti di ricerca e di riflessione.