Livelli di neutralità: biblioteconomia critica e valori professionali
Dipartimento di studi umanistici, Università Ca’ Foscari, Venezia, ridi@unive.it
Dedico questo articolo ad Alberto Petrucciani, con cui ho condiviso tante esperienze professionali (dalle mie prime prove di insegnamento universitario fino alla stesura del nuovo codice deontologico dell’AIB, passando per la fondazione di AIB-WEB), che mi ha insegnato così tanto non solo sui contenuti ma anche sui metodi e sullo stile della ricerca e della didattica biblioteconomiche e che resterà comunque sempre uno dei miei 'lettori ideali' più attenti ed esigenti. Ringrazio Juliana Mazzocchi per la revisione. Le traduzioni in italiano non diversamente attribuite sono mie. Coi termini ‘bibliotecari’ e ‘utenti’ mi riferisco ovviamente sia a uomini che a donne.
Per tutti i siti web l’ultima consultazione è stata effettuata il 18 luglio 2023.
Abstract
Spesso la cosiddetta ‘biblioteconomia critica’ accusa la neutralità raccomandata da molti codici deontologici professionali (incluso quello dell’IFLA) di costituire in realtà un tacito schieramento dei bibliotecari a favore dei poteri dominanti. Un’analisi dei vari modi in cui tale neutralità può essere intesa mostra che in realtà questa polemica cela un ben più profondo e importante disaccordo sul diverso peso che i valori della libertà intellettuale e della responsabilità sociale dovrebbero assumere nell’etica professionale dei bibliotecari. Una ulteriore analisi di tali valori e della loro possibile conflittualità porta a concludere che responsabilità sociale, libertà intellettuale e neutralità non entrano necessariamente in contrasto fra loro, ma che tale rischio aumenta quando la biblioteconomia critica esorta a perseguire valori come la giustizia sociale e i diritti umani, che sono troppo ambiziosi rispetto alle risorse di cui le biblioteche dispongono, troppo eterogenei rispetto ai loro compiti istituzionali e troppo universali rispetto alle fonti normative su cui si basa la loro deontologia. Anche la biblioteconomia critica può però fornire un importante aiuto per avvicinarsi sempre di più a un’utopica imparzialità perfetta, svelando pregiudizi e prevenzioni che, inconsciamente, persino ai bibliotecari meglio intenzionati può capitare di nutrire.
English abstract
The so-called ‘critical librarianship’ often accuses the neutrality recommended by many professional codes of ethics (including IFLA’s) of actually constituting a tacit alignment of librarians in favour of the dominant powers. An analysis of the various ways in which this neutrality can be understood shows that this controversy actually hides a much deeper and more important disagreement on the different weight that the values of intellectual freedom and social responsibility should assume in the professional ethics of librarians. A further analysis of these values and of their possible clashes leads to the conclusion that social responsibility, intellectual freedom and neutrality do not necessarily conflict with each other, but that this risk increases when critical librarianship encourages the pursuit of values such as social justice and human rights, which are too ambitious with respect to the resources available to libraries, too heterogeneous with respect to their institutional tasks and too universal with respect to the normative sources on which their deontology is based. However, even critical librarianship can provide an important aid in getting ever closer to a utopian perfect impartiality, revealing prejudices and preventions that, unconsciously, even the best-intentioned librarians might feed.
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La biblioteconomia critica
Nella biblioteconomia contemporanea (soprattutto quella statunitense) c’è una corrente, risalente in realtà agli anni Trenta dello scorso secolo ma di crescente visibilità negli ultimi due decenni [Garcia, 2015; McGill, 2022], che sottolinea l’importanza – se non addirittura il dovere – per i bibliotecari di non accettare supinamente le pressioni, i condizionamenti e i pregiudizi provenienti più o meno esplicitamente e consapevolmente dalle istituzioni a cui le proprie biblioteche fanno direttamente riferimento o, più in generale, dalla società in cui esse sono immerse, ma di opporsi coraggiosamente a ogni ingerenza, schierandosi e combattendo – se necessario – per difendere determinati valori ritenuti meritevoli. A seconda di quali siano, in concreto, tali valori, le forze e i bias cui ci si oppone e i tipi di lotta previsti, la corrente assume forme e denominazioni plurime non sempre nettamente distinguibili [Galluzzi, 2022, p. 303], fra cui quelle di ‘biblioteconomia critica’ [Nicholson - Seale, 2018], ‘biblioteconomia progressista’ [Samek, 2004], ‘biblioteconomia radicale’ [Huang, 2020], ‘biblioteconomia socialmente responsabile’ [Morrone - Friedman, 2009], activist librarianship [Quinn - Bates, 2017] e (quella più pertinente rispetto a questo articolo) post-neutrality librarianship [Mathiasson - Jochumsen, 2022].
Il primo livello di neutralità
Nell’ambito di tale corrente è quindi piuttosto naturale che emerga come posizione tipica quella della condanna di qualsiasi genere di neutralità da parte dei bibliotecari, interpretata come un tacito asservimento ai poteri dominanti [Branum, 2008; Lewis, 2008; Gibson et al., 2017; Mathiasson - Jochumsen, 2022]. Non è però sempre chiarissimo rispetto a cosa, esattamente, i bibliotecari dovrebbero evitare di restare neutrali. Se si trattasse dei valori in generale, intesi come tutto «ciò che dev’essere oggetto di preferenza o di scelta» [Fornero, 1998, p. 1141], allora la biblioteconomia critica non sarebbe affatto controcorrente rispetto al canone della biblioteconomia mainstream e non proporrebbe niente di originale, perché esistono (a partire da quello dell’ALA, risalente al 1938, fino a quelli dell’IFLA, del 2012, e dell’AIB, aggiornato nel 2014 [Ridi, 2015]) innumerevoli codici deontologici emanati da associazioni professionali dei bibliotecari che prescrivono ai propri soci e raccomandano all’intera professione una vasta serie di comportamenti e atteggiamenti, su alcuni dei quali c’è ampio consenso, mentre altri vengono menzionati solo sporadicamente [Ridi, 2011, p. 44-55]. Esistono, inoltre, ulteriori fonti normative (come i codici deontologici emanati da altre tipologie di enti, ulteriori tipi di documenti redatti dalle associazioni professionali, le indagini sugli orientamenti più diffusi fra i professionisti e le proposte di singoli studiosi) che ampliano ulteriormente la gamma dei valori che circolano regolarmente nelle discussioni e nei comportamenti dei bibliotecari [Ridi, 2011, p. 56-69].
Il secondo livello di neutralità
Forse, allora, la biblioteconomia critica non esorta a evitare la neutralità rispetto a qualsiasi valore, ma solo nei confronti di quelli così oggettivi e autoevidenti da godere di unanime consenso nella comunità professionale (perché, appunto, come si potrebbe non condividerli?) oppure, inversamente, di quelli che, non essendo oggettivi e autoevidenti, non sono neppure condivisi dalla totalità dei bibliotecari e delle loro associazioni (perché, in tal caso, resterebbe un margine di discrezionalità per adottarli o meno). Ma, in realtà – come si è accennato nel precedente paragrafo – nessuno dei valori che circolano nella comunità professionale è unanimemente riconosciuto da tutti i bibliotecari, tutti i biblioteconomi, tutte le associazioni, tutte le indagini e tutti i documenti pertinenti. E, soprattutto da Nietzsche in poi, sono innumerevoli le teorie e le correnti filosofiche sufficientemente autorevoli e diffuse che sostengono coerentemente e convincentemente l’assenza di oggettività di ogni valore [Usberti, 2000; Fonnesu, 2006]. Quindi a tutti i valori, inclusi quelli in cui credono o dicono di credere i bibliotecari, mancano o potrebbero mancare quei requisiti di oggettività e universalità che dovrebbero fungere da discrimine per individuare quelli a cui la biblioteconomia critica applicherebbe l’esortazione a non restare neutrali.
La prima delle due opzioni prospettate (evitare la neutralità esclusivamente nei confronti degli ipotetici valori condivisi da qualsiasi bibliotecario), inoltre, si autodissolverebbe, perché se ciò si risolvesse nello schierarsi a favore di tali valori, allora la biblioteconomia critica e quella tradizionale coinciderebbero, mentre nel caso opposto prendere posizione contro di essi significherebbe, di fatto, collocarsi al di fuori della comunità professionale. E anche la seconda opzione, in fondo, renderebbe superflua l’esistenza stessa di una particolare corrente biblioteconomica identificata come ‘critica’, perché schierarsi a favore o contro ciascuno dei numerosi valori ‘discutibili’ (nel senso di ‘non incontrovertibili’) che emergono nel dibattito e nella pratica professionale è semplicemente ciò che tutti i bibliotecari, più o meno esplicitamente e consapevolmente, fanno ogni giorno.
Il terzo livello di neutralità
La neutralità che la biblioteconomia critica combatte, allora, potrebbe riguardare non tanto i valori ‘professionali’ raccomandati dai codici deontologici ufficiali, quanto piuttosto quell’ancora più ampio, variegato e variabile insieme di valori, norme e doveri nei cui confronti ciascun singolo bibliotecario si sente impegnato non in quanto bibliotecario, ma come cittadino, consumatore, credente o ateo, genitore o figlio, sportivo o tifoso, studente o docente, dipendente pubblico o privato oppure imprenditore, militante politico o membro di qualsiasi tipo di club, società, cooperativa, associazione ecc. Ciascuna di tali appartenenze a gruppi sociali, infatti, implica l’adesione ad almeno alcuni dei valori preponderanti nei loro rispettivi ambiti o, quanto meno, l’emergere e lo svilupparsi, in ciascun individuo, di punti di vista, orientamenti e valori personali magari ‘di minoranza’, ma comunque connessi col proprio ruolo all’interno dei gruppi stessi. E poiché, inevitabilmente, ogni persona fa contemporaneamente parte di numerosi gruppi sociali, i cui valori non sono mai globalmente armonizzati e coerenti, è altrettanto pressoché inevitabile che sorgano in noi dubbi e dilemmi su come comportarci in ciascun ambiente, incluso quello professionale [Bagnoli, 2006; Ridi, 2011, p. 36-38].
Proprio per ridurre il rischio che la molteplicità e la mutevolezza dei valori personali possano indebolire i valori professionali più centrali, e in particolare quello della libertà intellettuale [Oltmann, 2017; Knox, 2023] (che include la libertà di accesso all’informazione), molti codici deontologici dei bibliotecari contengono un richiamo più o meno esplicito alla neutralità intellettuale [Wenzler, 2019; Macdonald - Birdi, 2020; Scott - Saunders, 2021]. Ad esempio, per il codice dell’IFLA,
i bibliotecari sono strettamente tenuti alla neutralità e a un atteggiamento imparziale nei confronti della collezione, dell'accesso e del servizio. La neutralità ha come risultato collezioni e accesso alle informazioni più equilibrati possibile. [...] I bibliotecari e gli altri lavoratori dell'informazione distinguono tra le proprie convinzioni personali e i propri doveri professionali. Essi non antepongono interessi privati o credenze personali alla neutralità [IFLA, 2012, sez. 5].
Solo se i bibliotecari si sforzeranno, durante l’orario di servizio, di prescindere dai propri valori, dai propri gusti e dalle proprie preferenze individuali e da quelle di tutti i gruppi sociali di cui fanno parte (eccetto quello della loro comunità professionale) essi saranno in grado di scegliere i libri da acquistare, di aiutare gli utenti nelle loro ricerche e di gestire tutti gli altri servizi offerti dalla propria biblioteca senza introdurre filtri, bias o barriere più o meno consapevoli rispetto alle informazioni e ai documenti che gli utenti stessi desiderano, indipendentemente dal loro contenuto.
Potrebbe talvolta sembrare che la biblioteconomia critica si opponga proprio a questo terzo tipo di neutralità, ma, se ci riflettiamo meglio, ciò non è possibile né logicamente, né deontologicamente, né tecnicamente. Spronare ogni bibliotecario a rifiutarsi di acquisire quelle pubblicazioni che – sebbene richieste da più utenti e conciliabili col bilancio e con la carta delle collezioni della biblioteca – non risultassero compatibili coi suoi orientamenti politici, religiosi, etici o estetici, così come esortarlo a evitare di fornire indicazioni a chi gli chiedesse aiuto per rintracciare informazioni in contrasto con tali orientamenti, sarebbe un vero e proprio assurdo da almeno tre diversi punti di vista. Prima di tutto – da un punto di vista meramente tecnico – se tale invito venisse accolto i servizi di ogni biblioteca gestita da più di una persona precipiterebbero istantaneamente nel caos, perché alle stesse proposte di acquisizione documentaria o di assistenza bibliografica ogni singolo bibliotecario risponderebbe diversamente, seguendo i propri personali valori, giustamente inappellabili e non sempre mediabili con quelli degli utenti e dei colleghi. Inoltre, dal punto di vista deontologico, tali dinieghi costituirebbero una plateale negazione di quel diritto di accesso all’informazione che viene spesso considerato il valore più importante e più diffuso fra quelli presenti nei codici deontologici bibliotecari, se non addirittura la stessa ragion d’essere delle biblioteche [Ridi, 2011, p. 75-84]. Infine, dal punto di vista logico, un’ipotetica corrente di pensiero che spingesse i professionisti di un determinato settore ad attribuire più importanza, nell’esercizio del proprio lavoro, ai più svariati valori personali e sociali anziché a quelli caratterizzanti del settore stesso (o comunque discussi al suo interno), potrebbe forse anche risultare – in particolari circostanze – sensata e giustificata, ma certamente non potrebbe in alcun modo essere considerata ‘interna’ al medesimo settore. Una eventuale ‘biblioteconomia critica’ che facesse qualcosa del genere, quindi, potrebbe forse anche risultare giustamente ‘critica’, ma di sicuro non sarebbe più ‘biblioteconomia’.
Il quarto livello di (pseudo) neutralità
Qual è, allora, il tipo di neutralità che la biblioteconomia critica invita ad abbandonare? Leggendo con più attenzione alcuni testi ascrivibili a tale corrente e alle sue varianti si potrebbe sospettare che, in realtà, ciò che essa presenta esplicitamente – e spesso con notevole enfasi – come una critica della neutralità sia in realtà, dal punto di vista logico, la somma di tre diverse (ma connesse) proposte di modifica dell’attuale ‘tavola dei valori’ dominante sia nella comunità professionale bibliotecaria che nella comunità scientifica biblioteconomica.
La prima proposta, nonché quella più palese e frequente, consiste nell’aumentare la rilevanza e il peso, all’interno di tale ideale tavola (e quindi, concretamente, nei codici deontologici delle associazioni professionali, anche se ciò non viene quasi mai esplicitato) del valore della responsabilità sociale [Baker - Evans, 2011; Abu Eid - Hussin, 2023], peraltro spesso già incluso in molti di tali codici perché
una delle caratteristiche peculiari delle professioni è che le loro conoscenze e competenze sono al servizio della società in generale e non semplicemente dei clienti immediati. I membri devono pertanto tenere presente il bene pubblico, sia in generale che con riferimento a particolari gruppi vulnerabili, tanto quanto le richieste immediate derivanti dai propri doveri lavorativi e professionali [CILIP, 2012, art. D].
La responsabilità sociale, quindi, impone ai bibliotecari che essi non tengano conto solo delle esigenze dei propri utenti e dei valori deontologici più specificamente professionali, ma anche delle pressioni sociali provenienti da tutti i cittadini della propria comunità di riferimento e dei loro rispettivi valori. Le comunità di riferimento delle biblioteche possono però anche essere numericamente molto ampie e socialmente molto articolate, quindi i valori che vi circolano sono spesso numerosi, mutevoli e talvolta persino contraddittori. Fra tutti i valori politici, etici, religiosi o culturali che possono o potranno essere condivisi da settori più o meno ampi delle comunità in cui le biblioteche di ogni tipologia e località operano o opereranno, la biblioteconomia critica tende a privilegiare – quasi sempre senza particolari argomentazioni che non si limitino a rinviare alla Dichiarazione universale dei diritti umani [ONU, 1948] o ad altre fonti normative rivolte a ogni essere umano e non specificamente ai bibliotecari – quelli della giustizia sociale e dei diritti umani [Samek, 2007; Gregory - Higgins, 2013; Gorham - Greene Taylor - Jaeger, 2015; Gorham - Greene Taylor - Jaeger, 2016]4. Tali valori vengono fortemente raccomandati ai bibliotecari, proponendone implicitamente una maggiore centralità (se non, addirittura, il primato) rispetto agli altri principi contenuti nei loro codici deontologici, che invece citano quasi sempre la responsabilità sociale con grande cautela, consapevoli che essa, se priva di adeguati contrappesi, potrebbe facilmente «schiacciare qualsiasi principio professionale etico o tecnico specifico che eventualmente si opponesse – o venisse accusato di opporsi […] al benessere della comunità, con evidenti rischi (ad esempio, nel nostro settore, per i diritti informazionali delle minoranze e dei singoli cittadini)» [Ridi, 2022, p. 330].
La seconda proposta della biblioteconomia critica, esplicitata ancora meno chiaramente della prima, consiste nel ridurre – senza però mai arrivare fino al punto di azzerarla – l’importanza del valore della libertà intellettuale e in particolare, al suo interno, del diritto di accedere a ogni tipo di informazione pubblicamente disponibile. Ciò è in parte logicamente implicito nel rafforzamento della responsabilità sociale, che lascia meno spazio a tutti gli altri valori e quindi anche alla libertà intellettuale [Swan - Peattie, 1989; Samek, 2001], e in parte diventa concretamente evidente se si pensa che potenziare le raccolte bibliotecarie, al di là degli effettivi interessi degli utenti, con documenti che promuovono diritti umani e giustizia sociale o pubblicati da piccoli editori ‘controcorrente’ o scritti da autori che non siano maschi eterosessuali dalla pelle bianca, oppure negare uno spazio, nelle stesse raccolte, a libri considerati dai bibliotecari ‘reazionari’ o ‘pericolosi’ – come quelli creazionisti, negazionisti, no-vax o che possano suggerire qualche forma di discriminazione o odio – oppure utilizzare i servizi di reference per distogliere i propri utenti da fonti e argomenti considerati diseducativi, indirizzandoli invece verso documenti e soggetti ritenuti più edificanti, oppure ancora concedere l’uso della propria sala riunioni solo a enti e associazioni che condividono gli stessi valori dei bibliotecari, sono tutte forme – forse non esageratamente eclatanti, ma comunque reali e significative – di compressione della libertà di chiunque di esprimersi e informarsi liberamente su qualsiasi tema.
Combinandosi con queste due proposte (più responsabilità sociale, meno libertà intellettuale) la critica della neutralità intellettuale del terzo tipo, che isolatamente appariva impossibile tecnicamente, eticamente e logicamente, diventa più sostenibile, e viene infatti ripresa dalla biblioteconomia critica come terza proposta (spesso più esplicita delle prime due) di modifica della tavola dei valori bibliotecari classici. Dal punto di vista tecnico, se la scelta dei valori ‘aggiuntivi’ non è lasciata all’arbitrio dei singoli bibliotecari ma viene ristretta alla giustizia sociale, ai diritti umani e agli altri temi riassunti nella nota 4, si riduce notevolmente il rischio che la moltiplicazione degli orientamenti personali renda incoerenti e ingestibili i servizi della biblioteca. Dal punto di vista etico non sarebbe più così grave l’impatto sul diritto di accesso all’informazione, perché tale valore sarebbe già stato indebolito dal rafforzamento della responsabilità sociale. E, dal punto di vista logico, se la giustizia sociale o i diritti umani diventano valori bibliotecari, allora promuoverli è del tutto legittimo anche per una corrente di pensiero che vuole restare biblioteconomica.
Una conferma del fatto che, se scomposto e riformulato sotto forma di queste tre proposte di ribilanciamento dei valori professionali, l’attacco della biblioteconomia critica alla neutralità risulterebbe più intelligibile, viene anche dalla rivendicazione, da parte di alcuni suoi sostenitori, di perseguire in tal modo una forma di neutralità più profonda e autentica, contrapponendola alla pseudoneutralità descritta dagli attuali codici deontologici, che in realtà celerebbe l’opportunistico schierarsi dei bibliotecari dalla parte dei poteri dominanti, dei loro valori, delle loro ideologie e dei loro prodotti editoriali, contribuendo così a mantenere un iniquo status quo sociale.
La neutralità è un falso problema
In fin dei conti, allora, forse la neutralità è un falso problema, un apparente fronte di conflitto fra la biblioteconomia standard e quella critica, che invece stanno combattendo altrove, meno visibilmente, la loro vera battaglia, che consiste in un diverso orientamento sul peso da attribuire a ciascuno dei vari valori che definiscono la deontologia professionale bibliotecaria, individuando quelli che, in caso di dilemmi morali, dovrebbero prevalere. In tal caso gioverebbe sia al rigore della biblioteconomia teorica che all’efficacia di quella pratica, nonché all’onestà intellettuale di chi scrive libri e articoli su questi argomenti e alla consapevolezza di chi li legge, domandarsi non tanto se i bibliotecari debbano essere neutrali ma piuttosto come possano sforzarsi (perché non è mai né semplice né facile) di esserlo e focalizzarsi soprattutto, più che sulla neutralità, sul rapporto fra responsabilità sociale e libertà intellettuale.
Così facendo il confronto delle idee risulterebbe meno polemico, più comprensibile e più costruttivo. Un primo passo in tale direzione potrebbe essere rappresentato dal riconoscere, da parte di entrambi i contendenti, che sia la libertà intellettuale sia la responsabilità sociale sono valori imprescindibili per i bibliotecari, ma che esiste fra di esse una dialettica tale per cui il loro peso nell’influenzare le decisioni professionali più critiche tende a risultare inversamente proporzionale. Più aumenta l’importanza che i bibliotecari attribuiscono al diritto di chiunque di esprimere qualsiasi opinione e di documentarsi su qualunque argomento, accedendo quindi anche alle opinioni più controverse, minoritarie, ‘politicamente scorrette’ e persino scientificamente improbabili e più diminuisce la loro disponibilità a praticare o accettare qualsiasi limitazione, riduzione o eccezione a tale diritto nei confronti dei propri utenti, anche se effettuata per il bene comune. Più aumenta la consapevolezza, da parte dei bibliotecari, che in certe situazioni ci sono esigenze o emergenze legate alla salute, alla sicurezza, alla giustizia o ad altre problematiche ritenute estremamente importanti dalla maggior parte dei membri della propria comunità che possono legittimamente essere ritenute prioritarie rispetto alla libertà intellettuale e più diminuisce la loro resistenza ad accettare, sia pure in via eccezionale, per il più breve tempo possibile e sempre sulla base di richieste formali provenienti da autorità riconosciute, alcune forme di riduzione di tale libertà come, ad esempio, fornire alla polizia informazioni sui libri presi in prestito e i siti web visitati da specifici utenti sottoposti a indagine giudiziaria, limitare l’accesso a documenti che potrebbero diffondere notizie nocive per la salute o, in tempi di pandemia, ridurre alcuni servizi per tutelare la salute sia degli utenti che dei colleghi [Ridi, 2022, p. 329-330]. Trovare, in situazioni di crisi, il punto di equilibrio fra queste due opposte dinamiche non è affatto facile, come del resto non è mai banale affrontare un dilemma etico. In nessun caso, però, né le pressioni provenienti dall’esterno della professione né quelle che ne difendono l’autonomia dovrebbero prendere il sopravvento fino al punto di azzerare completamente la rilevanza né della libertà intellettuale né della responsabilità sociale.
La (eccessiva) responsabilità sociale è un vero problema
Ciò non significa però neppure che a entrambi tali valori si debba attribuire, salomonicamente, lo stesso identico peso, perché mentre la libertà intellettuale è, da una parte, il valore più specifico e caratterizzante delle biblioteche e dall’altra, un diritto umano spesso compresso o comunque non sufficientemente tutelato (soprattutto, ma non esclusivamente, nei regimi politici scarsamente democratici), la responsabilità sociale è per le biblioteche solo una sorta di contrappeso di garanzia che serve a evitare eccessi di isolamento sociale e di ‘iperprofessionalismo’ [Hauptman, 2002, p. 60-63; Ridi, 2011, p. 60-61], ossia un nome collettivo utilizzato per riferirsi a una vasta quantità di forze che agiscono comunque nella società, indipendentemente dall’esistenza stessa delle biblioteche e spinte da poteri enormemente più forti di esse. Quindi, mentre un eccesso di responsabilità sociale può facilmente annientare o stravolgere la funzione bibliotecaria – perché anche censurare o discriminare può essere una responsabilità sociale, se è la società che lo richiede – è difficile immaginare come un eccesso di difesa della libertà intellettuale da parte delle biblioteche possa seriamente mettere in pericolo qualsiasi tipo di società.
Inoltre investire parte delle scarse risorse delle biblioteche nelle priorità indicate dalla responsabilità sociale le distoglie dagli obiettivi che per le biblioteche sono invece primari e per i quali esse sono fra le istituzioni più specifiche, se non addirittura l'unica espressamente dedicata [Miller, 1993; Ridi, 2014]. Inversamente, invece, nessuna delle pur importanti missioni sociali che esulano dalle tradizionali vocazioni delle biblioteche può ragionevolmente sperare di ottenere dai loro magri bilanci e dal loro esiguo personale un aiuto decisivo.
Persino quando, fra tutti i valori chiamati in causa dalla responsabilità sociale, la biblioteconomia critica si focalizza su quelli, a prima vista inappuntabili, della giustizia sociale e dei diritti umani, possono sorgere alcuni problemi e paradossi, fra cui, ad esempio:
- Pressoché chiunque è favorevole, in astratto, al rispetto dei diritti umani e al conseguimento della giustizia sociale, ma poiché esistono vari modi in cui tali concetti possono essere definiti e articolati [Lener - Gatti, 2010; Viola, 2010] e ci sono un numero ancora maggiore di strumenti e strategie che possono essere considerati, di volta in volta, più efficaci nel perseguire tali obiettivi, chi e come stabilisce, in concreto, su quali specifiche battaglie ogni singola biblioteca deve far sentire la sua voce? Il direttore? Il sindaco o il rettore? L’assemblea del personale? Lo stagista che gestisce i social media della biblioteca? Oppure ciascun bibliotecario può e deve muoversi autonomamente, seguendo la propria coscienza? In quest’ultimo caso si genererebbe un caos simile a quello prospettatosi parlando del terzo tipo di neutralità, ma mentre se si resta nell’ambito della biblioteconomia tradizionale, della sua deontologia e dei rapporti di lavoro giuridicamente definiti è sempre abbastanza chiaro a chi spettano le decisioni che impegnano l’intera istituzione bibliotecaria e quali sono i margini per eventuali ‘obiezioni di coscienza’ individuali, il quadro diventa più complesso e ambiguo quando la biblioteconomia critica esorta ad adottare valori supplementari rispetto a quelli dei codici deontologici professionali o a modificare i reciproci rapporti di forza fra i valori standard dei bibliotecari, facendo appello a principi normativi indirizzati a qualsiasi essere umano.
- Ancora più radicalmente, esortando i bibliotecari a impegnarsi in comportamenti che non sono dettati né da obblighi giuridici nei confronti del proprio datore di lavoro né da obblighi morali nei confronti della propria comunità professionale, ma che vengono universalmente prescritti direttamente alla coscienza di ogni persona, la biblioteconomia critica non rischia di mettere in gioco valori (ad esempio religiosi o politici) che potrebbero entrare in contrasto non solo col proprio contratto di lavoro, con le leggi dello stato e con i codici deontologici, ma persino con l’equità sociale e i diritti umani stessi (o, almeno, con le loro interpretazioni più liberali e illuminate)? Ossia: l’esortazione ad andare controcorrente, opponendosi ai poteri reazionari con battaglie progressiste, non potrebbe paradossalmente giustificare anche battaglie altrettanto controcorrente, ma di opposizione reazionaria a poteri che talvolta potrebbero anche risultare progressisti?
- Una volta che si è accettato un principio, non lo si può applicare a intermittenza, in base all’emotività o agli orientamenti religiosi, politici e culturali. Se, in nome dei diritti umani e della giustizia sociale, si ritiene che vada ridotta o impedita la circolazione di documenti che attaccano o danneggiano minoranze oggettivamente deboli della società come i disabili e gli immigrati, si è disposti ad accettare che valga lo stesso anche per terrapiattisti e negazionisti? Se si vuole evitare che «collocare risorse sul cosiddetto disegno intelligente (o sul creazionismo) nella stessa area semantica in cui vengono collocate risorse sull’evoluzionismo [porti] a far sì che vengano posizionate sullo stesso piano scientifico e a una venga data una legittimazione che di scientifico ha ben poco» [Morriello - Sardo, 2023, p. 173], si è disposti anche a classificare Bibbia e Corano nella fantasy?
- Quell’inevitabile parte di utenti che non condividerà l’impegno ‘critico’, ‘progressista’, ‘radicale’ o ‘post-neutrale’ di una determinata biblioteca, e che quindi rimpiangerà le collezioni e i servizi ‘neutralmente imperialisti’ del passato senza peraltro apprezzare particolarmente le novità anticonformiste e controcorrente introdotte, dovrà rivolgersi ad altre biblioteche, indagando preventivamente sul loro orientamento?
- Collocando al centro della deontologia professionale bibliotecaria temi estremamente complessi e controversi sia dal punto di vista delle finalità politiche sia da quello degli strumenti tecnici come giustizia sociale, diritti umani e sostenibilità globale, che eccedono di gran lunga le tradizionali competenze bibliotecarie, non si rischierà di stravolgere il dibattito e la formazione biblioteconomica, che per adeguarsi dovrebbero rinunciare alle loro specificità, trasformandosi in corsi di laurea, convegni e riviste dove si discutono, si insegnano e si imparano soprattutto economia e politica?
Responsabilità sociale, libertà intellettuale e neutralità non sono (sempre) inconciliabili
La biblioteconomia critica fa benissimo a ricordare che essere dei veri professionisti, e non dei meri esecutori, implica il dovere di opporsi – quando è necessario, correndo eventualmente anche dei rischi personali – al proprio datore di lavoro e al conformismo sociale per difendere valori meritevoli, e fa bene anche a sottolineare che tali valori possono anche far parte di quelli inclusi nel vasto insieme delle istanze riassunte dal termine ‘responsabilità sociale’; ma scegliere, all’interno di tale insieme, obiettivi troppo ambiziosi rispetto alle risorse di cui le biblioteche dispongono, troppo eterogenei rispetto ai loro compiti istituzionali e troppo universali rispetto alle fonti normative su cui si basa la loro deontologia professionale, rischia di distogliere energie e di creare conflitti rispetto alle funzioni e ai valori più centrali delle biblioteche stesse.
Se invece, all’interno della responsabilità sociale, i bibliotecari decidessero di privilegiare, per le loro battaglie, soprattutto i valori più compatibili con la specificità della loro funzione sociale, gran parte di tali conflitti scomparirebbero o si attenuerebbero. Farlo non sarebbe, del resto, particolarmente difficile, perché, ad esempio, «l’impegno delle biblioteche per l’accesso all’informazione può essere considerato anche come un impegno per il progresso dei diritti umani e della giustizia sociale» [Gorham - Greene Taylor - Jaeger, 2015, p. 20], in quanto poter disporre di tutte le informazioni necessarie per lavorare, studiare ed esercitare in pieno il proprio ruolo di cittadini è ormai diventato un diritto umano paragonabile a quelli più tradizionali, e qualsiasi disparità e iniquità su questo fronte conduce a ingiustizie sociali sempre più gravi. E anche altri valori tipicamente bibliotecari, come ad esempio la difesa della privacy degli utenti [Nichols Hess - LaPorte-Fiori - Engwall, 2014; Cooke, 2018], giocano al tempo stesso a favore della libertà intellettuale (perché se non mi sento né spiato né giudicato mi sento anche più libero di leggere ciò che voglio), dei diritti umani (dei quali fa parte anche quello di disporre dei propri dati personali) e della giustizia sociale (perché tutti dovrebbero poter usufruire di tale protezione, e non solo chi può permettersi di procurarsela col denaro o grazie al proprio status sociale).
Il conflitto fra i valori della responsabilità sociale, della libertà intellettuale e della neutralità non è quindi una necessità ineluttabile, ma solo una eventualità che si verifica se i bibliotecari attribuiscono troppa importanza ad alcune responsabilità sociali che dovrebbero invece ricadere con lo stesso peso su tutte le componenti della società (o, addirittura, soprattutto su specifiche istituzioni ad esse dedicate) e non in modo particolare sulle biblioteche. «Responsabilità, neutralità e libertà possono convivere, perché la neutralità professionale è il mezzo più efficace per difendere la libertà intellettuale, garantendo la quale le biblioteche assolvono nel migliore dei modi la propria responsabilità sociale» [Ridi, 2014, p. 31].
È chiaro che le biblioteche hanno delle responsabilità sociali [Stevens, 1989, p. 17], come viene giustamente evidenziato dalla biblioteconomia critica. Ciò che invece è talvolta meno chiaro ai sostenitori di tale corrente è che la principale responsabilità sociale dei bibliotecari è quella di cercare di restare equidistanti, imparziali o ‘terzi’, (se tali termini disturbano meno di quello ‘neutrali’) rispetto alle innumerevoli, contrastanti e talvolta insidiose responsabilità a cui potrebbero immaginare di essere chiamati dalle varie componenti della società in cui sono immersi. Per avvicinarsi sempre di più a un’utopica imparzialità perfetta anche la biblioteconomia critica può però fornire un importante aiuto, svelando pregiudizi e prevenzioni che, inconsciamente, persino ai bibliotecari meglio intenzionati può capitare di nutrire.